La pirateria somala: sviluppo e prospettive di un fenomeno globale
Africa

La pirateria somala: sviluppo e prospettive di un fenomeno globale

Di Claudio D'Angelo
25.11.2012

Il fenomeno della pirateria al largo della Somalia, attività questa in grande espansione, ci mostra come un insieme di fattori politici, storici e sociali di una ristretta area geografica possano sfociare in una minaccia grave per alcuni interessi globali, quali in questo caso il commercio marittimo.

Da circa vent’anni infatti, la Somalia vive una situazione di perenne instabilità politica. Dall’estromissione di Siad Barre nel 1991, le violenze per la lotta al potere si susseguirono incessantemente, portando non solo ad una vera e propria guerra civile, ma soprattutto ad una situazione di sostanziale anarchia.

Solo nel 2004 si è insediato il cosiddetto Governo Federale di Transizione con Primo Ministro Mohamed Mohalim Gedi e Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed. Nonostante questo possa apparire come un tentativo di riorganizzazione istituzionale, in realtà né il Governo né il Parlamento sono realmente rappresentativi della complessità della società somala in cui l’elemento dominante è costituito dai clan.

In questo contesto, ossia in mancanza di un’autorità effettiva che controlli le acque costiere, la pirateria lungo le coste del Corno d’Africa fonda le sue basi. In verità questo fenomeno ha radici antiche, ma è proprio a partire dai primi anni Novanta che la pirateria ha trovato le condizioni ideali per potersi espandere.

All’inizio, negli anni Novanta, le azioni di pirateria erano ridotte a pochi attacchi, essenzialmente a scopo di rapina, compiute dalla piccola manovalanza somala male equipaggiata e armata.

Con il passare degli anni, tuttavia, le ambizioni dei pirati sono via via divenute sempre più alte, così il raggio d’azione si è allargato considerevolmente, coinvolgendo un numero sempre maggiore di rotte. Non solo, è mutata l’organizzazione logistica, i mezzi di trasporto per le operazioni, il grado di preparazione delle squadre e l’uso di armi più sofisticate.

L’ultima trasformazione della pirateria è avvenuta nel 2006 con l’ingresso nel business della grande criminalità organizzata, quale la mafia russa. Il risultato è stato un incremento sostanziale di risorse economiche e logistiche, di attacchi mirati e di un appoggio solido al livello globale.

La pirateria quindi oggi sta cambiando, i veri uomini forti del fenomeno sono soggetti residenti per lo più negli Emirati Arabi o addirittura in Europa (Gran Bretagna), sostenuti dalla criminalità organizzata delle ex repubbliche sovietiche e russe.

Si possono osservare anche alcune evoluzioni nelle tecniche di abbordaggio e trattenimento dei sequestrati.

Secondo l’International Maritime Bureau, prima del 12 gennaio scorso, i pirati non avevano mai trasferito i prigionieri da una nave all’altra. In quella data infatti due danesi e quattro filippini sono stati prelevati dalla loro nave e portati su un’altra imbarcazione, un peschereccio utilizzato per l’abbordaggio. Questa nuova tattica non può essere sottovalutata, soprattutto alla luce delle difficoltà che porta nella fase di negoziazione e, eventualmente, nelle fasi di rilascio. L’espansione del fenomeno si può facilmente intuire dall’aumento delle organizzazioni somale coinvolte. Se inizialmente si contavano solo quattro grandi gruppi (Coast Guard, Marka Group, Somali Marines, Puntland Group), attualmente secondo diverse fonti, si conterebbero fino a una quindicina di organizzazioni ben equipaggiate e gestite.

L’aumento spropositato di capitali investiti, uomini e mezzi ha inevitabilmente allargato l’area d’azione dei pirati, spostandola più al largo dalle coste somale, coinvolgendo gran parte dell’oceano indiano nord-occidentale, il cosiddetto Mar Arabico. Sul sito dell’IMB è possibile notare come appunto gli attacchi pirati avvengano molto vicino alle coste dell’Oman, dello Yemen e soprattutto nello stretto di Bab el-Mandeb, tra la costa yemenita occidentale e la costa eritrea.

Dati alla mano possiamo evidenziare come col passare degli anni questo fenomeno abbia intrapreso una parabola ascendente che sembra inarrestabile.

Stando a fonti dell’Onu, nei primi nove mesi del 2008 si sono verificati sessanta episodi di pirateria marittima nel solo Golfo di Aden. In quest’ultima regione, gli assalti sono iniziati solo recentemente: nel 2004 sono stati registrati appena due sequestri, trentacinque l’anno successivo.

Nel 2010 è di 1181 il numero degli ostaggi. Anche se il numero degli attacchi è sceso circa della metà, l’area maggiormente pericolosa rimane quella del golfo di Aden. Tuttavia le catture effettuate al largo delle coste somale rappresentano il 92% del totale mondiale.

Nei primi sei mesi del 2011 invece, i pirati hanno preso in ostaggio almeno 361 marittimi membri dell’equipaggio di trentuno navi catturati. Attualmente in mano ai predoni del mare ci sarebbero in ostaggio almeno 700 marinai di diversa nazionalità. Tra essi i cinque marittimi italiani equipaggio della Savina Caylyn, catturata l’8 Febbraio 2011 a circa 500 miglia dalle coste africane, e i sei della Rosalia D’Amato, sequestrata dai pirati somali il 21 Aprile scorso, a circa 350 miglia marine a sud-est di Salalah, Oman, nell’oceano Indiano.

Riguardo i costi e il giro d’affari, dopo che nel 2008 l’incasso era stato di 55 milioni di dollari e nel 2009 di oltre 100 milioni di dollari, nel 2010 nelle casse dei pirati sono entrati oltre 200 milioni di dollari. Mentre è stato stimato che i costi totali sostenuti al livello mondiale per il contrasto della pirateria nel 2010 sono stati tra i 7 miliardi e 12 miliardi di dollari.

Un fenomeno così vasto non poteva non suscitare una dura reazione da parte delle maggiori istituzioni internazionali. L’International Maritime Organization (IMO) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite sono le due grandi organizzazioni interessate alla repressione della pirateria.

Attraverso la vasta operazione militare denominata Ocean Shield, la Nato sin dal 2008 cerca di dare il suo contributo alla lotta alla pirateria, attraverso la presenza dei gruppi navali SNMG1 e SNMG2.

Anche l’UE ha provveduto alla repressione delle azioni di pirateria organizzando la Missione Atlanta a sostegno alle Risoluzioni 1814,1816,1838 e 1846 adottate nel 2008 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il numero delle navi impiegate varia da 4 a 13, coprendo un’area che comprende il Golfo di Aden il Corno d’Africa e l’oceano Indiano fino alle Isole Seychelles.

L’Italia ha preso parte sia all’Operazione Ocean Shield assicurando la partecipazione di un’unità navale allo SNMG2, sia alla Missione Atlanta, partecipando dal 7 marzo 2009.

In verità queste missioni si rivelano molto costose, ma soprattutto molto difficili. Infatti la superficie marina interessata dal fenomeno è di circa 2,6 milioni di miglia quadrate, il che rende quasi impossibile un pattugliamento veramente efficace.

Prevedere cosa accadrà nell’immediato futuro rimane molto complicato. Ci troviamo di fatto in una sorta di “punto zero” della questione. Con la fine del periodo dei monsoni, che rendono difficili molte operazioni di pirateria, è prevedibile un aumento degli attacchi nei prossimi mesi. Sarà allora che l’efficacia delle missioni militari verrà messa alla prova.

Di fronte alla presenza massiccia di navi militari provenienti da tutto il mondo in un’area così delicata per il commercio petrolifero e il costo esorbitante delle missioni, l’opinione pubblica ha espresso non pochi dubbi sul reale interessamento delle varie nazioni coinvolte riguardo la repressione della pirateria somala. Di sicuro nei prossimi mesi gli occhi del mondo osserveranno con molta attenzione gli sviluppi del fenomeno.

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