Etiopia: Il Premier Desalegn tra sviluppo economico e sfide regionali
Africa

Etiopia: Il Premier Desalegn tra sviluppo economico e sfide regionali

Di Vincenzo Gallo
12.05.2013

Il 21 settembre 2012 Hailemariam Desalegn ha prestato giuramento come capo del governo etiope, assumendo un compito di grande responsabilità dopo la morte improvvisa di Meles Zenawi, al potere dal 1991, uno dei leader più influenti della scena politica etiope e promotore di importanti programmi di sviluppo economico e di modernizzazione. Zenawi ha lasciato in eredità un Paese in forte espansione economica, ma tuttora alle prese con la non facile gestione dei movimenti indipendentisti e secessionisti tradizionalmente causa di numerosi e sanguinosi conflitti interni. Tuttavia, lo sviluppo economico è stato realizzato secondo tappe forzate e spesso a discapito del pieno rispetto delle libertà fondamentali sancite dalla costituzione e, soprattutto, a spese delle minoranze politiche e etniche. Il pugno di ferro con cui il defunto primo ministro ha esercitato la propria egemonia ha avuto l’effetto di accrescere il risentimento nei confronti del governo nazionale e di alimentare le spinte centrifughe dei movimenti indipendentisti ancora attivi in diverse aree, in particolare l’Ogaden, la regione a maggioranza somala che da oltre vent’anni lotta contro Addis Abeba per l’indipendenza.

L’insediamento del nuovo esecutivo è stato accolto, da parte dei movimenti della società civile e dei partiti, con l’auspicio dell’introduzione di un ampio programma di riforme. Negli ultimi anni del governo Zenawi, una soluzione pacifica alla questione somala cominciava a sembrare possibile, come pure l’affermazione di maggiori libertà politiche e civili nel Paese. In effetti, l’avvio dei negoziati con l’Ogaden National Liberation Front (ONLF) e la liberazione di 2.000 prigionieri politici avevano rappresentato un timido progresso in questa direzione, ma a distanza di otto mesi dall’elezione di Desalegn non si sono ancora verificati ulteriori e significativi passi in avanti. L’immobilismo politico nei confronti della minoranza somala stride con alcune aperture concesse ad altre etnie del Paese. Ad esempio, il fatto stesso di nominare premier Desalegh, un esponente di etnia Wolayta, un gruppo minoritario in Etiopia (il 2,5 % della popolazione) ha rappresentato una novità nello scenario politico etiope, tradizionalmente dominato dall’elite di etnia tigrina.

Come spesso accade nei Paesi a forte impronta politica personalistica, la morte di un capo di governo al potere per decenni causa di un clima di forte incertezza per il futuro, a causa della necessità, da parte delle elite, di ridefinire gli equilibri e nominare una nuova figura di riferimento. In particolare, in Africa tali momenti di transizione sono tradizionalmente caratterizzati da faide interne e scontri tra clan e fazioni al potere. In questo senso, l’Etiopia ha rappresentato un’eccezione ed ha dimostrato un elevato grado di maturità politica, affidandosi a Desalegh, un uomo dell’apparato ed un dichiarato continuatore delle politiche di Zenawi. Pur essendo uno “zenawiano di ferro”, il nuovo capo del governo non appartiene alla schiera dei combattenti della lotta armata degli anni 80. Si tratta di una figura di lunga militanza politica, come presidente del Southern Nations, Nationalities, and Peoples’ Region (SNNPR) dal 2001 al 2006, presidente del Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (SEPDM), entrambe formazioni che rappresentano i gruppi etnici del sud del Paese, e Vicepresidente dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), coalizione attualmente al potere, e dai numerosi incarichi istituzionali, quali ministro delle Relazioni tra governo e partiti (2005), Vice Primo Ministro e ministro degli Affari Esteri (2010). L’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) è formata da quattro partiti, ognuno espressione di altrettante etnie. Oltre al partito di Zenawi, il Tigrayan People’s Liberation Front (TPLF), lo schieramento è costituito dall’Oromo People’s Democratic Movement (OPDM), dall’Amhara National Democratic Movement (ANDM) e dal Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (SEPDM). La figura carismatica di Zenawi aveva sempre rappresentato un elemento di coesione indispensabile al funzionamento della coalizione. Nonostante nelle ultime elezioni politiche svoltesi nel 2010, l’EPRDF ha ottenuto la quasi totalità dei voti (il 99% delle preferenze e 546 seggi su 547), negli ultimi anni c’era chi nutriva dubbi sulla compattezza interna della coalizione a causa delle tensioni latenti tra le diverse etnie. In questo senso la nomina di Desalegn, in quanto membro di una minoranza non rappresentata nel parlamento e nel governo, può essere considerata una manovra volta a placare tali tensioni latenti. La composizione del governo è sempre stata il riflesso dei rapporti di forza tra i partiti che compongono l’EPRDF e, in questo senso, la nomina a Vice Premier di Demeke Mekonnen e Alemayehu Atomsa, noti esponenti rispettivamente dell’ANDM e dell’OPDM, ha dimostrato una perdita d’influenza del TPLF. A riprova di tale tendenza vanno interpretate le dimissioni, il 22 marzo, di quattro esponenti di spicco del TPLF, tra i quali l’ex ministro degli esteri Seyoum Mesfin.

In politica interna la ricerca di una soluzione alla questione somala continua ad essere tra le principali priorità del governo. Zenawi si era reso promotore di una politica estremamente repressiva nei confronti dei ribelli somali. Oltre alle attività dei militari etiopi nella regione, l’ex primo ministro aveva costituito, nel 2006, una milizia formata da membri dell’etnia Liyu per contrastare la ribellione dell’ONLF, ma che, secondo organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch (HRW), ha talvolta abusato del proprio potere, rendendosi protagonista di reiterate violazioni dei diritti umani. A marzo l’ONLF ha riportato che le forze di sicurezza etiopi e le milizie Liyu hanno occupato la maggior parte dei pozzi da cui si ricava l’acqua per il bestiame, imponendo il pagamento di cifre esorbitanti per le povere comunità pastorali. Il governo ha costantemente negato tali circostanze e, anzi, ha ottenuto l’inserimento dell’ONLF nella lista statunitense delle organizzazioni terroristiche. L’escalation di violenza nella regione si è avuta da quando i ribelli hanno iniziato ad attaccare le compagnie straniere impegnate nelle esplorazioni petrolifere. Nell’aprile 2007, l’ONLF si è resa responsabile dell’assalto ad un’istallazione mineraria cinese durante il quale 65 cittadini etiopi e 9 cinesi sono rimasti uccisi dopo essere stati sequestrati. Se da un lato Addis Abeba ha risposto con la forza alla minaccia somala, dall’altro ha avviato un percorso finalizzato alla soluzione pacifica del conflitto attraverso i negoziati con i vertici dell’ONLF. Desalegn ha attentamente analizzato la questione anche alla luce di fattori esterni al proprio paese. Da più parti è stato paventato il rischio che in Somalia, dopo i successi militari riportati da AMISOM (African Union Mission in Somalia) e dal contingente etiope contro i miliziani di Al-Shabaab e la ritirata di questi da molte delle loro roccaforti, la regione dell’Ogaden potrebbe veder aumentare il flusso di jiadhisti in cerca di un rifugio.

Con l’insediamento di Desalegn il governo etiope ha manifestato la volontà di sedersi al tavolo dei negoziati con l’ONLF. I primi meeting si sono svolti a Nairobi con la mediazione del governo keniano il 6-7 settembre 2012 e sono proseguiti dal 15 al 17 ottobre. Tuttavia, le buone intenzioni non sono bastate per far si che dagli incontri sortissero risultati concreti. Pregiudizi e reciproche accuse hanno preso il sopravvento e il processo di pace è ben presto naufragato. Secondo Addis Abeba, i ribelli intendevano promuovere riforme incompatibili con la costituzione, mentre l’ONLF ha accusato il governo etiope di aver accettato i negoziati a scopo puramente propagandistico, solo per dimostrare alla comunità internazionale la volontà di porre fine al conflitto. In realtà, il percorso preliminare non era stato predisposto adeguatamente per garantire la partecipazione di tutti gli attori interessati. Le autorità locali dell’Ogaden non hanno preso parte ai negoziati, mentre dalla parte del governo etiope la delegazione era quasi completamente composta da esponenti militari. In questo modo Addis Abeba ha lanciato un chiaro messaggio, ossia quello di continuare a considerare le richieste dei somali dell’Ogadan esclusivamente come un problema di sicurezza nazionale e non come una questione politica.

Anche se Addis Abeba continua a rassicurare gli investitori internazionali sull’inesistenza di qualsiasi minaccia alla sicurezza della ricca regione mineraria, il conflitto è ben lontano da una soluzione. Il governo si dice certo che la maggior parte dei miliziani facenti capo all’ONLF abbia deposto le armi e che le sole attività in essere del movimento siano pura propaganda, ivi comprese le recenti minacce ai danni della compagnia canadese Africa Oil Corp a febbraio 2013. A quest’ultima, impegnata nelle esplorazioni petrolifere, i ribelli hanno intimato la sospensione delle attività fino al raggiungimento di un accordo di pace tra l’ONLF ed il governo.

Intanto, la situazione umanitaria nella regione somala continua a peggiorare. I cinque milioni di somali che abitano l’Ogaden continuano ad essere oggetto di continue violazioni dei diritti da parte dell’esercito etiope. Del resto, Zenawi si era preoccupato già dal 2005 di spegnere i riflettori su quanto accadeva nella regione impedendo ai media e agli attivisti per i diritti umani di operare in queste aree. Il personale di Human Right Watch, Medici Senza Frontiere e del Comitato Internazionale della Croce Rossa, come pure giornalisti di testate internazionali sono stati oggetto della repressone governativa e hanno subito arresti, intimidazioni e espulsioni.

Le difficoltà incontrate nel lungo e difficile percorso di implementazione dei diritti umani non hanno frenato l’impetuoso sviluppo economico etiope. Il Paese, che vanta una popolazione di 93 milioni di abitanti e solide prospettive di crescita economica con un incremento del PIL di circa l’8% nel biennio 2012-13, rappresenta un attore di primissimo piano nel Corno D’africa e si appresta a consolidare la propria leadership politica nella regione, sia nei rapporti bilaterali con i paesi confinanti, sia in seno alle organizzazioni regionali come l’Unione Africana di cui ospita la sede ad Addis Abeba.

Fin dalla cerimonia di insediamento, Desalegn ha manifestato l’intenzione di proseguire secondo il percorso avviato dal suo predecessore e di ultimare il Growth and Trasformation Plan (GTP), un ambizioso programma quinquennale lanciato nel 2010 e destinato ad incrementare sensibilmente la ricchezza nazionale entro il 2025 attraverso un imponente piano di potenziamento delle infrastrutture e dell’apparato produttivo. Per riuscirci, però, il Paese non può prescindere dal supporto degli investitori internazionali che vedono nell’Etiopia una grande opportunità di profitti, ma che continuano a guardare con attenzione alle vicende di politica interna e i possibili scenari legati alla sicurezza regionale. Da un lato, i partner occidentali, in primis Stati Uniti e Unione Europea (UE), che subordinano l’erogazione di fondi a sempre più stringenti clausole legate al rispetto dei diritti umani e ambientali, dall’altro la Cina che persegue una politica commerciale da molti considerata spregiudicata e finalizzata al massimo profitto, ignorando le ricadute sociali e il deteriorarsi di delicati equilibri etnici interni.

Da anni ormai nel Corno d’Africa si parla di colossali investimenti per la realizzazione di opere che coinvolgono più paesi nella regione, tra cui il porto di Lamu e le infrastrutture energetiche. La sicurezza e la cooperazione regionale, quindi, acquisiscono una rilevanza non più trascurabile. Addis Abeba gioca un ruolo chiave in questo difficile scenario e la ricerca di soluzioni conciliatorie nei confronti dei rivali di sempre, in primis l’Eritrea, è stata considerata funzionale al raggiungimento di questi obiettivi. Desalegn, a questo proposito, ha dichiarato la propria volontà ad avviare i negoziati col leader eritreo Afewerki e di essere pronto a recarsi ad Asmara per discutere delle questioni ancora irrisolte, pur precisando che il proprio governo non ha mai cambiato politica nei confronti di quello che è ancora ritenuto un regime destabilizzante per la sicurezza dell’intera regione. L’Etiopia, nonostante il parere contrario della Commissione delle Nazioni Unite appositamente costituita per risolvere la questione dell’area contesa di Badme, continua ad occupare militarmente il confine e a subordinare il ritiro delle proprie truppe a precise garanzie da parte degli eritrei, in particolare la cessazione di qualsiasi supporto sia ai gruppi ribelli ancora attivi in varie regioni etiopiche sia ad al-Shabab.

Negli ultimi anni Addis Abeba ha intensificato gli sforzi per contribuire alla soluzione di gran parte dei conflitti nella regione e continua a garantire la propria presenza in diverse aree di crisi sia con l’invio di contingenti militari nelle missioni di mantenimento della pace, sia attraverso la mediazione con le parti in lotta. L’Etiopia vede attualmente impegnati 7.000 soldati nelle varie missioni decretate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in Africa e nel resto del mondo. Solo quattro stati a livello globale forniscono un numero superiore di uomini. Gran parte dei Paesi confinanti hanno beneficiato di questi preziosi contributi. Nel conflitto tra il Sudan ed il Sud Sudan, scoppiato all’alba dell’indipendenza di quest’ultimo, la forza militare dell’UNISMA, operante nell’area di Abyei, è stata costituita interamente con militari etiopi (4250 uomini). Burundi, Rwanda, Liberia e Darfur sono altri scenari che hanno visto la partecipazione delle forze armate di Addis Abeba.

Di particolare rilevanza è stato l’intervento dell’Etiopia in Somalia. Già nel 2006 Zenawi aveva inviato un contingente in territorio somalo con l’aiuto degli Stati Uniti, per poi ritirarlo tre anni più tardi. Nel 2011, con la controffensiva delle forze dell’AMISOM coadiuvate dalle truppe keniane, Addis Abeba ha fornito ancora una volta un prezioso contributo grazie al quale molti territori orientali, tra cui la città di Baidoa, sono stati sottratti al controllo dei miliziani di al-Shabaab.

L’incessante impegno delle forze armate etiopi per la stabilizzazione della regione e nella lotta al terrorismo internazionale fanno di Addis Abeba un alleato insostituibile per alcuni Paesi occidentali, in primis, gli Stati Uniti. Il prezioso sostegno dell’Etiopia è ripagato con generosi versamenti da parte di Washington e accordi di cooperazione politico-militare. A tal proposito, in occasione della visita del Segretario di Stato per gli Affari Africani, Johnnie Carson, a fine gennaio 2013, i due governi hanno annunciato di lavorare a stretto contatto per garantire la sicurezza non solo nel Corno d’Africa, ma in tutto il continente. Già dal 2011 l’amministrazione del presidente Obama ha lanciato importanti iniziative, tra cui la realizzazione di basi di droni da impiegare in operazioni di contrasto al terrorismo nella regione, in particolare contro i gruppi affiliati ad al-Qaeda. Addis Abeba ha intensificato gli sforzi per il potenziamento del settore difesa attraverso l’accesso a sofisticati sistemi d’arma e nuovi equipaggiamenti. A febbraio 2013, infatti, una fonte militare etiope ha rivelato al Sudan Tribune che l’Etiopia ha ricevuto addirittura il suo primo drone, frutto dell’accordo siglato nel 2011 con la BlueBird Aero Systems israeliana per la fornitura di aerei a pilotaggio remoto “Spylite” e “Boomerang”.

A livello regionale, un significativo miglioramento delle relazioni si è verificato con il Kenya. Desalegn si è recato in visita ufficiale in Kenya e ha siglato importanti accordi di partenariato economico volti ad intensificare gli scambi commerciali. In particolare, i due Paesi stanno cooperando per accelerare l’ultimazione di una linea di 1.000 KM per trasportare l’energia elettrica prodotta in Etiopia che permetterà a quest’ultima di esportare 400MW all’anno verso il Kenya dal 2018. Importanti risorse sono state destinate allo sviluppo delle infrastrutture ferroviarie complementari al porto di Lamu, a cui partecipa anche il Sud Sudan. Juba è particolarmente interessata alla realizzazione di quest’opera. Una volta a regime, infatti, il Paese potrà affrancarsi dalla dipendenza degli oleodotti dell’ex madrepatria per trasportare il proprio petrolio verso il Mar Rosso.

Gli accordi di partenariato tra Etiopia e Kenya hanno favorito il rafforzamento della cooperazione politico-militare finalizzata al mantenimento della pace nella regione. I due Paesi si sono accordati per collaborare a garantire la pacifica soluzione delle controversie tra il Sudan e il Sud Sudan e la stabilizzazione della Somalia.

Anche Pechino ha dimostrato grande interesse per l’Etiopia e ha colto importanti opportunità di investimento. La presenza delle imprese cinesi ha generato un flusso di capitali in continuo aumento. La sola industria automobilistica Lifan Motors, per esempio, ha visto crescere il proprio budget dai 10 milioni di dollari del 2010 agli oltre 30 del 2012. La maggior parte dei fondi cinesi si è riversata sulle opere di potenziamento infrastrutturale, in particolare nel settore della produzione di energia idroelettrica. Quasi tutte le dighe sono state finanziate in parte da capitali del colosso asiatico, come quella di Tekeze e Amerti-Neshe. La ben nota Gilgel Gibe 3, la più produttiva del paese con una capacità di 1.870MW, è stata realizzata con uno stanziamento di oltre 500 milioni di dollari da parte della Industrial and Commercial Bank of China, mentre sono in corso ulteriori trattative per la costruzione della Gilgel Gibe 4.

L’Etiopia ha fatto registrare uno straordinario trend economico nell’ultimo decennio ed è tuttora il Paese più ricco del Corno d’Africa, ma lo stesso non può dirsi per le condizioni di vita della popolazione il cui reddito pro-capite si attesta agli ultimi posti a livello globale. Nella regione a maggioranza somala la povertà si unisce a condizioni climatiche avverse e, come si è visto, alla repressione governativa, creando le condizioni per il riaccendersi del conflitto armato.

Il nuovo esecutivo ha forse deluso le aspettative di quanti speravano nell’avvio di in un rapido processo di democratizzazione, ma il grado di partecipazione che Addis Abeba ha saputo dimostrare in molte delle principali questioni che riguardano l’Africa Orientale rendono l’Etiopia un interlocutore privilegiato per gli attori sia regionali sia internazionali che intervengono in questo difficile scenario. Desalegn ha davanti a sé molti nodi da sciogliere sia nell’ambito della politica interna, sia in quello dei rapporti diplomatici a livello regionale. Dalle future scelte politiche di Desalegn, quindi, dipenderanno in misura non trascurabile anche gli sviluppi di molti dei problemi analizzati.

Non mancano, tuttavia, i segnali incoraggianti circa le possibilità di migliorare sensibilmente il quadro generale della stabilità regionale. Se la precondizione necessaria all’implementazione di politiche di sviluppo lungimiranti e durevoli è la sicurezza, in questo settore ci sono stati notevoli progressi. Il lavoro svolto da Addis Abeba sul piano diplomatico è apprezzabile. Il governo etiope, come si è visto, si è adoperato come mediatore per risolvere le controversie tra Khartoum e Juba e rinsaldare i rapporti con diversi attori regionali e internazionali. Le sfide globali e la realizzazione di ambiziosi programmi di sviluppo che chiamano in causa diversi paesi confinanti richiedono non solo un livello adeguato di sicurezza interna in Etiopia, ma anche la capacità di contribuire alla soluzione di conflitti nella regione.

La soluzione della questione somala riveste un’importanza cruciale. Desalegn potrebbe riaprire i negoziati con l’ONLF con lo scopo di diminuire i margini di manovra di Afewerki e, quindi, l’appoggio eritreo ai ribelli. La soluzione politica dell’irredentismo dell’Ogaden appare fondamentale se si vuole impedire alla propaganda qaedista di attecchire in contesti sociali estremamente poveri e frammentanti.

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