Le debolezze politiche, economiche e sociali della nuova Libia
Medio Oriente e Nord Africa

Le debolezze politiche, economiche e sociali della nuova Libia

Di Andrea Ranelletti
24.02.2014

Penalizzata da istituzioni deboli e dal collasso della sicurezza nazionale, la Libia è oggi prigioniera di un’estenuante transizione verso la democrazia. L’ottimismo diffuso nel Paese a seguito della buona riuscita delle prime elezioni libere della sua storia nel luglio 2012 pare oggi poco più che un ricordo, a fronte dell’incertezza che pervade le previsioni sul futuro. L’incapacità del Governo di disarmare o includere all’interno delle forze dell’ordine nazionali le milizie che hanno combattuto Gheddafi nel corso della guerra civile fa oggi sì che la Libia sia preda delle scorribande di gruppi armati, intenti a imporre una giustizia personale e a dar luogo ad azioni di forza per mostrare il proprio potere: l’eclatante sequestro del Primo ministro Ali Zeidan, tenuto prigioniero nella mattina del 10 ottobre scorso dal sedicente gruppo “Revolutionaries’ Operation Room”, è l’esempio più evidente del dominio delle milizie e delle debolezze delle autorità centrali.

La difficoltà nel comprendere e indagare il fenomeno delle milizie, una galassia unita da legami e rivalità informali e da opache connessioni con i poteri politici e tribali, è alla base della loro forza. Nuove armate si formano e si sciolgono nel giro di pochi mesi e combattenti si affiliano ai vari gruppi spesso per ragioni di convenienza più che per convinzione ideologica. Si calcola che solo una ridotta parte delle centinaia di migliaia di miliziani attualmente attivi nel Paese abbia effettivamente preso parte ai combattimenti contro Gheddafi: un alto numero di combattenti avrebbe invece imbracciato le armi per opportunismo, spinti dal desiderio di potere o dalla carenza di opportunità lavorative.

Nelle varie regioni libiche, le milizie locali interagiscono di volta in volta con le tribù delle varie province, con gruppi islamisti e con i trafficanti che gestiscono i flussi di armi, droga ed esseri umani nell’intero Sahel. Le difficoltà nel controllo delle reti di relazioni aumentano l’imprevedibilità dei vari gruppi armati, rendendo difficile un loro inquadramento all’interno delle strutture statali. Esempio di tale complessità è dato dagli avvenimenti legati al Libya Shield, un insieme di milizie unite e finanziate dal Ministero della Difesa e degli Interni per cooptarle sotto l’autorità statale.

Spinto dall’ambizione di inquadrare i vari gruppi miliziani attivi nell’est della Libia all’interno del sistema di sicurezza nazionale e metterli sotto il controllo del Ministero della Difesa, il Governo transizionale libico ha deciso nel 2011 di legittimare alcuni di essi (in particolar modo le milizie attive nelle città di Kufra, Zintan, Benghazi e Sebha), garantendo loro armi e ampi finanziamenti statali. Il fallimento di tale esperienza ha costituito un duro colpo per lo Stato: il Libya Shield ha mantenuto l’intera autonomia, non rendendo mai conto delle proprie azioni alle autorità libiche. Esempio più eclatante di tale situazione si è avuto l’8 giugno 2013, quando membri della milizia hanno aperto il fuoco su dei manifestanti radunatisi a Benghazi per chiedere lo scioglimento del gruppo, accusato di aver occupato illegalmente un edificio di proprietà di una famiglia locale. Negli scontri hanno perso la vita oltre trenta cittadini libici. Gli avvenimenti hanno inoltre causato le dimissioni dell’allora capo delle Libya Ground Forces Youssef al-Manqoush, ma non l’arresto del leader del Libya Shield, Wissam Ben Hamid, che continua oggi a operare come capo-milizia nonostante il formale scioglimento del suo gruppo.

I tentativi del Governo Zeidan di porre un limite alle rivendicazioni dei gruppi armati che imperversano nel Paese si sono finora risolti in un costante fallimento. In più occasioni le milizie hanno mostrato la loro capacità di imporre i propri programmi all’interno dell’agenda governativa tramite l’uso della forza. L’approvazione della cosiddetta Legge sull’Isolamento Politico mette in luce l’entità della crisi di potere in atto: a cavallo tra aprile e maggio 2013, uomini armati hanno preso d’assedio le sedi dei Ministeri della Giustizia e degli Esteri, imponendo l’approvazione di un provvedimento che impedisse di rivestire cariche statali a chiunque avesse avuto incarichi di governo, nell’Esercito, nella polizia, nei servizi civili e giudiziari, nelle banche e nella Compagnia petrolifera nazionale. Messo alle strette, il Congresso Generale Nazionale ha successivamente approvato la legge lo scorso 5 maggio, causando il decadimento di membri del nuovo Governo, tra cui l’ex Presidente del Congresso Mohammed Magariaf.

La debolezza delle autorità centrali e il disordine diffuso stanno favorendo l’aumento delle rivendicazioni separatiste. A novembre, Ibrahim Jadhran, comandante delle Petroleum Facilities Guards (una milizia di quasi 20mila uomini che avrebbe dovuto agire a protezione degli impianti energetici della Cirenaica) ha annunciato la formazione di una compagnia petrolifera indipendente in Cirenaica, guidata dall’autoproclamato Governo regionale di Barqa. Da allora, gli uomini al servizio di Jadhran stanno sorvegliando porti e impianti della ricca regione petrolifera, denunciando le ingiustizie perpetrate dal Governo centrale e la necessità di una migliore distribuzione degli introiti tra le varie regioni. Nonostante i tentativi di avviare l’esportazione del petrolio in maniera autonoma non siano per ora andate a buon fine, l’azione del Governo regionale di Barqa ha rivelato l’entità delle fratture in seno alla Libia e la loro difficile ricomponibilità.

Ulteriore ragione di preoccupazione è inoltre data dall’aumento del peso dei gruppi islamisti all’interno della costellazione miliziana. Nonostante sia difficile comprendere il livello della penetrazione qaedista nel panorama libico, è evidente che alcuni gruppi, in primo luogo Ansar al-Sharia a Bengasi (recentemente inserita dal Dipartimento di Stato statunitense tra le organizzazioni terroriste mondiali), hanno agende operative affini a quella del movimento jihadista. Brigate estremiste legate ad Aqmi e attive nell’intera fascia saheliana hanno trovato in Libia un ambiente in grado di fornire riparo e protezione: il leader del “Movimento dei Figli del Sahara per la Giustizia Islamica” Lamine Bencheneb, che ha partecipato al fianco di Mokhtar Belmokhtar all’assalto del gennaio 2013 contro l’impianto estrattivo algerino di In Amenas, ha raccolto in quella occasione armi e reclute nella città libica di Ghat, nella regione meridionale del Fezzan, dove aveva stretto legami con le locali tribù e milizie islamiste.

La debolezza del controllo dello Stato libico sul sud del Paese costituisce un fattore di preoccupazione per l’intero Sahel: all’indomani dell’attacco del 23 maggio 2013 a una caserma militare di Agadez e a una miniera d’uranio di Arlit nel Niger, costato la vita a oltre 20 persone, il Presidente nigerino Mahamadou Issoufou ha puntato il dito contro il disordine libico, accusando apertamente Tripoli di rappresentare un pericolo per la stabilità della regione. Nel Fezzan, fitte relazioni intercorrono tra le tribù locali, miliziani islamisti e i gruppi jihadisti che operano nelle aree desertiche della fascia saheliana. L’assenza di qualsiasi forma di controllo dell’autorità statale sui confini meridionali del Paese nell’area di Ghat, Sabha, Ghadamis, Hun e Tamanhant fa sì che sia difficile monitorare l’entità del transito di militanti e dei traffici di armi e merci che avvengono in quelle aree. Questa situazione crea un terreno fertile per i gruppi jihadisti della regione, che sfruttano l’instabilità libica per trovare protezione nell’area, allestire le proprie basi logistiche e i propri campi di addestramento: all’indomani dell’intervento francese nel Mali del Nord nel gennaio 2013, il meridione della Libia ha costituito un importante riparo per i combattenti dei vari gruppi islamisti attivi nell’area.

Oltre alla presenza di brigate jihadiste nelle regioni meridionali, in altre aree del Paese, soprattutto nella zona di Derna, l’estremismo islamico ha una forte diffusione e permeazione all’interno della società: la città portuale è riparo sia della milizia Ansar al-Sharia, sia della Brigata dei Martiri di Abu Salim. Nonostante sia difficile definire il grado di collaborazione tra al-Qaeda nel Maghreb Islamico e i gruppi armati attivi nell’area, è assodata la presenza di militanti qaedisti nell’area: tra i più importanti i comandanti Abdulbasit Azouz e Abdel Hakim al-Hasadi. Derna è anche città di provenienza di Sufyan Ben Qumu, potente leader della milizia Ansar al-Sharia in Bengasi. Proprio nella cittadina di Derna erano inoltre basati numerosi membri del gruppo jihadista libico Libyan Islamic Fighting Group, attivo a partire dagli anni Novanta contro il regime di Gheddafi, che ha avuto contatti sporadici con al-Qaeda.

Non c’è solo la crescita del fenomeno jihadista in Libia a destar preoccupazione relativa all’assenza di sicurezza, ma anche il crollo delle esportazioni petrolifere: parte dei principali impianti di estrazione e dei porti che fungono da terminale per le esportazioni sono oggi inattivi o costretti a frequenti interruzioni nella produzione. Milizie ribelli, gruppi separatisti e lavoratori in sciopero stanno da mesi bloccando il flusso degli export, riducendo la produzione petrolifera ai minimi storici, limitando gli introiti del Paese e causando l’allarme internazionale a causa degli shock sui mercati. Nelle prime settimane di gennaio, il volume delle esportazioni petrolifere libiche è tornato a salire a circa 600mila barili di petrolio al giorno (ma nei mesi precedenti era sceso fino a 200mila barili di petrolio al giorno), un numero risibile se paragonato non solo ai 3 milioni e 200mila bpd che venivano esportati dalla Libia nel febbraio 2011, ma anche al milione e 600mila del giugno 2012.

Oltre alle problematiche di sicurezza, a complicare le prospettive di ricostruzione di Tripoli sono presenti criticità di carattere economico. La Libia è un eccellente esempio di come una grande disponibilità di risorse energetiche possa atrofizzare un sistema economico, rendendolo inefficiente e contribuendo alla sua chiusura. Una consistente rendita petrolifera ha consentito per decenni alla Libia di mantenere in attivo il proprio bilancio statale, effettuare audaci investimenti economici nel mondo intero, accumulare grandi riserve di denaro e dar forma a un pesante sistema di sussidi sociali utile a contenere il malcontento dei suoi cittadini. Prima vittima di tale situazione è stato il settore economico privato, reso atrofico e non competitivo dalla politica centralista di Gheddafi e incapace di produrre lavoro e ricchezza, mentre il settore pubblico veniva gonfiato a dismisura per generare occupazione e ridistribuire ricchezza.

La mancanza di certezze riguardanti il futuro del Paese sta impedendo che gli investitori internazionali sfruttino l’apertura del mercato libico seguita alla caduta di Gheddafi e portino i loro capitali in Libia. L’assenza di investimento estero diretto complica il percorso del Paese, che sta cercando di diminuire la propria dipendenza dai proventi petroliferi per sviluppare un’economia funzionante e sostenibile. Il clima di instabilità rende inoltre difficile effettuare riforme alla spesa pubblica, riconvertendo il sistema di sussidi sui costi per fornire più servizi ai cittadini e investire nella ricostruzione e nell’ammodernamento delle infrastrutture del Paese.

Appare chiaro come oggi le sorti della Libia siano univocamente legate alla capacità delle sue forze politiche di costruire un’agenda comune e di individuare strategie utili a restituire sicurezza e stabilita nel Paese. La moltiplicazione dei nuclei di potere e dei gruppi di interesse nel Paese rendono però improbabile che, almeno nel breve e medio termine, le istituzioni libiche sappiano trovare concordia e forza utili a portare a termine tale processo in maniera autonoma. Forme di assistenza internazionale alla transizione libica verso la democrazia appaiono più che mai indispensabili per dare al Governo libico lo slancio necessario a riprendere in mano le redini del Paese.

Negli ultimi mesi, il dibattito sulle forme e le modalità con le quali la Comunità Internazionale potrebbe ulteriormente aiutare la ricostruzione libica ha assunto nuovo slancio.

Uno dei Paesi più coinvolti ed interessati alla pacificazione libica è l’Italia, che sta oggi giocando un ruolo di primaria importanza nel supportare l’impegno del Governo libico nella costruzione di un esercito in grado di affrontare i problemi della sicurezza interna. Una serie di missioni di addestramento del personale militare libico sono state avviate nell’ambito dell’Operazione Coorte: a partire dall’ottobre 2013, è iniziato un percorso di formazione di 18 mesi per un totale di 2.000 membri delle Forze armate e di sicurezza libiche; l’Operazione prevede l’invio di istruttori dell’Esercito italiano in Libia e l’arrivo di reclute libiche nei campi di addestramento di Cassino e Persano.

La pacificazione della Libia e la creazione di una Forza Armata locale in grado di affrontare le problematiche legate al terrorismo e alla criminalità appare fondamentale per ridurre i rischi alla sicurezza italiana ed europea. Infatti, l’attuale instabilità ha permesso il significativo aumento del flusso di clandestini diretti verso le sponde settentrionali del Mediterraneo. Tale business, gestito dai criminali locali e che vede la partecipazione attiva di miliziani e di organizzazioni terroristiche, costituisce una minaccia concreta per la stabilità europea e per la vita dei migranti, che spesso viaggiano in condizioni inumane e perdono la vita in mare. Per cercare di arginare questo fenomeno, il 18 ottobre 2013 l’Italia ha avviato l’Operazione Mare Nostrum, che ha lo scopo di monitorare i flussi migratori provenienti in particolar modo dalle coste della Libia e della Tunisia, garantendo lo svolgimento di operazioni di sorveglianza e soccorso anche al di fuori delle acque territoriali italiane. L’Operazione, avviata in seguito al naufragio di un’imbarcazione salpata dalla cittadina libica di Misurata che causò il 3 ottobre scorso la morte di 366 migranti clandestini al largo di Lampedusa, è possibile grazie alla coordinazione di forze tra Aeronautica Militare, Marina Militare, Capitaneria di Porto, Guardia di Finanza e Polizia.

Sostenere il percorso della Libia verso la ricostruzione statale rappresenta una priorità per garantire un futuro di stabilità per il Nord Africa e l’intero Mediterraneo. La Libia non sembra in grado di riuscire a districare in maniera autonoma i nodi che le impediscono di portare a termine la propria transizione. Legami troppo stretti uniscono potere politico e gruppi armati nel Paese perché il Congresso possa riuscire a riprendere in mano in maniera autonoma la situazione. Solo fornendo al Governo libico le competenze e le capacità necessarie alla costruzione di istituzioni robuste e alla formazione di Forze di sicurezza in grado di combattere l’illegalità imperante, sarà possibile aiutare Tripoli a completare la propria transizione verso la democrazia.

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