Elezioni in Kosovo: la strada europea di Pristina e Belgrado passa per Mitrovica
Russia e Caucaso

Elezioni in Kosovo: la strada europea di Pristina e Belgrado passa per Mitrovica

Di Fabiana Urbani
17.11.2013

Lo scorso 3 novembre si sono svolte le elezioni amministrative in Kosovo, alle quali hanno partecipato 1 milione e 800 mila tra kosovari di etnia albanese e serba. Gli elettori dovevano eleggere i sindaci e i consiglieri in 36 municipalità per un mandato di 4 anni. Il voto rappresentava un test chiave per la normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado mediata dall’UE, che proprio in questo periodo ha rilanciato il percorso d’integrazione dei due Paesi balcanici nell’Unione Europea. L’attenzione era concentrata sulla minoranza serba, costituita da circa 120.000 persone, di cui 40.000 nelle quattro municipalità settentrionali (nord di Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavici). La partecipazione al voto dei serbi, infatti, costituiva il nodo principale dello storico accordo firmato lo scorso 19 aprile tra i due Paesi, che avevano concordato la creazione di un’Associazione di municipalità a maggioranza serba in Kosovo e l’integrazione nelle istituzioni di Pristina delle strutture “parallele” serbe. Quest’ultime, finanziate e appoggiate da Belgrado, costituiscono l’apparato di sicurezza preesistente alla missione delle Nazioni Unite in Kosovo, che dopo il 1999 non è mai stato smantellato, creando de facto una seconda entità governativa rispetto alle istituzioni kosovare; come evidenziato dal report dell’OSCE del 2003, le strutture parallele amministrano la giustizia, la sicurezza (attraverso i “Guardiani del Ponte”), l’educazione, la sanità.

Gli appelli al voto erano arrivati sia dal Primo Ministro kosovaro Thaci che da quello serbo Dacic, nel tentativo di convincere i serbi a recarsi alle urne dopo la campagna di boicottaggio degli estremisti e dei nazionalisti legati a Belgrado, secondo i quali le elezioni rappresenterebbero un ulteriore passo verso la legittimazione dell’indipendenza kosovara. Tra le varie formazioni partecipanti alle consultazioni vi era la lista “Iniziativa Civica Srpska”, che si proponeva di raccogliere i consensi della minoranza serba, e il Partito Democratico di Serbia (DSS) guidato da Vojislav Koštunica, ex Presidente della Repubblica Federale Jugoslava ed ex Primo Ministro serbo favorevole al boicottaggio delle elezioni. A Pristina era candidato Agim Çeku, ex leader dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), e attuale Ministro delle Forze di Sicurezza. Come molte personalità legate all’organizzazione paramilitare che ha guidato l’indipendenza della Repubblica balcanica, Çeku ha aderito al Partito Democratico (PDK) del Premier Thaci. Ad opporsi al partito presidenziale vi era la Lega Democratica del Kosovo (LDK), fondata dal primo Presidente del Kosovo Ibrahim Rugova e attualmente guidata dal sindaco uscente di Pristina, Isa Mustafa, che si è candidato per la terza volta alla guida della capitale. Nel panorama partitico kosovaro si annovera anche l’Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK), che per la prima volta ha visto la partecipazione del suo Presidente ex Primo Ministro kosovaro Ramush Haradinaj, di recente assolto dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra. Infine, hanno partecipato alle elezioni il partito nazionalista albanese Vetevendosje (“Autodeterminazione”) di Albin Kurti e l’Alleanza del Nuovo Kosovo dell’imprenditore Bexhet Paçolli. Le elezioni amministrative del 3 novembre sono state le prime dopo quelle del 2009, quando gli abitanti serbi del nord boicottarono le consultazioni indette da Pristina partecipando ad una tornata organizzata da Belgrado.

Come si temeva, nelle quattro municipalità settentrionali serbe e in particolare a Mitrovica si sono registrati scontri durante le votazioni, che hanno costretto ad annullare i risultati elettorali e a stabilire un secondo turno di consultazioni in tre circoscrizioni. Già prima dell’apertura dei seggi il clima era molto teso e si erano registrati diversi atti di violenza, fino all’omicidio di un militante dell’AAK il 2 novembre. Le violenze di Mitrovica hanno costretto la KFOR, missione internazionale guidata dalla NATO nella quale opera anche un contingente italiano, ad intervenire per ristabilire l’ordine, mentre gli osservatori dell’OCSE sono stati obbligati a ritirarsi.

La ritrosia verso Pristina dei distretti a nord del fiume Ibar, confine non solo fisico ma anche simbolico tra albanesi e serbi del Kosovo, si era già manifestata il 12 e 13 febbraio 2013, quando nelle quattro municipalità a maggioranza serba del nord era stato indetto un referendum, non riconosciuto da Pristina e non sostenuto da Belgrado, con il quale il 99,74% dei votanti aveva espresso il suo rifiuto ad accettare le istituzioni della neonata Repubblica kosovara. Il fiume Ibar, infatti, scorre attraverso la città di Mitrovica, roccaforte della minoranza serbo-kosovara, segnando il confine con il resto della popolazione di etnia albanese. La bassissima affluenza alle urne nei distretti settentrionali serbi (intorno al 7%) e le violenze hanno dunque segnato una battuta d’arresto nel processo di dialogo tra Kosovo e Serbia e nel loro cammino verso l’integrazione nell’Unione Europea. Le elezioni hanno tuttavia evidenziato una spaccatura tra i serbi del nord e quelli del sud (questi ultimi concentrati nelle città kosovare di Gračanica, Parteš, Ranilug, Klokot, Novo Brdo e Štrpce), che hanno invece partecipato più numerosamente alle elezioni (sfiorando punte del 50%), dimostrando una concreta apertura al dialogo con Pristina.

Nonostante gli scontri a Mitrovica, sono proseguiti gli sforzi diplomatici dei Primi Ministri kosovaro e serbo, nel tentativo di pacificazione voluto da Bruxelles e coordinato dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE Catherine Ashton. La prospettiva dell’integrazione europea, infatti, ha spinto i due Paesi ad ammorbidire le loro posizioni: Pristina ha accettato di riconoscere uno statuto di autonomia alla minoranza serba, mentre Belgrado, pur ribadendo la propria contrarietà al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, ha accettato di dialogare con la neonata Repubblica balcanica. I compromessi raggiunti dai due Paesi hanno consentito l’apertura dei negoziati sull’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) tra Kosovo e Unione Europea (il 28 ottobre scorso) e l’inizio della fase preparatoria dei negoziati di adesione all’UE della Serbia (il 25 settembre). Fondamentale è stato il nuovo atteggiamento serbo nei confronti del Kosovo: dopo il parere della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), che nel 2008 ha statuito che l’auto-proclamazione dell’indipendenza da parte di Pristina non violava il diritto internazionale, la Serbia si è vista costretta ad aprire al dialogo con il Kosovo, sacrificando le sue ambizioni alla prospettiva di integrazione europea. I rapporti con Pristina, infatti, rimanevano l’ultimo ostacolo per la ripresa del cammino serbo verso Bruxelles, dopo la risoluzione delle questioni dei criminali di guerra e della minoranza valacca. L’Olanda, infatti, si è opposta all’ufficializzazione dello status di candidato di Belgrado fin quando non sono stati consegnati alla Corte dell’Aja i criminali della guerra jugoslava Radovan Karadzic, Ratko Mladic e Goran Hadzic; per Amsterdam l’arresto dei militari serbi responsabili della pulizia etnica nella ex Jugoslavia era fondamentale, dal momento il battaglione olandese Dutchbat operava a Srebrenica nei giorni del massacro del 1995 e non intervenne a difesa della popolazione musulmano-bosniaca. In seguito, a porre il veto era stata la Romania, che pretendeva garanzie sulla protezione della popolazione rumena che vive in territorio serbo, in particolare nella Vojvodina e nella Valle di Timoc.

Nonostante la Serbia si sia mostrata disposta a negoziare con il Kosovo, continua a non riconoscere l’indipendenza di Pristina né ad accettarne l’ingresso nell’ONU e o in altri organismi internazionali. Anche l’accordo dello scorso aprile è stato firmato mantenendo una certa equidistanza di posizioni sullo status internazionale del Kosovo in linea con la Risoluzione 1244/1999 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’opinione della CIG. Il dialogo “forzato” con il Kosovo, infatti, comporta non pochi problemi per Belgrado, soprattutto a causa dell’opposizione dei nazionalisti. Questi ultimi ritengono che il Kosovo e Metohija rappresentino il cuore della nazione serba, dal momento che nella Piana dei Merli, odierna Kosovo Polje, si svolse nel 1389 una storica battaglia tra serbi e ottomani, sulla quale si è costruita l’identità nazionale serba. Rinunciare al Kosovo, dunque, significherebbe per i nazionalisti perdere il territorio simbolo della propria storia, ma allo stesso tempo rappresenta la condicio sine qua non per aprire le porte dell’Unione Europea. Dall’altro lato, anche Pristina deve fare i conti con gli estremisti albanesi, contrari alla concessione dell’autonomia ai distretti serbo-kosovari, e con le resistenze al suo avvicinamento all’Unione Europea da parte dei Paesi membri che non ne hanno riconosciuto l’indipendenza. Ancora oggi, infatti, Spagna, Romania, Slovacchia, Cipro e Grecia non riconoscono il Kosovo a causa delle difficoltà interne con le proprie minoranze: Madrid con i separatisti baschi, Bucarest e Bratislava con le minoranze magiare, Cipro per la parte settentrionale del Paese de facto autonoma, e Atene per la questione macedone. Si sono opposti al riconoscimento del Kosovo anche la Federazione Russa, alleata della Serbia, e la Cina; negli stessi Balcani, il Kosovo non è riconosciuto neanche dalla Bosnia-Erzegovina e dalla Moldavia. In totale, i Paesi che hanno riconosciuto formalmente Pristina sono 106 su un totale di 193 membri delle Nazioni Unite.

Il Kosovo, inoltre, deve affrontare questioni delicate legate alla sua attuale dirigenza, coinvolta in inchieste su attività illecite criminali e per crimini contro l’umanità (come il caso dell’ex Primo Ministro kosovaro Fatmir Limaj per il massacro di Klepca, per il quale venne giudicato innocente). Il PDK guidato dal Primo Ministro Thaci, è stato messo a dura prova dai numerosi casi di corruzione e connivenza dei suoi uomini con le organizzazioni criminali; lo stesso Thaci, ex capo politico dell’UCK, è stato coinvolto in uno scandalo sul traffico di organi di cittadini serbi. L’EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), la missione dell’Unione Europea che dal 2008 affianca il governo di Pristina nella costruzione di uno Stato di diritto, ha istituito un Tribunale competente a giudicare la colpevolezza delle autorità kosovare, che tuttavia ha assolto diversi responsabili di traffici illeciti, come l’ex Ministro della Sanità del Kosovo Ilir Rrecaj. In effetti, le recenti elezioni amministrative hanno rilevato un calo di consenso verso il PDK, a favore dell’opposizione dell’LDK.

La stabilizzazione della regione balcanica rappresenta una priorità per l’Italia, sia in termini di sicurezza che di prospettive economiche. Il caos istituzionale in Kosovo, infatti, consente alle associazioni criminali di trafficare droga, armi ed organi umani, costituendo un forte pericolo per i Paesi dell’Unione Europea e per l’Italia in particolare. Si deve ricordare, inoltre, che un reparto del contingente italiano in Kosovo controlla e gestisce l’aeroporto di Dakovica, utilizzato durante la guerra per scopi umanitari e militari e in seguito riconvertito in scalo civile.

La strada verso la normalizzazione dei rapporti si preannuncia ancora lunga, come testimonia la bomba lanciata contro la sede del partito PDK a Kosovska Mitrovica lo scorso 7 novembre. L’intento dei due Premier, tuttavia, è quello di proseguire nel dialogo per poter sbloccare i fondi UE, necessari per avviare le riforme strutturali in Serbia e in Kosovo. Intanto, il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha escluso una riduzione del contingente che opera in Kosovo, sottolineando che la tensione è ancora troppo alta. In attesa dell’incognita del secondo turno elettorale, vi è una certezza: il futuro europeo di Pristina e Belgrado passa per Mitrovica.

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