La Repubblica Democratica del Congo ad un anno dalle elezioni presidenziali
Il 25 gennaio è stato il primo anniversario della presidenza di Felix Tshisekedi nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e del primo passaggio di potere pacifico e democratico nella storia del Paese. Quello appena trascorso è stato un anno ricco d’inside per il nuovo Presidente, che si è impegnato nel rafforzamento del precario equilibrio interno e nella ricerca di possibili alleanze regionali, entrambi necessari per porre un freno alla crisi multidimensionale che da decenni caratterizza lo scenario congolese. Una crisi fatta di estrema povertà, emergenze sanitarie e conflitti armati.
Infatti, la RDC è attanagliata da due gravi epidemie di il morbillo ed ebola che hanno causato migliaia di morti negli ultimi due anni. Nelle province dell’est (nord e sud Kivu, Ituri), la diffusione dell’ebola è stata facilitata anche dagli attacchi dei numerosi gruppi armati locali contro gli operatori sanitari del Ministero della Salute congolese, della Croce Rossa, di Medici Senza Frontiere e dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, i militari delle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) ed i caschi blu dell’operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite MONUSCO (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo). Tra queste milizie irregolari, spesso accusate di essere finanziate da Uganda, Rwanda e Burundi, spiccano le Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo armato che negli ultimi cinque anni ha mostrato i primi sintomi del radicalismo jihadista, tanto da rivendicare alcuni dei propri attacchi tramite i media ufficiali dello Stato Islamico.
In questo contesto di crisi e dopo essere state rimandate per circa due anni, nel dicembre 2018, si sono tenute le elezioni presidenziali e per l’Assemblea Nazionale. Felix Tshisekedi, figlio di Etienne Tshisekedi, leader dell’opposizione dagli anni Ottanta fino alla sua scomparsa nel 2017, ha vinto le elezioni presidenziali con il 38% delle preferenze, ma è risultato in netta minoranza nell’Assemblea Nazionale. Difatti, il partito del nuovo Presidente, fondato dal padre nel 1982, Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (UDPS), aveva ottenuto solamente il 10% dei seggi, la cui maggioranza, 340 su 500, era andata al Fronte Comune per il Congo (FCC), il partito dell’ex Presidente Joseph Kabila, che pure non si era candidato in prima persona a causa del limite costituzione dei mandati. Kabila, che aveva ereditato il potere dal padre, Laurent – Désiré, nel 2001, aveva candidato alla presidenza un proprio protetto, che, però, non ha ottenuto un risultato soddisfacente, arrivando terzo. Perciò, durante la delicata fase di attesa fra il voto e l’annuncio dei risultati ufficiali, Kabila ha scelto di schierarsi a favore di Tshisekedi. Quest’accordo, tra l’ex Premier e l’ex leader dell’opposizione ha lasciato molti interrogativi e dubbi circa l’effettiva autonomia del nuovo Presidente, che, in quest’insolita alleanza è in una posizione di debolezza rispetto al proprio alleato per molteplici fattori.
Innanzitutto, come già ricordato, nell’Assemblea Nazionale il fronte pro Kabila ha una maggioranza schiacciante, rispecchiata anche nella scelta dei 61 Ministri che compongono l’esecutivo, di cui i due terzi sono esponenti del FCC. Il processo di formazione del governo è stato lungo e complesso, dimostrando quanto Kabila sia ancora il perno degli equilibri della politica di Kinshasa. L’esecutivo, difatti, nasce a sette mesi di distanza dalla proclamazione di Tshisekedi e dopo una lunga fase di trattative. Da un lato, Tshisekedi ha dovuto arrendersi alle richieste di Kabila per dare il via alla propria legislatura, dall’altro Kabila ha ceduto lo scranno della presidenza mantenendo, però, l’effettivo controllo degli altri istituti politici del Paese, quali l’Assemblea Nazionale, il Senato, di cui l’ex Premier è l’unico membro a vita, e le Assemblee provinciali. Questa contrattazione sulle più alte cariche dello Stato tra i due neo-alleati ha riguardato anche la nomina dei vertici delle Forze Armate.
Come Capo di Stato Maggiore delle FARDC è stato confermato il Generale Celestin Mbala Musense, che già ricopriva la stessa carica dal luglio 2018, per volere proprio di Kabila. La riconferma di Mbala non appare casuale, poiché il Generale condivide, da parte di padre, la stessa etnia della famiglia Kabila (Luba – Katanga) e, da parte di madre, la stessa etnia della famiglia Tshiskedi (Luba – Kasai Orientale). Mbala, quindi, rappresenta un compromesso che può garantire la continuità e la fedeltà dell’Esercito alla nuova coalizione, riproponendo lo stesso schema, già attuato dalla famiglia Kabila, per cui ai vertici dell’apparato statale sono posti esponenti dell’etnia maggioritaria del Paese, ovvero l’etnia Luba.
In virtù di questi elementi, i rapporti di forza interni alla coalizione di governo appaiono sbilanciati a favore del FCC e di Joseph Kabila, che continua a essere il fulcro della politica interna della RDC. Tuttavia, nonostante questo squilibrio di potere, Tshisekedi tenta di ritagliarsi una certa autonomia, puntando a guadagnare il consenso sia della popolazione sia di alleati esterni, in particolare degli altri Stati della regione dei Grandi laghi.
Per quanto concerne il fronte interno, il Premier, nel febbraio 2019, ancor prima della nomina dei Ministri, ha lanciato la propria campagna di riforme per i primi cento giorni: educazione primaria gratuita, maggiore sicurezza, scarcerazione dei prigionieri politici, ritorno di alcuni esiliati e ripristino delle libertà di manifestazione e stampa. Benché queste misure siano state accolte con favore, il Paese presenta altre criticità che richiederebbero riforme radicali, come ad esempio il tasso di povertà (tra i cinque più alti al mondo) e il numero di sfollati interni, che ammonta a 5 milioni di persone. Ad oggi, sembra che lo spazio di manovra concesso al Presidente sia inferiore rispetto a quello necessario per attuare un coraggioso piano di ristrutturazione del Paese. Inoltre, considerando il precario equilibrio su cui poggia la coalizione di governo, Tshisekedi ha scelto di muoversi con cautela, attuando riforme puramente simboliche.
Parallelamente, il Presidente congolese ha attuato una campagna di legittimazione internazionale della propria figura politica, sfruttando quella che forse è stata la maggiore debolezza del proprio alleato, ovvero l’immagine pubblica. Rispetto al suo predecessore, inviso alla Comunità Internazionale per una gestione violenta del potere politico e il suo scetticismo sulle organizzazioni sovranazionali, Tshisekedi gode di una certa stima da parte di altri attori internazionali, tanto da essere stato nominato presidente dell’Unione Africana per l’anno 2021. La costruzione di proficue relazioni diplomatiche con altri Paesi africani e non, lungi dall’essere un mero esercizio di abilità diplomatica, è intimamente legata a questioni di sicurezza interna. Difatti, la RDC non ha le risorse e la forza di poter contrastare la crisi securitaria e sanitaria delle provincie orientali, ma necessita di aiuti esterni. Se per quanto concerne le epidemie, le ONG e l’Organizzazione Mondiale per la Sanità sono da tempo attive nelle maggiori aree di crisi, dal punto di vista securitario Tshisekedi deve gestire equilibri molto più complessi. Difatti, le numerose milizie presenti nell’area operano a cavallo tra RDC, Uganda e Rwanda, che da anni si accusano reciprocamente di finanziare, armare e addestrare questi gruppi armati con l’intento di destabilizzare l’area e controllare il traffico di diamanti e terre rare. A portare avanti questa narrativa sono in particolare Paul Kagame e Yoweri Museveni, i due Presidenti rispettivamente di Rwanda e Uganda. Tshisekedi, tramite una serie d’incontri, ha tentato di ricomporre le tensioni che intercorrono fra i due leader, che da tempo si confrontano in territorio congolese proprio grazie a questi gruppi armati, nella più classica delle guerre per procura. L’obiettivo di Tshisekedi è porre fine a questo conflitto tra Kigali e Kampala, al fine di avviare un processo di pacificazione delle provincie dell’est che sia efficace e duraturo. Ad oggi, però, appare molto improbabile che Kagame e Museveni possano giungere ad un accordo, poiché entrambi hanno fondato parte della loro legittimità proprio sul perenne stato di conflitto con il vicino. A complicare ulteriormente la strategia di Tshisekedi è l’influenza che Kabila ha nella regione, grazie alla rete di milizie che tuttora gli sono fedeli. L’ex Presidente potrebbe scegliere di intralciare i tentativi di pacificazione del proprio alleato, qualora vedesse messa in discussione la sua posizione egemonica nella coalizione di governo.
Alla luce di quanto detto, per Tshisekedi sarà importante una cauta gestione del dualismo con Joseph Kabila che, pur avendogli permesso di dare vita a un governo, rischia di confinarlo ai margini delle reale influenza politica nazionale. Tuttavia, al netto di queste disparità, Tshisekedi utilizza a pieno lo spazio di manovra che gli deriva dalla sua carica di Presidente, forte della fiducia di una larga parte della popolazione e, soprattutto, del consenso internazionale che è stato capace di costruirsi in quest’anno. Perciò, la stabilità della RDC e la risoluzione della sua crisi multidimensionale dipenderà molto dalla gestione degli equilibri interni alla coalizione di governo e dalla volontà dei due leader di continuare a giungere a compromessi.