Prospettive del federalismo come strumento di riconciliazione in Somalia
Africa

Prospettive del federalismo come strumento di riconciliazione in Somalia

Di Marco Zoppi
16.06.2013

Con la Costituzione approvata nel 2012, la Somalia ha intrapreso un nuovo percorso per consolidare la formazione di un nuovo governo centrale dopo 25 anni di susseguirsi d’istituzioni provvisorie e di transizione. Poiché il nucleo della questione somala giace nel rapporto tra i clan e nell’armonizzazione delle diverse fonti di autorità, lo studio del federalismo, così com’è stato formulato finora, permette di fare luce sull’andamento del processo di riconciliazione nazionale e sulle possibilità concrete di superare un’impasse politica più che ventennale.

L’ordinamento in senso federalista dello Stato somalo è stato deciso dall’Assemblea Costituente Nazionale, che ha adottato la Costituzione Federale Provvisoria il primo agosto 2012. L’Articolo Primo sancisce inequivocabilmente che: “la Somalia è una Repubblica federale, sovrana e democratica fondata sulla rappresentazione inclusiva degli individui, su di un sistema multipartitico e sulla giustizia sociale”, mentre un Protocollo dello stesso anno delinea la suddivisione amministrativa della Somalia, anch’essa provvisoria, in 18 stati federali (gobollada), come previsto dall’ordinamento del 1991.

Tuttavia, né la Carta costituzionale né altri documenti forniscono un quadro completo dell’impianto federale, rimandando ulteriori ma fondamentali specificazioni a tre organi: la Camera dei Rappresentanti (la camera bassa del Parlamento Federale), una Commissione Nazionale nominata dalla Camera dei Rappresentanti, i parlamenti degli stessi stati federali. Gli articoli della Costituzione dedicati al federalismo sono contenuti nel “Capitolo 5: Trasferimento dei poteri del governo nella Repubblica Federale Somala”: si tratta degli artt. da 48 a 54. L’articolo 49 è destinato ad occupare il dibattito interno dei prossimi mesi, e ci riporta alla sopracitata Commissione Nazionale. Il documento fondamentale infatti affida alla Camera il compito di definire: le responsabilità ed i poteri della Commissione; i parametri e le condizioni da impiegare per stabilire gli Stati membri federali ed infine il numero dei commissari, i requisiti per la nomina e la durata del mandato.

A causa delle consolidate dinamiche inter-claniche somale, è lecito aspettarsi che i membri della commissione, una volta nominati, saranno subito identificati attraverso l’appartenenza al loro specifico clan (Darod, Dir, Hawiye, Isaq o Rahanwiin). Indi per cui l’operato e le scelte dei commissari saranno sottoposti al vaglio dei leader tribali. Infatti, un’analisi esauriente del federalismo somalo deve tenere conto, oltre che dell’architettura costituzionale, anche dello scollamento che si verifica tra il testo scritto e la realtà, al netto sia della distribuzione del potere informale (o extra-istituzionale), sia del potere tradizionale.

Il potere tradizionale in Somalia si esprime sostanzialmente nelle dinamiche tra clan. L’appartenenza ad un clan è determinata dalla linea di discendenza maschile, e il valore identitario che essa convoglia supera quello della religione o di qualsivoglia ideologia: il clan, in Somalia, ha la precedenza su tutto. Non sorprende, dunque, che la società somala sia caratterizzata da un alto livello di frammentazione, dove la distanza delle genealogie più che la collocazione geografica definisce lo stato delle relazioni tra gruppi. In sostanza, vivere in una stessa regione non presuppone automaticamente che tra i clan vigano relazioni stabili. Queste ultime sono regolate dall’heer: per molto tempo tramandato solo oralmente, l’heer è l’insieme delle norme tradizionali e consuetudinarie a cui si fa ricorso per amministrare e regolare l’utilizzo dei pascoli, la pastura, le foreste, l’acqua, la pesca ed il commercio marittimo. L’heer indica anche l’accordo stretto tra due clan, che accettano così di essere governati dalle stesse leggi. Queste norme sono affiancate e s’integrano con la legge islamica (sharia) che regola soprattutto quelli che in Europa sarebbero casi di diritto civile. L’heer dota inoltre i clan di tutti i meccanismi per il risolvimento delle controversie, al fine di lasciare lo scontro come ultima evenienza. Lo strumento principale è quello dei consigli tradizionali, gli shir (assemblee di anziani), cui è riservata la funzione di riportare la pace tra due clan in lite.

È chiaro che la coesistenza di diverse fonti di autorità (governo; shir) e fonti del diritto (heer; sharia; civil law) ci pone innanzi alla questione di come il federalismo, elaborato sulla base di modelli occidentali, possa interagire con forme autoctone di diritto che, con la tradizione giuridico-amministrativa occidentale, non hanno nulla a che fare. Si possono sottolineare infatti alcuni elementi di rischio per il rapporto tra federalismo e potere tradizionale, che verranno di seguito analizzati.

Il primo nodo da risolvere è dunque quello riguardante il rapporto del diritto consuetudinario con le nuove disposizioni federali. Attualmente, lo scarso dettaglio normativo non rende possibile capire la reale influenza dell’heer e dei consigli, soprattutto in quelle aree rurali dove essi sono più radicati e dove costituiscono la fonte primaria del diritto. A questo proposito occorre ricordare come già in passato si è assistito al tentativo fallito, da parte di Siad Barre, di rimpiazzare la legge tradizionale con i dettami del socialismo reale d’impronta marxista.

Un secondo rischio che sembra opportuno evidenziare è l’eventualità dell’instaurazione di un federalismo dei clan, piuttosto che delle regioni, ovvero una “tribalizzazione” su base federale della Somalia: la traslazione delle rivalità al livello regionale. L’attuale distribuzione dei clan si presta già ad un fenomeno di questo tipo, in particolare con una presenza di Hawiye nell’area di Mogadiscio, di Dir e Isaq nel Nord, dei Digil-Rahanwiin nella parte meridionale ed i Darod sia al centro che a sud. Ogni clan con i propri interessi, risentimenti e rivendicazioni, secondo schemi consolidati. Questa è la dimensione politica del federalismo, che può portare ad un trinceramento territoriale dei clan, congeniale allo sfruttamento della maggiore autonomia al fine di aumentare i propri spazi di manovra e che potrebbe portare anche a nuove rivalità: un discorso che potrebbe interessare, in particolare, Mogadiscio, al momento roccaforte degli Hawiye.

Il terzo elemento di analisi dipende strettamente dai precedenti. La risoluzione delle dispute in seno ai clan è affidato, come visto, agli shir. Dopo il collasso del governo, c’è stato un grande aumento di aggressioni e omicidi. L’incapacità di pagare le numerose diyah (compensazioni) ha portato ad una degenerazione verso la logica dell’occhio per occhio, bypassando gli shir ed i mediatori. Garantire la pace tra le milizie claniche e risolvere in maniera efficace le dispute sono dunque tra i pilastri della ricostruzione somala. Il pagamento della diyah (in genere con cammelli e altro bestiame) scoraggia il ricorso ad altre punizioni e regolarizza l’accesso alla terra e alle risorse, per molti somali motivo della caduta dello Stato nella sanguinosa guerra civile.

Se il potere tradizionale introduce alcuni elementi di difficoltà nell’implementazione del federalismo, il ruolo degli altri soggetti somali rappresenta per molti versi un’incognita.

Il Puntland ha svolto un ruolo decisivo nell’accompagnare la Somalia verso la nuova costituzione, ospitando due conferenze nella sua capitale e supportando l’intera Road Map che ha messo fine al Governo Federale di Transizione (ovvero il governo somalo riconosciuto internazionalmente fino al 20 agosto 2012, quando ha lasciato il posto al nuovo governo federale nato dalla costituzione). In virtù degli sforzi profusi, Garowe era giunta a minacciare l’indipendenza nel caso la trasparenza della “costituente” non fosse stata assicurata. Essendosi dichiarato autonomo e non indipendente, il Puntland pone oggi una sfida diretta alla Somalia: dopo venti anni di caos e tentativi di riconciliazioni inconcludenti, il nodo principale per Mogadiscio è il recupero della sua fiducia: e la fiducia del Puntland potrebbe essere riconquistata dando segni di stabilità ed impegno istituzionale, condizioni al momento non pienamente soddisfatte dal governo federale.

A sud, si fa strada il caso dello Jubaland: l’ultimo territorio, in ordine di tempo, candidatosi a diventare stato federale. Nato dalla fusione del Basso, Medio Giubba e della regione di Gedo, lo Jubaland ha già approvato una costituzione e gode dell’appoggio dell’IGAD (Intergovernamental Authority on Development) e dei vicini Etiopia e Kenya (che vedrebbero di buon occhio la formazione di uno Stato cuscinetto come difesa dalle incursioni di al-Shabaab), anche se i governi di Nairobi ed Addis Abeba appoggiano leader diversi. Mogadiscio ha invece raffreddato gli entusiasmi, e indubbiamente influisce su questo atteggiamento la presenza, ancora stabile, di milizie al-Shabaab in quell’area. In secondo luogo, il neo-stato “sottrarrebbe” al governo federale il porto di Kisimayo, che per i suoi introiti rappresenta uno dei centri strategici più importanti della lunghissima costa somala. Alla presente incerta regolamentazione del federalismo, la perdita di Kisimayo suona come un’ipoteca sul futuro. Anche in virtù di queste considerazioni, il Primo Ministro Shirdon ha dichiarato la formazione dello Jubaland “incostituzionale”, sostenendo inoltre che essa “minaccia gli sforzi per la riconciliazione, la costruzione della pace e dello Stato; crea divisioni tribali e mina la lotta agli estremismi nella regione”.

Un discorso a parte riguarda il Somaliland. Dichiaratosi indipendente, conserva un passato non felice di unione con l’ex-Somalia Italiana, in cui pesarono le differenze socio-culturali tra il nord pastorale e il sud semi-nomade e dedito all’agricoltura. Ancora peggiore è la memoria legata a Siad Barre, che nel 1988 fece bombardare Hargheisa causando non meno di 50.000 morti. Le prospettive di un reintegro nello stato somalo rimangono dunque opache, al momento. Il Somaliland non ha partecipato neanche alla Seconda Conferenza sulla Somalia di Londra (7 maggio 2013): il Presidente Ahmed Mohamed Mohamoud Siilaanyo ha infatti detto di aver ricordato agli inglesi che il Somaliland è uno stato separato, e quindi non ha motivo di intromettersi in questioni che riguardano altri Paesi. In realtà, il governo centrale e le autorità del Somaliland interloquiscono, e si sono già incontrati ad Ankara lo scorso 13 aprile; quello che si vuole evitare è probabilmente un palco internazionale dalla forte risonanza mediatica.

Al livello regionale del Corno d’Africa, il recente coinvolgimento dell’Etiopia negli affari somali sembra non lasciare dubbi riguardo al fatto che Addis Abeba protenda per una Somalia non troppo forte ma nemmeno troppo debole. La mancata partecipazione alla partecipazione AMISOM ha permesso alle truppe etiopi di poter agire in maniera autonoma sul suolo somalo. Allo stesso modo, l’intervento delle truppe keniote, ufficialmente resosi necessario per bloccare le incursioni di al-Shabaab nel nord del Paese, ha portato a manovre militari prolungate, tra l’altro in coordinamento con lo stesso esercito etiopico. Come è facile immaginare, una Somalia instabile tiene incessantemente alto il rischio di contagio e diffusione dei conflitti negli Stati limitrofi ed alimenta il flusso di rifugiati, come il campo profughi di Dadaab (550.000 persone) ben testimonia in tal senso. Una Somalia troppo debole diventa terra di estremismi, e l’impopolare intervento etiope del 2006 contro l’Unione delle Corti Islamiche prima, e contro al-Shabaab nel 2012 poi, danno la misura del peso della questione religiosa e della politicizzazione dell’Islam (si ricorda infatti che l’Etiopia è prevalentemente cristiana). Una Somalia troppo forte potrebbe invece rianimare i sogni della Grande Somalia, la rivendicazione sulla quale gli stessi rapporti tra Addis Abeba e Mogadiscio si deteriorarono per la prima volta negli Anni '60. Allora, le pretese pan-somaliste sull’Ogaden segnarono la base della rivalità tra i vicini. L’Etiopia negò categoricamente una cessione dell’Ogaden a Mogadiscio, infrangendo il sogno della Grande Somalia. Un’idea di federalismo condivisa ha buone probabilità di riportare le ambizioni dei somali aldilà degli attuali confini nazionali, dove per forza di cose sono rimaste bloccate negli ultimi 25 anni. L’Etiopia mira a non permettere il prodursi di queste forze nazionaliste. Il Kenya, dal canto suo, capitalizza ogni segnale di ritrovata stabilità oltreconfine per accelerare il rimpatrio dei rifugiati somali presenti nel nord del Paese (almeno 500.000). Purtroppo, lo Stato somalo non è ancora pronto per accogliere questo potenziale flusso di persone in entrata: forzare il rimpatrio nei prossimi mesi potrebbe dunque compromettere la stabilità della Repubblica Federale somala.

In conclusione il federalismo, attraverso una ripartizione dei poteri e della sovranità tra lo Stato centrale e gli enti territoriali autonomi operanti al suo interno, ha il compito di preservare l’unità nazionale. Assicura la pacifica convivenza dei popoli, pur riconoscendone le diversità. Per quanto vittime della costruzione sociale del paradigma etnico (condizione d’altronde comune a tutta l’Africa che ha vissuto l’esperienza del colonialismo e del divide et impera), i somali si percepiscono e sono percepiti come un gruppo omogeneo. Una condizione invidiabile, alla luce dei problemi etnici che si registrano nei vicini Etiopia, Kenya, Tanzania. Poiché etnicamente la Somalia è compatta, la differenziazione si gioca sulla politicizzazione dell’appartenenza e sulla distribuzione delle ricchezze secondo logiche di clan. La società somala ha la fortuna di non soffrire della differenziazione etnica, ma è tuttavia persa su patrimonialismo e corruzione, veicoli disgreganti per la stabilità. L’amministrazione federale ha allora poco margine di scelta davanti: da un lato, deve richiedere un impegno equo agli stati federali così come “un’equa distribuzione delle risorse” (art. 50). Dall’altro, deve trovare il giusto equilibrio tra elementi occidentali e l’enorme ricchezza contenuta nella sua tradizione: una sintesi che significhi anche armonizzazione tra diritto di origine europea, diritto tradizionale e sharia.

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