Terrorismo islamico: quanto rischia l’Italia?

Terrorismo islamico: quanto rischia l’Italia?

13.01.2015

Perché contro l’Isis e il rischio attentati chiudere le frontiere non basta. Parla Marco Di Liddo (CeSI)

Una settimana dopo i tragici fatti di Parigi la tensione continua a rimanere alta in Europa e l’allerta terrorismo è massima anche per l’Italia. Ma quali sono, e quanto sono concreti i rischi per il nostro Paese? Il ministro dell’Interno Angelino Alfano, riferendo lo scorso 9 gennaio in Parlamento, ha affermato che «ospitare la massima autorità del Cristianesimo» e la «vocazione filo atlantista e la tradizionale amicizia dell’Italia con gli Usa» sono due dei principali elementi che esporrebbero il nostro Paese al rischio di attentati, come confermato anche da fonti di intelligence israeliane e americane. Il fatto che l’Italia possa essere presa di mira dal terrorismo di matrice islamica radicale appare dunque come un’eventualità fondata ma, al momento, come ha rassicurato Alfano alla Camera, non esistono pericoli «concreti ed attuali» né «segnali evidenti» contro obbiettivi o interessi italiani.

Abbiamo chiesto a Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali (CeSI) di Roma e autore di diverse pubblicazioni sul tema del terrorismo legato all’Islam radicale, se corriamo davvero questo pericolo: “Il rischio di costituzione di cellule terroristiche sul nostro territorio nazionale esiste, come anche la possibilità che qualche organizzazione o qualche folle decida di lanciare un attacco. Per fortuna, i nostri apparati di sicurezza, che vantano una lunga tradizione di contrasto al terrorismo di matrice religiosa e politica, sia interno che internazionale, lavorano nell’ombra per scongiurare questa eventualità”. Gli apparati di sicurezza italiani, come confermato dallo stesso ministro dell’Interno, sono infatti a lavoro per rafforzare le misure di prevenzione e di sicurezza nel nostro Paese, nella Capitale, nei principali scali romani e verso tutti gli obiettivi considerati “sensibili”. In questo scenario di allerta massima, parte del dibattito politico si è concentrato sul tema della protezione delle frontiere connessa al rischio terrorismo: la pressione migratoria proveniente da aree fortemente destabilizzate e teatro della diffusione di milizie armate legate all’Islam radicale è stata infatti individuata come un ulteriore fattore di rischio per il nostro Paese. I flussi migratori che interessano l’Italia, il cui volume, secondo il direttore dell’agenzia Frontex, Gil Arias Fernandez, è aumentato dell’823% rispetto all’anno precedente, considerando solo i primi quattro mesi del 2014, provengono in effetti da aree che presentano un alto grado di instabilità. I migranti, principalmente di nazionalità siriana, eritrea e somala, che raggiungono le nostre coste dalla rotta del Mediterraneo centrale, prendono il largo dai porti della Libia, uno Stato in preda al caos della guerra civile e che ha istituito un Califfato all’interno dei propri confini. La maggioranza dei migranti che sono sbarcati in Italia nel 2014, inoltre, sono di nazionalità siriana, provenienti quindi da un territorio in parte occupato dallo Stato Islamico.

Possiamo considerare queste rotte migratorie come un potenziale veicolo di infiltrazione dei terroristi all’interno dei nostri confini nazionali? Secondo Di Liddo i rischi connessi al fenomeno migratorio sarebbero in realtà minimi: “Un terrorista addestrato è un assetto ‘pregiato’ per i gruppi jihadisti. Per questa ragione, nessuno di questi permetterebbe ad un simile capitale umano di viaggiare nelle pericolose condizioni in cui viaggiano i migranti. I nuclei fondanti dei gruppi terroristi sono composti da alcune centinaia di operativi, rischiare di inviare alcune decine di miliziani ben addestrati attraverso i canali dei flussi migratori sarebbe rischioso e controproducente”. Ma c’è di più. L’attacco a Charlie Hebdo e all’alimentari kosher a Parigi, hanno dimostrato nei fatti che ormai la minaccia può essere considerata a tutti gli effetti interna ai confini europei. Anche riguardo i terroristi cosiddetti ‘home made’ o ‘home grown’, come quelli che hanno colpito a Parigi, Di Liddo afferma che non necessariamente esiste “un legame diretto tra immigrazione e radicalizzazione. Nella stragrande maggioranza dei casi i radicalizzati ‘home grown’ sono di origine straniera ma hanno cittadinanza di un Paese europeo, dunque sono cittadini europei a tutti gli effetti. Un giovane che non è integrato nella comunità di appartenenza, disoccupato o con gravi problemi sociali è un bersaglio privilegiato per il reclutamento o l’auto-radicalizzazione”.

In relazione al pericolo più imminente, ovvero quello dei potenziali attacchi da parte di terroristi appartenenti alla categoria dei foreign fighters, come anche degli ‘home grown’, la questione si sposta quindi sulla necessità di contrastare una minaccia che è ormai interna ai nostri confini. In questo senso la proposta di una modifica o di un ridimensionamento dell’accordo di Schengen, che dal 1985 disciplina la libera circolazione dei cittadini all’interno dei confini dell’UE, è divenuta una delle questioni all’ordine del giorno del vertice dei ministri dell’Interno europei di domenica scorsa a Parigi. Il Ministro degli Interni francese Cazeneuve e il suo omologo spagnolo Díaz, si sono dichiarati favorevoli ad una revisione dell’accordo che contempli la possibilità del reinserimento dei controlli alle frontiere degli Stati europei, mentre il governo italiano si è detto contrario, con Alfano e Gentiloni che hanno apostrofato l’eventuale modifica di Schengen in senso restrittivo come «un regalo ai terroristi». Alfano, per parte italiana, ha invece insistito sul punto dell’accessibilità alle informazioni sensibili come quelle del Passenger Name Record (PNR), che il ministro considera una «priorità».

Questi due elementi, assieme ad un maggiore controllo del web in collaborazione con i principali gestori della rete, costituiscono parte della strategia messa a punto dall’UE per scongiurare il rischio di nuovi attentati. Sono sufficienti? “Un maggior coordinamento ed una maggiore condivisione di informazioni tra le forze di sicurezza e le intelligence nazionali dell’Europa è di primaria importanza, naturalmente se affiancato ad una nuova politica europea sulla sicurezza” afferma Di Liddo commentando le misure discusse al vertice di Parigi. Sulla eventuale revisione di Schengen l’analista però è più scettico: “Necessiterebbe di un processo e di una volontà politica europea difficilmente ottenibile nel breve-medio periodo. È più probabile che qualche Paese chieda la sospensione oppure decida di uscirne”.

La questione della sicurezza legata alle frontiere esterne passa oggi in secondo piano quindi rispetto ad un pericolo che risulta essere ormai ben radicato nella nostra società, e che spesso è frutto del degrado e dell’esclusione sociale che ha portato alla formazione di sacche di emarginazione che ben si prestano ad essere strumentalizzate da chi offre valori alternativi. Gli strumenti legislativi previsti dal governo per il contrasto al terrorismo, come il decreto legge contro i foreign fighters o la possibilità di istituire una super procura antiterrorismo, sono considerati come un buon punto di partenza per la prevenzione e il contrasto all’estremismo islamico nell’immediatezza, ma è indubbio che per combattere alla radice il fenomeno occorre formulare una strategia politica a lungo termine e di più ampio respiro. Una strategia che punti anche a riformulare una politica estera occidentale che negli ultimi anni ha per certi versi contribuito indirettamente alla formazione del caos politico e dell’instabilità in quei Paesi che oggi vedono l’estremismo islamico armato radicarsi e svilupparsi sul proprio territorio.