Il Burkina Faso nell’occhio del ciclone jihadista
Il 29 febbraio scorso, la città di Sebba, nella regione amministrativa burkinabè del Sahel, è stata colpita da un attacco armato che ha causato la morte di dieci poliziotti. Pur in assenza di rivendicazioni esplicite, la modalità e il luogo dell’assalto lasciano presagire che si tratti dell’ennesimo episodio di violenza jihadista nel Paese.
Difatti, dal 2015, il Burkina Faso ha conosciuto una esponenziale crescita del proselitismo e delle attività terroristiche, agevolate nel loro incremento e nel loro sviluppo dalla vicinanza dei fronti jihadisti in Mali e Niger nonché dalla precarietà della situazione economica e politica nazionale che agevola la diffusione del radicalismo. Il numero delle vittime degli attacchi di matrice jihadista in tutto il Paese ha conosciuto un vertiginoso aumento negli ultimi anni, passando da 80 nel 2016, a 1800 nel 2019. La maggior parte di queste azioni portano la firma del movimento qaedista Gruppo di Supporto all’Islam e ai Musulmani (GSIM) attraverso la sua branca locale di Ansarul Islam. Tuttavia, nel 2019 è stato registrato un notevole incremento delle incursioni dello Stato Islamico del Grande Sahara (SISG).
In Burkina, Ansarul Islam e lo SIGS condividono la medesima area operativa, la regione del Sahel, ed il loro principale bacino di reclutamento e supporto proviene dalla popolazione seminomade di etnia Fulani, maggioritaria nelle aree settentrionali del Paese ma minoritaria in termini assoluti (8,4%) nel resto del Burkina Faso. La sistematica esclusione dei Fulani dalla vita politica, economica e sociale del Paese ha favorito la crescita di un diffuso malcontento, su cui le milizie jihadiste hanno innestato una narrativa ibrida fatta di rivendicazioni etniche, politiche, economiche e religiose. La strumentalizzazione delle divisioni etniche e la condanna delle attuali forme di governance delle risorse del suolo è alla base del consenso sia di Ansarul Islam sia dello SIGS. Benché le due formazioni armate appartengano a due schieramenti differenti e a tratti in competizione tra loro, in Burkina Faso si è cominciato ad assistere a forme di cooperazione sempre più stretta, culminate in attacchi congiunti. Tuttavia, ad appare poco chiaro quanto tale sinergia sia frutto di una scelta dei vertici oppure di una ibridazione quasi spontanea derivante dai legami etnici e familiari tra i miliziani.
Nel 2019, il numero di attacchi rivendicati da Ansarul Islam è risultato più che dimezzato rispetto al 2018, mentre le operazioni dello ISGS sono nettamente incrementate. Tale fenomeno potrebbe avere numerose spiegazioni. Tra le più plausibili, quella di un progressivo trasferimento di miliziani da Ansarul Islam al SISG a causa di tre elementi: il maggior richiamo simbolico e propagandistico della sigla del Califfato, le maggiori risorse a disposizione del network di Daesh e, soprattutto, il forte investimento che l’organizzazione guidata da al-Saharoui ha fatto sulla radicalizzazione dei Fulani. Infatti, benché siano state le reti del GSIM ad ingaggiare per prime la minoranza Fulani in Mali ed in Burkina Faso, il movimento qaedista appare orientato maggiormente verso la cooptazione dei Tuareg, rivali dei Fulani in molte aree a sud della regione maliana di Kidal.
Oltre all’aumento di accoliti ed attacchi, desta particolare preoccupazione l’evidente incremento capacitivo dei movimenti jihadisti burkinabè, a testimonianza del ruolo determinante avuto dai tecnici e dagli addestratori del Califfato e, soprattutto, dell’impatto dei quasi 10 anni di insorgenza armata nel Sahel in termini di lezioni apprese dai miliziani. Ad esempio, nei recenti attacchi nel nord del Burkina, come quello di Sebba o quello al villaggio di Silgadji (25 gennaio) sono emersi alcuni importanti elementi sulla sofisticazione dell’azione dei jihadisti. Silgadij non è stato oggetto di un semplice raid, ma di un’azione con un alto livello di coordinazione e con una precisa strategia. Prima di attaccare i miliziani hanno isolato i sistemi di comunicazione telefonica e hanno bloccato le vie di accesso con delle mine, impedendo così l’arrivo delle Forze Armate. In seguito, la popolazione è stata riunita nel mercato e divisa fra uomini e donne. Dopo questa fase le donne sono state liberate, mentre gli uomini sono stati uccisi. In seguito, il 6 febbraio l’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico tramite il numero 220 di Naba, la newsletter settimanale del Califfo.
Nonostante la sua complessità, l’attacco di Silgadji ha riguardato un piccolo villaggio, sguarnito di ogni difesa militare. Di contro, l’operazione di Sebba del 29 febbraio ha avuto per oggetto un capoluogo di provincia dove vivono 30.000 persone più grande e in cui sono presenti sia forze di polizia che forze militari. L’incursione dei jihadisti è iniziata tra le sei e le sette del mattino, dopo aver interrotto i sistemi di telecomunicazione della città e aver schierato alcuni uomini a presidio dei principali accessi. In seguito, i miliziani hanno operato un assalto simultaneo al Commissariato Centrale e al distaccamento dell’11° Reggimento di Fanteria dell’Esercito. L’assalto si è concentrato sul Commissariato, mentre l’attacco al distaccamento militare appare essere stato essenzialmente un diversivo. Stando alle dichiarazioni della Polizia i jihadisti avrebbero rubato delle attrezzature, delle armi e un veicolo blindato e, con ogni probabilità, tale bottino costituiva fin dall’inizio il vero obiettivo dell’operazione. Inoltre, secondo alcune testimonianze, i miliziani indossavano le divise dell’Esercito burkinabè. Un particolare questo non di secondo piano, sia per l’importanza operativa di questa scelta, che ha facilitato la penetrazione dei jihadisti nella città, sia perché questa tattica è stata spesso utilizzata da altre milizie della regione come Boko Haram, ufficialmente affiliato al Califfato con il nome della Provincia dell’Africa Occidentale.
La vicinanza temporale e le similitudini operative tra i due attacchi potrebbero, quindi, far ipotizzare l’esistenza di un rapporto di consequenzialità tra i due assalti, in cui l’attacco al villaggio di Silgadji potrebbe essere stato un test per il ben più rischioso attacco alla città Sebba. Oltre a ciò, le tecniche operative attuate in entrambi gli attacchi, interruzione delle telecomunicazioni, creazione di un presidio e posti di blocco e utilizzo delle uniformi dell’Esercito, sembrano ricalcare molto le modalità di assalto di Boko Haram. Negli ultimi mesi, i media dello Stato Islamico hanno spesso rivendicato alcuni attacchi realizzati dallo SIGS come operazioni di Boko Haram, alimentando le ipotesi di una crescente collaborazione tra i due fronti dello Stato Islamico. In quest’ottica e in virtù delle tecniche operative attuate, i jihadisti dello Stato Islasmico che operano in Burkina Faso sembrerebbero beneficiare di un sempre maggiore contributo addestrativo proveniente dall’estero, nella fattispecie da Boko Harm.
Perciò, alla luce dell’analisi dei recenti attacchi nel nord del Paese, il jihadismo burkinabè pare aver raggiunto un nuovo livello capacitivo favorito dalla sovrapposizione di due dinamiche. Una interna, ovvero la migrazione di miliziani di Ansarul Islam nello Stato Islamico, ed una esterna, ovvero la crescente collaborazione tra lo SIGS e Boko Haram, che ha prodotto una maggiore sofisticazione delle tecniche di assalto. Tali dinamiche devono essere attentamente considerate dalle forze di sicurezza (locali e non) che operano nel Sahel, soprattutto in vista del lancio di nuove operazioni militari, come la missione internazionale europea Takuba, che coinvolgerà anche contributi italiani.