Iran: Cosa c’è dietro le proteste. La lotta di potere tra gli ajatollah
Le proteste che stanno avendo luogo in queste settimane in Iran non sono la semplice espressione del malcontento della popolazione, dietro di esse si cela una lotta di potere tra ajatollah moderati e conservatori, tra il presidente Rouhani e la guida suprema, l’ajatollah Khamenei. Le manifestazioni, nate come strumento di pressione degli ultraconservatori verso il governo, stanno mutando natura e potrebbero rivelarsi molto pericolose per il regime.
Una protesta santa
Non è infatti un caso che le proteste siano cominciate a Mashhad, città santa dello sciismo, capoluogo del Khorasan e porta verso l’Asia centrale, lontana dalle grandi capitali storiche del paese (Teheran, Isfahan, Shiraz) eppure centrale nel cuore degli iraniani. Il nome stesso della città, mashaad, che significa appunto “santuario“, spiega bene le ragioni della sua importanza. Qui trovano sepoltura i resti dell’Imam Reza, ottavo imam dello sciismo duodecimano, oggetto di venerazione per milioni di pellegrini che ogni anno affollano una città cresciuta a dismisura attorno al turismo religioso e arricchitasi grazie ai proventi dei fedeli.
Tuttavia la grande cupola d’oro del santuario di Mashhad riflette un potere più terreno che divino. A gestire i proventi dello zakat, le elemosine dei credenti, è la fondazione Astan Quds Razavi, il cui giro d’affari è stimato attorno ai 210 miliardi di dollari l’anno e che offre lavoro a circa 20mila persone nella sola Mashhad. La fondazione “caritatevole” si occupa di educazione, sanità, ma è attiva nel settore immobiliare e finanziario. Come sottolinea Francesca Manenti per CeSI, a capo della fondazione dal 2016 c’è Ebrahim Raisi, turbante ultraconservatore che non vede di buon’occhio l’attuale governo di Hassan Rouhani e la corrente riformista e moderata che esso rappresenta. Anche perché Rouhani ha puntato il dito contro uno dei più gravi problemi che colpiscono l’economia iraniana: le bonyad, fondazioni religiose che, operando al di fuori delle regole di mercato, sussidiando l’economia o monopolizzando interi settori, creano inefficienze che pesano sul bilancio nazionale.
Le bonyad rappresentano inoltre potenti centri di potere capaci di influenzare la vita politica del paese. Così quando il turbante Ebrahim Raisi ha chiamato alla protesta contro il governo, le strade di Mashhad si sono riempite di manifestanti inferociti inneggianti slogan contro Rouhani. Dietro la mossa di Ebrahim Raisi è facile vedere lo stesso ajatollah Khamenei, guida suprema del paese dal 1989, succeduto a Khomeini del quale condivide la visione politica fondamentalista e tradizionalista.
La protesta scappa di mano
I turbanti ultraconservatori non hanno però fatto i conti con quella che ormai, anche in Iran, è una società mediatizzata. Le immagini delle proteste di Mashhad hanno fatto il giro dei social-network i quali, benché illegali e ufficialmente bloccati, vengono ampiamente utilizzati dai più giovani capaci di aggirare la censura. Proprio quei giovani, accesi da quanto accadeva a Mashhad, sono scesi in piazza in molte città rivolgendo la propria rabbia non al governo ma – udite udite – contro la guida suprema, l’ajatollah Khamenei, ritenuto responsabile della disastrosa situazione economica in cui versa il paese.
Per la prima volta nella storia dell’Iran la guida suprema, massimo rappresentante politico e religioso del paese, è messo sotto accusa da manifestazioni di piazza. Le gigantografie di Khamenei sono state strappate dai muri e fatte a pezzi, sua santità è stato fatto a brandelli. Con lui, è il regime stesso a essere sotto accusa, quel velÄyet-e faqÄ«h, potere del guirisperito, con cui Khomeini ha imposto una versione ideologica e radicale dell’Islam sciita ergendolo a forma di governo.
La protesta è così scoppiata a Rasht, Kermanshah, Hamedan, Bandar Abbas, tutte località periferiche, estranee alla Rivoluzione verde del 2009, dove sono presenti minoranze etniche o religiose, e in cui la crisi economica ha colpito maggiormente. Delle grandi città iraniane, solo a Isfahan si sono registrate proteste di rilievo, mentre a Teheran le manifestazioni sono state sostanzialmente contenute.
Qui tuttavia vive quella media borghesia stanca delle privazioni economiche e delle censure del regime, già protagonista della Rivoluzione verde, e pronta a esprimere il proprio dissenso quando ne vale la pena. Se le proteste nella capitale dovessero farsi massicce e continue, allora il regime potrebbe davvero trovarsi in difficoltà. Al momento la protesta ha assunto il carattere di disobbedienza, e circolano video e immagini di giovani donne che camminano per la strada senza velo (reato per cui la pena è la frusta, si tratta tuttavia di una forma di protesta non nuova in Iran) mentre il regime si sforza di oscurare le app dei telefoni cellulari con cui la disobbedienza si propaga. Basterà?
La borsa o il turbante
L’Iran sta attraversando una profonda crisi economica, la disoccupazione è al 12% (quella giovanile al 30%) e l’inflazione ha superato il 10%. A esasperare gli animi è soprattutto l’aumento fino al 40% dei prezzi di alcuni prodotti alimentari, che ha peggiorato le condizioni di vita di molti iraniani. Il consenso verso il regime è, per molti versi, oggetto di uno scambio: finché gli ajatollah garantiscono buone condizioni di vita, i cittadini accettano obtorto collo di rinunciare alla propria libertà e adeguarsi alle censure del clero. Ma quando la borsa è vuota, il regime clericale viene messo in discussione. Le attuali proteste potrebbero quindi rivelarsi molto pericolose per il regime.
Finora la reazione del governo è stata moderata, malgrado i morti e i numerosi arresti. Il presidente Rouhani ha tutto l’interesse a non esacerbare gli animi, anche perché in questa fase la rabbia dei manifestanti è rivolta verso i suoi avversari politici, ovvero Khamenei e gli ultraconservatori, i quali stanno già organizzando le contromosse: manifestazioni a favore del regime si sono già tenute ad Ahwaz mentre l’intervento dei pasdaran, le guardie della rivoluzione islamica, fedeli al regime degli ajatollah, ha per ora messo a tacere ogni dissenso. La reazione ufficiale del regime è la solita: la colpa è di Washington. Tuttavia in un regime totalitario come quello iraniano, chiuso e poliziesco, un’azione di ingerenza dall’estero è impensabile. Vero è che queste proteste arrivano in un momento difficile per il paese, ancora in guerra contro l’ISIS.
Un turbante è per sempre?
Se la Rivoluzione verde del 2009 mirava a una svolta moderata del regime, ma non ad abbatterlo, queste proteste hanno un carattere maggiormente anti-establishment. Meno politicizzate e più spontanee delle precedenti, sembrano mancare nel proporre un’alternativa al regime, ma il loro carattere anarchico le rende imprevedibili. Il dissenso è un fenomeno carsico e tacitarlo per alcuni giorni, mesi, persino anni, non significa averlo sconfitto. Al di là del loro esito, queste proteste hanno segnato un passaggio di mentalità: se le immagini della guida suprema possono essere fatte a pezzi, vuol dire che anche il regime può cadere. Come ricordato da Kader Abdollah, scrittore e oppositore del regime, gli iraniani hanno compreso che il potere degli ajatollah non è eterno né inevitabile. Se vorrà conservarsi alla guida del paese, il clero dovrà andare incontro alle esigenze dei cittadini. La repressione e la censura autoritaria non sono più opzioni possibili.
Fonte: EastJournal