Mosul affamata e distrutta tra propaganda e fake news in salsa mediorientale. Distrutta la moschea al Nouri e il minareto Hadba_HuffingtonPost

Mosul affamata e distrutta tra propaganda e fake news in salsa mediorientale. Distrutta la moschea al Nouri e il minareto Hadba_HuffingtonPost

21.06.2017

La città non ha più il suo simbolo, scambio di accuse sulle responsabilità. L’avanzata anti-Isis procede lenta, frenata dai problemi del dopo

Mosul, là dove tutto ebbe inizio. Mosul, la seconda città più popolata dell’Iraq. Mosul, a stragrande maggioranza sunnita, che nei giorni in cui tutto ebbe inizio, salutò come il nuovo “Saladino” sunnita Abu Bakr al-Baghdadi. Mosul, la città investita dai bombardamenti in terra e dal cielo, e anche bersagliata, nella “guerra mediatica” che accompagna da sempre quella sul campo, di fake news, che davano la capitale irachena del “Califfato” liberata almeno dodici volte, dall’esercito di Baghdad, una volta, dai Peshmerga curdi, un’altra, dalle forze della coalizione a guida Usa, un’altra ancora. Salvo poi fare correzioni mediatiche in corso d’opera: no, Mosul non è stata ancora liberata del tutto, ci sono ancora sacche di resistenza di Daesh nella parte Ovest, dove resterebbero intrappolati almeno 100 mila civili, ma “siamo a un passo dalla riconquista”, si affretta ad aggiungere il portavoce dell’esercito (sciita) iracheno.

Fatto sta, che la bandiera nera dell’Isis ancora non è stata ammainata da Mosul. Le “conquiste” di Mosul fanno il paio con le “morti del Califfo”. “Sparato” almeno sette volte. “È ferito…È morto in un raid…È stato colpito alla schiena…No, è ancora vivo e sta bene”.

Distrutta la moschea dove nacque il Califfato

Di certo c’è che è stata distrutta la moschea al-Nouri di Mosul, la stessa dove Abu Bakr al-Baghdadi annunciò il 4 luglio del 2014, dopo la conquista della città, la fondazione del “Califfato”.

Resta però il giallo su chi sia stato a farlo. Il fatto è avvenuto con le truppe della coalizione anti-Deash che si trovano ormai a poche decine di metri dal luogo di culto divenuto icona del jihadismo sunnita. Secondo il portavoce del comando congiunto dell’offensiva in corso a Mosul, Yahya Rasoul, a distruggere la moschea sarebbe stato il Daesh, per evitare che venisse conquistata. Amaq, l’organo di propaganda del Daesh, sostiene invece che la responsabilità si deve a un raid militare americano. Ma il Pentagono nega. “Le nostre forze stavano avanzando verso i loro obiettivi nella Città vecchia e quando sono arrivate a 50 metri della moschea al-Nouri, l’Isis ha commesso un altro crimine storico, facendo saltare in aria la moschea e il minareto Hadba”, si legge nel comunicato diffuso dalle forze irachene impegnate, da domenica scorsa, nell’assalto alla Città vecchia di Mosul, unica zona della città ancora in mano all’Isis. Il portavoce delle forze irachene ha spiegato al sito curdo Rudaw che “l’Isis aveva disseminato di trappole esplosive il minareto al-Hadba e la moschea al-Nouri e aveva piazzato molti miliziani nelle vicinanze dei due siti”. Far saltare in aria i due siti storici di Mosul è “un altro crimine contro l’umanità” e contro il patrimonio mondiale commesso dai jihadisti, ha aggiunto Yahya Rasoul.

L’antico minareto, risalente al 1172, era il simbolo di Mosul, spesso indicato come la Torre di Pisa dell’Iraq. “Il minareto di Al-Hadba è stato lì da sempre, è parte della storia di Mosul, è il simbolo della città – ha detto alla France Presse un abitante, Ahmed Thilij Hamed, 49 anni – una volta distrutto il minareto è stato inferto il colpo finale al patrimonio di Mosul, perché tutti i suoi monumenti sono andati distrutti”. Entrati a Mosul nel 2014, i jihadisti avevano infatti già distrutto il principale museo della città e diversi siti storici, tra cui i santuari dei profeti biblici Seth, Daniele e Jonah. “Questo è un crimine contro la popolazione di Mosul e tutto l’Iraq, e dimostra perché questa brutale organizzazione deve essere distrutta”, dichiara il generale americano Joseph Martin**.**

Nell’offensiva anti-jihadisti sono impegnati in migliaia, tra forze della sicurezza irachena, combattenti curdi Peshmerga, milizie tribali sunnite e consiglieri militari assistiti dalla coalizione a guida Usa. La parola al Maggiore britannico Rupert Jones, Vice comandante della coalizione internazionale che conduce la campagna militare: “L’Isis è un nemico privo d’umanità, è un nemico senza rispetto per nessuno, più che felice di massacrare civili in gran numero. Direi che è il segno, l’evidenza di un’organizzazione che sta fallendo. Sono disperati e fanno sempre più ricorso a metodi disperati. Sanno bene che la loro fine s’avvicina” afferma.

S’avvicina, forse, ma la fine non è ancora arrivata. Il 20 giugno le forze irachene hanno annunciato la stretta finale su Mosul, dopo otto mesi di combattimenti, ancora in mano ai jihadisti dell’Isis. L’avanzata è ora in direzione della città vecchia. Nei giorni scorsi sono stati lanciati 500mila volantini in cui si dice che è iniziato l’attacco “da tutte le direzioni’’ e si chiede ai civili di ''stare lontani da spazi aperti e cercare qualsiasi possibilità” di fuga o riparo. Secondo le stime dell’Onu a Mosul ci sono oltre 100mila civili in pericolo. In questo quadro secondo l’analista del Centro Studi Internazionali, Lorenzo Marinone, "l’esercito iracheno sta effettivamente progredendo**,** benché negli ultimissimi giorni le forze siano avanzate più a rilento che in passato". Secondo l’esperto “il perimetro della città vecchia di Mosul è una zona molto piccola” e “densa di popolazione”. A complicare le cose la struttura stessa del centro abitato perché “la zona dal punto di vista urbanistico è caratterizzata da moltissimi edifici e da strade estremamente strette. Quindi è un ambiente in cui combattere diventa estremamente complicato se si vuole salvaguardare prima di tutto la vita dei civili, e poi operare in sicurezza cercando di limitare le perdite”. L’obiettivo è neutralizzare le postazioni nemiche, soffocare la resistenza, mettere in sicurezza gli avamposti ed evitare vittime tra i civili. Il tutto possibilmente entro il 26 giugno, festività musulmana di Eid ul-Fitr, e soprattutto per guastare eventuali celebrazioni dell’Isis per il terzo anniversario dalla proclamazione del Califfato.

All’inizio dell’assedio, il 17 ottobre, i jihadisti erano valutati in oltre 6.000. Oggi potrebbero essere ridotti a poco più di 300. I militari iracheni con gli altoparlanti e volantini invitano gli abitanti a fuggire verso le loro linee e i campi per sfollati allestiti specie a nord e sud. Un corridoio umanitario è stato annunciato lungo il Tigri, ma la realtà è che ora è difficile scappare dal centro di Mosul. Diversi civili, secondo l’Onu**,** son ostati usati come scudi umani e altri sono stati uccisi proprio mentre cercavano di fuggire. _“__Non possiamo più utilizzare i cingolati, le artiglierie e l’aviazione. Ci si deve battere strada per strada, casa per casa, stanza per stanz_a”, ammettono gli ufficiali delle truppe scelte irachene. Nonostante queste considerazioni operative, che dovrebbero indurre alla prudenza, ecco ricomparire sui giornali e sulle reti televisive di mezzo mondo, quel titolo riciclato più volte: “Mosul, battaglia finale”, ovvero, “Mosul, assalto definitivo”.

Nell’epoca della post verità, rientra appieno questa narrazione in salsa mediorientale. Problemi militari, certo. Ma se Mosul non è stata ancora riconquistata non lo si deve tanto alla pur tenace resistenza dei miliziani di Baghdadi, quanto al problema del dopo. Problema politico, non militare. Perché i sunniti di Mosul temono più di ogni altra cosa la vendetta sciita, l’inizio di una terrificante pulizia etnica. E poi, non secondario, c’è il problema curdo. Un ingresso trionfale a Mosul dei Peshmerga darebbe nuovo slancio alla costituzione statuale del Kurdistan iracheno, una prospettiva che atterrisce non solo Baghdad ma anche Ankara. Per non parlare poi delle mire iraniane e del duello in atto tra gli Usa di Trump e la Russia di Putin per chi dovrà “dare le carte” in una ipotetica “Yalta mediorientale”. La battaglia è ancora in corso. E per Mosul il finale non è stato ancora scritto.

Fonte: HuffingtonPost