La competizione tra Cina e Stati Uniti guarda sempre più al Pacifico
Nel corso dell’estate appena trascorsa il fronte Pacifico è tornato al centro delle tensioni tra Cina e Stati Uniti. Nel mese di agosto, infatti, la Cina ha intensificato la pressione nei confronti di Taiwan, attraverso sia un rafforzamento delle esercitazioni della propria Marina militare (PLAN - People’s Liberation Army Navy), sia una serie di spedizioni ricognitive aeree e navali nelle aree territoriali taiwanesi, dal dispiegamento delle due portaerei Liaoning e Shangdong nel Mar Giallo fino alla simulazione di uno sbarco con mezzi anfibi sulle coste dell’isola di Hainan.
Le ragioni che muovono il gigante asiatico risiedono nella concezione che lo stabilimento di una supremazia regionale nel Pacifico occidentale rappresenti un passaggio forzato per l’affermazione di Pechino al ruolo di superpotenza globale. L’approccio così assertivo adottato da Xi Jinping nei due Mari Cinesi, Meridionale e Orientale, è frutto della consapevolezza che la Cina non possa permettersi di venire rinchiusa a pochi chilometri dalla propria costa, relegata a una dimensione di “potenza terrestre”.
Nel Mar Cinese Meridionale, Pechino ha promosso la costruzione di isole artificiali e basi militari che assolvono tre principali funzioni: proiettare la potenza cinese al di là dello stretto di Malacca, fino all’Oceano Indiano; tutelare i traffici marini della Maritime Sea Route; e assicurare il controllo su un largo tratto di mare il cui fondale è ricco di risorse energetiche (idrocarburi). Per quanto riguarda il Mar Cinese Orientale invece, la prospettiva cinese è quella di spostare la linea di difesa oltre la prima catena di isole (al momento costellata di basi americane dal Giappone fino alle Filippine). Per raggiungere tale scopo e garantire una migliore protezione delle fondamentali città litoranee, sin dal 2013 Pechino ha investito pesantemente nel potenziamento e nell’espansione del raggio d’azione di PLA (People’s Liberation Army, ossia l’esercito di terra) e PLAN. A oggi, quella cinese risulta essere la più grande Marina al mondo per numero di unità schierate (350 tra navi e sommergibili da guerra). I missili balistici e da crociera con testate convenzionali installati a terra ammontano a oltre 1250 e superano quelli americani per gittata, coprendo fino a un raggio di 5500km – ossia ben oltre la base navale statunitense di Guam, cuore della seconda catena difensiva di isole.
Il tentativo di espansione verso est, tradottosi nel massiccio dispiegamento di truppe lungo tutta la costa orientale cinese, si intreccia inevitabilmente con la questione taiwanese. Le capacità belliche appena acquisite, infatti, potrebbero tornare utili a Pechino per scoraggiare o contrastare eventuali interventi esterni a sostegno dell’isola. La salienza di Taiwan risiede nel fatto che il governo di Pechino la considera parte integrante della nazione cinese e vede i rapporti con Taipei come un pura questione di politica interna. La riannessione di Taiwan è prima di tutto un caposaldo della One-China Policy, il disegno di riunificazione della “provincia ribelle” alla Madrepatria destinato a compiersi idealmente nel 2049 (cento anni dopo la fondazione della RPC). L’accresciuta assertività verso l’isola negli scorsi mesi è sembrata essere il frutto della volontà di Pechino di lanciare un segnale di forza in un anno, come il 2020, in cui lo scoppio della pandemia e dei suoi effetti collaterali hanno fatto vacillare la stabilità interna del Paese. Come già accaduto in precedenza per la questione di Hong Kong, il governo cinese ha utilizzato il pugno di ferro per cercare di delimitare il perimetro delle questioni considerate pertinenti alla sicurezza nazionale, per scongiurare che le debolezze dimostrate a seguito dello scoppio della pandemia possano essere considerate dai rivali regionali e internazionali come spiragli di opportunità per minare gli interessi di Pechino.
La recente mobilitazione militare di Pechino ha destato forti preoccupazioni negli Stati Uniti, che nel corso degli ultimi cinque anni hanno cercato di rafforzare una serrata strategia di contenimento dell’espansione cinese nell’area. Tale strategia, infatti, si configura come il dispiegamento di una cospicua forza militare statunitense (si parla di circa 375mila unità tra soldati e personale civile dell’esercito di stanza nella regione) nella prima e nella seconda catena di isole nel Marc Cinese Meridionale, in grado di contrastare la capacità di proiezione di potenza del gigante asiatico. In questo contesto, il peso strategico di Taiwan, che occupa una strategica posizione all’interno della prima catena difensiva per la Cina, potrebbe raggiungere un nuovo apice all’interno della più ampia contesa sino-americana.
Per gli Stati Uniti il supporto a Taipei rientra nel più ampio quadro della complicata gestione delle relazioni con la Cina, all’interno della quale Taiwan è un importante fulcro su cui far leva per esercitare pressione su Pechino. Fino ad oggi, infatti, Washington ha adottato una strategia di bilanciamento di interessi nei rapporti con Taipei, che consiste nel non schierarsi apertamente a favore della Repubblica di Cina (tuttora non riconosciuta come Stato sovrano dagli USA), pur fornendole tutti i servizi e gli equipaggiamenti di difesa necessari a mantenere la capacità di auto-difesa. Ciò implica forniture militari (per un valore di 13,2 miliardi di dollari solo durante l’Amministrazione Trump), l’addestramento tramite esercitazioni navali congiunte e il dispiegamento della Marina statunitense nell’area, come testimoniato dai frequenti transiti dei cacciatorpedinieri USS Halsey e USS Mustin nell’affollato stretto di Formosa verso la fine di agosto. In un momento in cui la competizione tra i due giganti del Pacifico si fa sempre più intensa, non è possibile escludere che Taiwan diventi un argomento sempre più presente in questa contrapposizione.
La vera incognita è però fino a che punto gli Stati Uniti saranno disposti ad alimentare questo vortice di tensione nell’area Indo-Pacifica, anche alla luce delle incombenti elezioni. Donald Trump ha fin qui fatto della “sinofobia” il cardine non solo della sua campagna elettorale, ma anche dell’intero mandato. La retorica anticinese del tycoon newyorkese ha fin qui raccolto larghi consensi, internamente al Congresso così come tra l’elettorato. Sia l’ala repubblicana, sensibile alla concorrenza sleale cinese, che quella democratica, attenta alle tematiche ambientali e dei diritti umani, hanno appoggiato la totale opposizione alla Cina di X.
Tuttavia, in caso di rielezione, Trump nel breve periodo potrebbe scegliere di mettere da parte momentaneamente il dossier di Taiwan per cercare di andare all’incasso nel secondo mandato delle trattative aperte con Pechino nel corso degli ultimi anni e non incagliarsi su una questione che Pechino continua a considerare fuori da ogni dialogo. Washington potrebbe continuare a vedere la disputa su Taipei come uno dei modi per infastidire Pechino, ma all’interno di uno sforzo multipolare di più ampio respiro incentrato sui tradizionali partner a Tokyo e Seoul. Ad esempio, proprio lo scorso 6 ottobre Mike Pompeo ha incontrato a Tokyo i Ministri degli Esteri di Giappone, India e Australia all’interno del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), per discutere di un rafforzamento della cooperazione politica, militare ed economica tra i quattro Paesi, chiaramente in chiave anticinese.
La chiave del multilateralismo e della regionalizzazione della partita con la Cina potrebbe essere la chiave interpretativa della politica statunitense anche nel caso fosse Joe Biden a insediarsi alla Casa Bianca. Non va dimenticato che fu proprio un’amministrazione democratica – quella di Obama – a indentificare nel Pacifico il nuovo centro degli interessi strategici degli Stati Uniti, attraverso la dottrina del “Pivot to Asia”. Il candidato democratico, infatti, in campagna ha parlato di restore, ossia un ritorno ancora più deciso all’approccio multilaterale per contrastare la Cina, aprendo così la strada ad un ritorno di una presenza anche diplomatica più massiccia degli Stati Uniti nella regione.
Sebbene appaia ancora lontana la prospettiva di uno scontro diretto tra, che implicherebbe costi altissimi per entrambe le potenze, tuttavia la volontà di entrambe le parti di ribadire la propria forza potrebbe portare ad un’intensificazione delle provocazioni reciproche in queste acque.
In questo contesto, il Pacifico è destinato ad essere sempre più lo scenario focale nella competizione tra Cina e Stati Uniti, dal momento che entrambe le potenze hanno interessi strategici e confliggenti in queste acque. Se la Cina lo considera una sorta di giardino di casa su cui estendere il controllo sia per difendersi da possibili attacchi esterni sia per proiettare potenza, d’altro canto gli Stati Uniti sembrano intenzionati a mantenere, e anzi rinsaldare proprio in quest’area una rete di contenimento dell’espansione cinese. L’obiettivo minimo di Washington infatti è quello di preservare lo status quo, perché finché riuscirà a negare alla Cina il dominio dei mari, ne potrà contrastare l’avanzata. Le numerose basi militari nella prima e seconda catena di isole assicurano agli americani una posizione di vantaggio, ma la chiave del contenimento sta nell’intensificare la collaborazione politica e militare con i Paesi dell’area, sia tra i propri alleati sia tra gli Stati che hanno sempre più interessi a svincolarsi dall’ingombrante influenza di Pechino. Bisogna tuttavia prestare attenzione al fatto che se il puntare sulle alleanze per scongiurare il rischio di uno scontro diretto gioverebbe alla causa statunitense, ciò potrebbe anche degenerare in un’escalation di più ampio respiro, che metterebbe a repentaglio la stabilità di tutta la regione.