Libia e attori internazionali: nuova transizione, vecchi problemi
Africa

Libia e attori internazionali: nuova transizione, vecchi problemi

Di Giuseppe Palazzo
28.04.2021

Negli ultimi anni il Mediterraneo è stato un teatro privilegiato dell’aumento della competitività intra- ed extra-regionale, espressione di numerosi fattori di carattere geopolitico, economico e strategico. Tra i teatri che si sono maggiormente contraddistinti nella power competition mediterranea, la Libia post-gheddafiana del 2011 e, in particolare, quella affetta dalla seconda guerra civile del 2014, ha attirato e nutrito gli interessi e le ambizioni delle principali potenze regionali e internazionali. Un appetito che ha presto tramutato il conflitto da un piano di contrapposizioni meramente locali ad una serie di interconnessioni e dimensioni incrociate a livello geopolitico e strategico. Proprio le divisioni politiche nel Paese, l’emergere di più centri di potere e la presenza di soggetti portatori di interessi interni ed esterni hanno fatto della Libia un classico esempio di proxy war, in aggiunta a quelli già diffusamente presenti nell’area MENA (tra cui Yemen, Siria e Iraq).

Ancora oggi il Paese nordafricano vive una condizione di caotica incertezza di non facile risoluzione. Tuttavia gli ultimi sviluppi occorsi (in particolare quelli avvenuti dalla tregua dell’agosto 2020 e dal cessate il fuoco di ottobre 2020) fanno sperare che possa emergere un certo cambio di rotta rispetto al recente passato. Un momento “nuovo” non esente da rapide evoluzioni negative, soprattutto in considerazione dei fragili accordi raggiunti tra le parti e della diffusa e latente competizione tra Est e Ovest libico, in parte condizionata dal ruolo dei rispettivi supporter internazionali.

A guidare questo tentativo di cambiamento ha contribuito anche l’elezione di un nuovo governo ad interim da parte del Libyan Political Dialogue Forum, riunitosi a Ginevra dall’1 al 5 febbraio 2021. Il soggetto venuto fuori dalle urne svizzere si prefigura come un elemento di continuità con il processo di de-escalation delle tensioni iniziato a novembre 2020. L’esecutivo in questione, rappresentativo di tutte le forze di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ha infatti il compito di condurre il Paese alle elezioni generali del 24 dicembre 2021.

Ciononostante, l’analisi della composizione del nuovo governo e del contesto vigente sul campo suggeriscono diverse riflessioni sul ruolo e la notevole influenza esercitata dai diversi attori esterni presenti nello scenario libico. Tra questi, la Turchia aspira a poter giocare un ruolo fondamentale nel presente e nel futuro del Paese nordafricano. Tale legittimità è derivata dalla vittoriosa campagna militare ottenuta nel corso del 2020 in supporto delle milizie della Tripolitania contro le forze di Khalifa Haftar. Una vittoria militare che si è tramutata in influenza politica e che è emersa chiaramente anche in sede di formazione del nuovo governo eletto a Ginevra. Ne è un esempio la scelta del Primo Ministro, Abdulhamid Dbeibah, imprenditore di Misurata con importanti relazioni d’affari legate alla Turchia. Fin dalle sue prime dichiarazioni pubbliche, il nuovo leader ha lasciato emergere una certa vicinanza con il Paese anatolico, prima tramite il ringraziamento ad Ankara per il ruolo positivo da essa giocato nella guerra civile, poi con l’esplicito appoggio all’accordo marittimo siglato dalla Turchia con il governo tripolino nel novembre 2019 (allora rappresentato dal Governo di Accordo Nazionale, GNA) perché rispondente “[a]ll’interesse della Libia”. Oltre a ciò, anche l’assegnazione dei Ministeri dell’Energia (con a guida Muhammad Ahmad Muhammad Aoun) e dell’Interno (con a capo Khaled Tijani Mazen) a personalità vicine ad ambienti turchi rispondono a questo canovaccio. Ulteriore dimostrazione della “presenza turca” in quest’operazione politica è l’assegnazione della Presidenza del Consiglio Presidenziale a Mohamed al-Menfi, rappresentante della Cirenaica molto vicino agli ambienti dell’Islam politico tripolino e alle istanze di Ankara. In buona sostanza, queste azioni mostrano come il nuovo esecutivo possa rappresentare soltanto in modo parziale l’unità libica, perché esso è di fatto l’espressione formale dei rapporti di forza emersi sul campo, dove Tripoli e Ankara hanno ottenuto una netta vittoria militare. Da quel momento, il GNA e le forze turche hanno proceduto al consolidamento istituzionale dei guadagni raccolti con le armi. In particolare, in un’ottica di prevenzione del quadro di stabilità e sicurezza, Ankara ha proceduto con il rafforzamento militare sul campo. Il suo schieramento bellico conta circa 1.500 militari (per lo più consiglieri) provenienti dal Paese anatolico e circa 7.000 siriani, mentre vengono trasportati mezzi e materiali nella base aerea di al-Watiya e a Misurata, che ospita il comando dell’intelligence militare turca. Una condizione, questa, che suggerisce quanto la Turchia miri a fare della Libia un tassello fondamentale nel suo approccio di politica estera.

Se l’influenza politica turca nella formazione dell’esecutivo è, quindi, un dato palese e incontrovertibile, tuttavia è bene precisare che sia Dbeibah nella recente visita ad Ankara (12 aprile 2021), sia i suoi Ministri impegnati nei viaggi di lavoro all’estero hanno sempre ribadito quanto sia importante che la Libia torni ad essere indipendente e non condizionata dalle scelte politiche dell’attore esterno di turno nella delicata fase di transizione.

Nonostante la volontà di Dbeibah di mantenere un atteggiamento conciliante verso diversi Paesi, spesso ostili tra loro, la Turchia non può esimersi dall’appoggiare il nuovo esecutivo per due motivi strategici: in primis, l’accordo marittimo firmato con il GNA sulle Zone Economiche Esclusive (ZEE); in secondo luogo, la profondità strategica turca garantita dal conflitto del 2020. Nel primo caso, l’intesa sui confini marittimi non può sostanziarsi senza il controllo della costa della Cirenaica; da qui, infatti, sorge la necessità di Tripoli di coinvolgere, almeno apparentemente, le istituzioni orientali (con annessi sponsor internazionali), come dimostrato dal fatto che è stata la Camera dei Rappresentanti a votare la fiducia al nuovo governo. Al contempo, proseguire l’offensiva militare turco-tripolina oltre la redline tra Sirte e Jufra avrebbe sì allargato eccessivamente la profondità militare turca, ma avrebbe anche acuito le tensioni con Egitto e  Russia, pronte a intervenire in supporto di Haftar qualora GNA e Turchia avessero proseguito nell’avanzata militare. Ecco quindi che la tregua raggiunta sul campo di battaglia ha permesso anche alle potenze rivali alla Turchia di rimanere ancora in gioco, come nei casi di Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Russia.

La sconfitta militare di Haftar e la sua ritirata verso Est hanno allarmato l’Egitto, che ha posto sul passaggio tra Sirte e Jufra una “linea rossa”, superata la quale sarebbe intervenuto militarmente. La vittoria tattica di Ankara in Libia è stata una sconfitta dura per Il Cairo, tanto da portare lo stesso Presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, a riconsiderare rapidamente le sue posizioni sul Paese nordafricano e ad individuare nella Turchia un interlocutore con il quale costruire convergenze limitate nell’intero Mediterraneo. Una scelta forzata anche dalla possibilità di ritrovarsi in Cirenaica una possibile istituzione nazionale vicina all’Islam politico e cliente della Turchia. La soluzione ravvisata nell’elezione di un governo ad interim ha fornito all’Egitto la possibilità di cambiare il suo approccio tattico in Libia. Fallito quindi qualsiasi contenimento politico e militare in chiave anti-turca, Il Cairo ha optato sia per un apparente sostegno al GNU, sia per un riallacciamento dei rapporti con il vicino anatolico, come dimostrato dalla riapertura a Tripoli di un consolato egiziano (17 febbraio) e dallo scongelamento tattico delle relazioni con la Turchia (16 marzo).

Anche per gli EAU il passo falso di Haftar è stato un duro colpo. Sin dall’avvio della campagna militare su Tripoli del 2019, Abu Dhabi ha appoggiato apertamente le iniziative di Haftar, supportando l’Esercito Nazionale Libico (LNA) con mercenari stranieri (per lo più africani), materiali e equipaggiamenti militari fatti giungere in Cirenaica attraverso l’Egitto. Di fatto, per gli EAU la partita libica rientrava all’interno della competizione multidimensionale con la Turchia, che vede entrambi gli attori contrapporsi in una serie di teatri che vanno da Cipro al Corno d’Africa. Una lotta per il potere e le risorse per definire un nuovo ordine geopolitico nel quale lo scenario libico è usato dagli EAU come chiavistello per fortificare le sue strategie nell’area MENA. Tuttavia, i duri contraccolpi economici prodotti dalla pandemia da Covid-19 e la distensione sul piano regionale tra Arabia Saudita e Qatar, che ha avuto alcuni effetti anche in Libia, hanno portato gli EAU a riconsiderare parte delle sue iniziative nonché a prediligere una posizione di attesa volta a comprendere a pieno le sorti del GNU e della transizione politica nel Paese.

Diversamente da Egitto ed EAU, Mosca ha visto accresciute le sue ambizioni nel teatro libico, tanto da guadagnarsi, al pari della Turchia, un ruolo da power broker nelle dinamiche politiche e militari del Paese nordafricano. L’atteggiamento del Cremlino nei confronti del neonato governo è, come per gli altri attori, apparentemente di sostegno, benché la Russia mantenga, almeno ufficialmente, un canale aperto con tutti gli attori sul campo. Inoltre, conscia del fatto che l’elezione del 5 febbraio è una soluzione tanto svantaggiosa quanto instabile, i russi hanno continuato a fortificare le loro posizioni militari lungo la linea tra Sirte e al-Jufra. Proprio a Jufra si trova la base aerea che ospita Mig-29 e Sukhoi Su-24, i caccia militari usati a supporto dell’offensiva di Haftar. La linea difensiva presenta anche postazioni per artiglieria e potenziali campi minati, una sequenza di bunker nei pressi della base aerea e batterie missilistiche Pantsir situate più a sud, vicino all’aeroporto di Birak. La difesa di Sirte è un obiettivo strategico cruciale per tutti gli attori sul terreno, in quanto può essere utilizzato dalle forze presenti in Cirenaica per lanciare ulteriori offensive verso Misurata e Tripoli, mentre per le milizie dell’Ovest sarebbe essenziale per mettere in sicurezza la Tripolitania ed avvicinarsi ai ricchi giacimenti petroliferi di Sirte e Brega. Nel complesso, il posizionamento russo suggerisce due elementi: in primo luogo, come ha evidenziato tempo fa il Ministro della Difesa del GNA, Salah al-Din al-Namrus, “nessuno scava una trincea del genere per andarsene presto”. In secondo luogo, la Russia non esclude che la situazione libica possa ripiombare in uno stato di caos, in cui l’unico strumento adatto a perseguire i propri interessi sul campo è quello militare. Nello schieramento russo, attualmente si contano 3.000 uomini del gruppo Wagner, a cui si unisce lo spostamento di circa 7.000 mercenari (provenienti da Sudan, Ciad e Siria) lungo il vallo tra Sirte e Jufra.

Pertanto, mentre la diplomazia internazionale compie alcuni passi importanti per la stabilizzazione, le potenze sul campo rafforzano parimenti al piano diplomatico anche la loro posizione militare, nella convinzione che sia questo lo strumento prioritario per determinare la condizione strutturale alla base di qualsiasi rivolgimento giuridico, istituzionale e formale. Difatti, nonostante la dichiarazione di metà marzo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che invocava il ritiro delle forze militari straniere e dei mercenari, è altamente improbabile che ciò si verifichi davvero, considerando la traiettoria contraria che stanno prendendo gli eventi. Inoltre, il fatto che il governo sia costituito da personalità poco riconoscibili sul piano domestico libico suggerisce che lo stesso esecutivo non possa vantare un peso sufficiente per imporre alle parti il rispetto della dichiarazione.

In definitiva, il destino della Libia rimane ancora aperto e al netto dell’esito della guerra quasi tutti gli attori esterni possono ancora rivendicare un ruolo nel futuro del Paese. Mentre l’Egitto è alla ricerca di un metodo, che sia con la guerra o con il dialogo, per prevenire minacce da Est, la Russia rafforza le proprie posizioni militari, apparentemente per prepararsi ad un ulteriore round di combattimenti nella crisi libica. La Turchia si è imposta come un attore fondamentale nel caos libico, ma sconta debolezze strutturali legate soprattutto ad una profonda crisi economica. Tuttavia queste fragilità (in campo economico, industriale e logistico) impediscono ad Ankara di sfruttare pienamente i successi militari e di massimizzare il controllo strategico del territorio.

Al fine di promuovere la ricostruzione nazionale, la Libia però necessita di partner che possano trasferire un know-how tecnologico e industriale all’avanguardia. Servizi che la Turchia fatica ad offrire e nei quali, invece, l’Italia ha qui il suo punto di forza, che va sfruttato al fine di ricostruirsi uno spazio d’influenza in Libia e nel Mediterraneo allargato. A dimostrazione di ciò, deve essere tenuta in forte considerazione la visita del Premier Mario Draghi a Tripoli (6 aprile), che si è posta in continuità con l’intenso lavoro diplomatico svolto nelle settimane precedenti dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dall’Ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Buccino, e dall’Inviato Speciale per la Libia, Pasquale Ferrara. Nella visita di Draghi è stata firmata un’intesa da 80 milioni di euro che permetterà al consorzio italiano Aeneas di ricostruire l’aeroporto di Tripoli, mentre la Turchia ha firmato una serie di Memorandum di cooperazione generali e non vincolanti. Dunque, proprio il know-how tecnologico e industriale italiano, in aggiunta alla storica conoscenza del territorio e delle dinamiche locali, possono rappresentare il campo da cui ripartire per riconquistare posizioni nel vicinato meridionale. Una modalità d’azione che, però, può essere sostenibile nel lungo termine solo se accompagnata da un approccio olistico italiano più coerente in politica estera, in Libia e nell’intero bacino allargato del Mediterraneo.

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