La lotta alla pirateria somala e il ruolo economico e sociale dei Jiin
Africa

La lotta alla pirateria somala e il ruolo economico e sociale dei Jiin

Di Gabriele Ingrosso
14.10.2013

Ogni giorno al largo delle coste somale si registrano numerosissimi atti di pirateria, tali da rappresentare una delle maggiori preoccupazioni per l’intera comunità internazionale. La problematica è legata alla sicurezza del Golfo di Aden uno dei tratti di mare maggiormente solcati dalle rotte commerciali marittime (all’incirca 20.000 imbarcazioni l’anno).

Il fenomeno è estremamente rilevante sia dal punto di vista economico che da quello della sicurezza, e nonostante la sua origine risalga agli anni '90, quando ha avuto inizio la sanguinosa guerra civile che ha condotto la Somalia in uno stato di grave caos istituzionale, solo negli ultimi anni esso è stato posto al centro delle cronache nazionali e internazionali. La debolezza delle istituzioni centrali somale ha certamente favorito la proliferazione di un fenomeno criminale che ha assunto dimensioni e gravità rilevanti, fino a raggiungere il culmine nella seconda metà degli anni 2000, interessando un’area che si estende sull’intero Golfo di Aden fino a toccare l’oceano Indiano, lambendo quindi non solo le coste somale ma anche quelle di Tanzania, Kenya, Seychelles e Madagascar.

Le prime azioni internazionali di contrasto al fenomeno, intraprese nel 2005 a seguito delle preoccupazioni espresse dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio e dall’Organizzazione Marittima Internazionale, si sono sostanziate nella creazione della Combined Task Force 150: una task force marittima internazionale nata al fine di condurre Operazioni di Sicurezza Marittime (M.S.O.) per il contrasto della pirateria. L’efficacia della coalizione multinazionale però è stata molto limitata a causa dei vincoli contenuti nella Convenzione ONU sul Diritto del Mare che ne confinavano l’attività alle sole acque internazionali.

E’ solo dal 2008, anno in cui si sono verificati ben 111 attacchi a diverse navi commerciali, che la lotta ai pirati somali, detti jiin, ha assunto una posizione centrale nell’agenda della Comunità Internazionale. In seguito ad una richiesta d’aiuto inviata dal Governo Federale Transitorio somalo, schiacciato tra l’aggravarsi del fenomeno della pirateria e l’incremento delle attività da parte dei movimenti islamici radicali di guerriglia, si è assistito ad un intervento da parte dell’ONU. La risoluzione n.1816/2008, ha modificato l’ottica strategica dell’attività anti-pirateria: gli Stati sono stati autorizzati ad estendere la propria attività di contrasto anche alle acque territoriali somale, previa autorizzazione del Governo Federale Transitorio. Questa risoluzione, tanto agognata da tutti i Paesi interessati alla sicurezza di quel tratto di mare, per la prima volta tentava di ovviare all’incapacità di alcuni governi regionali, quali quelli di Puntland e Somaliland (le due regioni più “stabili” nel panorama politico somalo), di cercare di porre autonomamente rimedio alle attività degli jiin.

L’autorizzazione all’intervento in acque somale, in deroga alle norme di diritto internazionale del mare e ribadita nella successiva risoluzione n.1851/2008, ha spinto l’intera comunità internazionale a prodigarsi nel mettere in pratica le disposizioni adottate, le quali hanno donato piena legittimità ad attività militari ad ampio spettro al fine di mettere in sicurezza l’area.

E’ stata dunque stata inaugurata, in ambito NATO, l’Operation Allied Provider (Ottobre-Dicembre 2008). Gli apparenti successi dell’operazione, assieme alle ulteriori risoluzioni del CdS che hanno costantemente prorogato la durata delle autorizzazioni contemplate nella n. 1851/2008, hanno portato alla successiva Operation Allied Protector (Marzo-Agosto 2009). L’Italia ha partecipato ad entrambe le operazioni con unità navali (tra le altre, il cacciatorpediniere Durand de la Penne nell’Operation Allied Provider e la fregata Libeccio nell’Operation Allied Protector) inquadrate negli Standing Nato Maritime Group 1 e 2 (SNMG 1 - SNMG2). Successivamente, nell’agosto 2009, in risposta all’annus horribilis della pirateria (222 attacchi al largo delle coste somale dal 1 gennaio 2009 al 30 dicembre 2009 secondo il report annuale dell’Organizzazione Marittima Internazionale), è stata varata l’Operation Ocean Shield (alla quale l’Italia ha preso parte con diverse unità navali); quest’ultima operazione ha ampliato la strategia di lotta alla pirateria prevedendo l’autorizzazione all’intervento anche su richiesta degli Stati rivieraschi del Golfo di Aden interessati dal fenomeno.

Non diversamente, l’Unione Europea ha intrapreso un’autonoma iniziativa varata nel 2008 e denominata EU NAVFOR Somalia - operazione Atalanta, cui l’Italia attualmente partecipa con diverse unità navali, tra le quali in particolare la nave da rifornimento Etna e, ultimamente, la nave d’assalto anfibio San Giusto, sedi del Comando della Missione rispettivamente nel 2010 e nel 2012.

La missione, la cui durata era stata inizialmente prevista fino al 2012, è stata prolungata fino al 2014, attraverso la decisione n. 2012/174/CFSP. In occasione dell’estensione della durata della missione si è tentato di dare maggiore efficacia alla strategia di lotta. E’ stato anche previsto, sfruttando gli ampi termini della risoluzione n. 1851/2008 legittimante l’utilizzo di “all necessary measures appropriate in Somalia”, che le forze inquadrate nell’abito della Missione Atalanta possano agire non più soltanto in mare ma altresì sulle coste somale.

Risulta agevole constatare che le forze schierate dal 2008 sono state costantemente incrementate e i loro poteri progressivamente ampliati. Le ragioni di tale perdurante sforzo sono legate all’esistenza di specifici vincoli di giurisdizione non considerati dalle risoluzioni adottate e che spesso, anzi che permettere la celebrazione di un processo nei confronti dei sospetti pirati, hanno condotto alla loro liberazione sulla costa e, di conseguenza, alla prosecuzione dell’attività criminosa.

L’incapacità di schierare un dispositivo di sicurezza adeguato da parte delle autorità somale rimane, quindi, al centro delle preoccupazioni della Comunità Internazionale. La stessa strategia europea di estendere le attività di contrasto anche entro alcune miglia sulla terraferma da una parte ha ridotto le disponibilità logistiche dei pirati somali, ma dall’altra non è stata in grado di ovviare al problema principale, e cioè quello di stabilire una volta per tutte nell’ambito di quale giurisdizione si possa legittimamente ed efficacemente giudicare gli autori degli atti di pirateria nel Golfo di Aden.

Gli sforzi sono stati innumerevoli e le politiche adottate molto variegate. Dalla sola giurisdizione delle Corti di Putland e Somaliland contemplata dalla risoluzione n. 1816/2008, si è passati ad una giurisdizione condivisa con gli altri Stati dell’area, coadiuvati finanziariamente e logisticamente dalle forze militari impegnate nello stesso tratto di mare, prevista dalla risoluzione n. 1851/2008. Fino ad oggi, però, appare chiaro che il problema non ha trovato soluzione. Le ipotesi prospettate, dalla creazione di un tribunale ad hoc alla celebrazione dei processi da parte di corti straniere, contenute in particolare nel Rapporto redatto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite nel 2010, non sono sembrate sufficientemente efficaci o quanto meno praticabili.

Ugualmente la comunità internazionale non si è opposta in maniera efficace all’economia derivante degli introiti della pirateria concentrandosi in maniera quasi univoca sull’attività di contrasto in mare e sui problemi giurisdizionali legati al fenomeno. Il valore economico dell’attività è, invece, ingente e i suoi effetti si ripercuotono non soltanto nel campo dell’economia ma anche della politica interna somala.

Il giro d’affari degli jiin supera gli 80 milioni di dollari l’anno e ad agosto 2012, l’anno nero per i pirati ha comunque raggiunto quasi i 30 milioni di dollari. I pirati non sono più soltanto dei criminali locali, i loro capi somigliano ormai alle figure di vertice delle maggiori attività criminali internazionali con interessi dislocati in ogni angolo del globo.

La maggior parte degli proventi si muove attraverso il sistema hawala, un metodo di trasferimento del credito di origine antichissima che prevede l’utilizzo di una rete fiduciaria di intermediari sparsi al di fuori del territorio somalo, i quali sanno che i loro rappresentanti in Somalia hanno ricevuto la stessa quantità di denaro che loro sborsano: in tal modo i soldi molto raramente lasciano fisicamente il Paese e la loro tracciabilità risulta molto complicata. Con questo metodo, anche oggi che gli introiti delle scorribande piratesche sono in netto calo, i capi degli jiin riescono a ripulire e far fruttare i loro patrimoni che prima venivano impiegati in attività principalmente illegali, come ad esempio nel traffico di armi, o per l’acquisto di beni semplici (auto e case).

Oggi gli investimenti che vengono spesso realizzati con l’aiuto di individui emigrati in seguito alla diaspora somala hanno il loro principale centro finanziario a Dubai e si sono concentrati, tra gli altri, in Gibuti e in Kenya, luoghi dove è forte la presenza di comunità somale. Si stima, per esempio, che una delle maggiori speculazioni immobiliari africane, quella del sobborgo di Eastleigh a Nairobi, sia stata finanziata con i proventi derivanti dall’attività dei pirati nel Golfo di Aden.

Inoltre, report delle intelligence occidentali segnalano come il bilancio annuo delle autorità centrali somale sia inferiore a quello degli jiin e come questi stiano acquisendo un potere quasi politico nei piccoli centri urbani. In queste realtà i pirati spesso provvedono alla primaria sussistenza della popolazione, sostituendo lo Stato e conquistando la fiducia delle masse, complicando così ancor di più la difficile stabilità politica della Somalia.

Il problema, quindi, non risiede nella strategia di lotta in mare che potrebbe risultare efficace nel contrasto quotidiano, ma nella strategia di lotta sulla terraferma, unica via per l’eliminazione del fenomeno. L’instabilità del Governo somalo e l’influenza sempre maggiore che su di esso esercitano i pirati sono eclatanti (come dimostra il caso del passaporto diplomatico concesso dall’ex Presidente della Repubblica somala Sheik Sharif Sheik Ahmed al pirata Mohammed Abdi Hassan nel 2012) e non favoriscono il percorso verso l’eliminazione del fenomeno.

Ad oggi, il contrasto sembra dover passare necessariamente attraverso la stabilizzazione della regione: l’attività di contrasto in mare, che ha comunque registrato risultati importanti (stimati in una riduzione del numero di attacchi superiore al 30% per trimestre dal gennaio 2012 in poi), non appare sufficiente a mettere alle strette i pirati e non sembra neppure rappresentare un deterrente.

La Comunità Internazionale deve prendere atto non soltanto delle proprie necessità, legate alla salvaguardia delle rotte commerciali, ma anche degli obblighi storici nei confronti della Somalia. Dopo un decennio di impegno continuativo, la Comunità Internazionale è chiamata ha riflettere e, se necessario, modificare in parte la linea strategica adottata sin ora, continuando l’opera non solo militare, ma anche e soprattutto sociale nell’entroterra, bacino di reclutamento e di manodopera per i pirati.

La lotta alla pirateria passa chiaramente per la stabilizzazione politica intrapresa con la Costituzione Federale emanata nel 2012, e le scelte strategiche future dovranno seguire questa linea per poter rivelarsi efficaci. Nel frattempo le attività dei pirati continuano a moltiplicarsi, la forza economica e l’influenza degli jiin continua ad aumentare. L’urgenza di un’azione volta ad arginare il problema è pressoché innegabile.

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