CAOS LIBIA/ Il blitz di Macron con Serraj e Haftar è un flop
La Conferenza di Parigi sul futuro della Libia voluta da Macron ha prodotto solo un accordo informale per elezioni previste il prossimo 10 dicembre.
Nessuna delle quattro parti che doveva firmare l’accordo fuoriuscito dalla Conferenza di Parigi (il capo del governo di Tripoli Serraj, quello di Tobruk Haftar e i presidenti dei due rispettivi parlamenti) sulla Libia voluta da Macron ha firmato, si è giunti solo a una approvazione formale. Lorenzo Marinone, analista Nord Africa e Medio Oriente presso il CeSI (Centro studi internazionale) ci spiega cosa significa: “L’accordo raggiunto prevede elezioni legislative e presidenziali il prossimo 10 dicembre, peccato che né Serraj né Haftar hanno l’autorità di far rispettare questo accordo, visto che non hanno nessuna autorità sulla miriade di attori che popolano il paese e che sono in grado di bloccare qualunque elezione”.
Marinone, cosa significa che si è giunti a una approvazione formale senza la firma di nessuno?
Significa due cose. La prima è che nessuno dei quattro partecipanti che dovevano firmare, Haftar, Serraj, i presidenti dei parlamenti di Tobruk e e Tripoli, sentono di potersi permettere un passo del genere.
Perché?
Per diversi motivi. Innanzitutto quando si firma un documento congiunto si riconosce come legittima la controparte, cosa che né Serraj né Haftar vogliono fare l’uno nei confronti dell’altro. Ma soprattutto firmare e prendere un impegno formale significa anche il doversi poi attenere a ciò che si è firmato. Questi che dovrebbero essere i rappresentanti di parti della popolazione in realtà non hanno una vera rappresentanza.
In che senso?
Nel senso che se avessero firmato e poi fossero tornati in Libia avrebbero dovuto fare i conti con tutta una schiera di attori: politici, capi tribù, capi di milizie, che non hanno condiviso la conferenza stessa oppure certe modalità della stessa o alcune delle conclusioni. Visto che tipo di attori sono, ovviamente questo significa che ci possa essere anche un ricorso alla forza per far valere le proprie ragioni.
L’accordo però prevede che “le istituzioni libiche non saranno più divise fra Tobruk e Tripoli, ma verranno unificate in vista delle elezioni previste per il 10 dicembre”. Questo è un passo importante, no?
Sì, importante ma si tratta di dichiarazioni di principio. Il problema è che c’è una realtà che sarebbe ingenuo pensare di non prendere in considerazione.
Ci spieghi.
Nel momento in cui si dice unifichiamo le istituzioni, può succedere quello che è successo dopo le elezioni del 2014 quando si è verificata la rottura istituzionale fra Tripoli e Tobruk. Il consenso non può essere solo tra i due rappresentanti ma trasversale tra le miriadi di attori libici che hanno il potere di far deragliare l’accordo. Fino a quando non c’è un accordo trasversale fra tutti questi, i principi non si tradurranno nella pratica cioè in un processo di stabilizzazione della Libia.
Eppure, sempre dall’accordo di Parigi, i due attori principali si impegnano a usare anche la forza per garantire il voto.
Una affermazione del genere implica che abbiano delle forze, ma non è così. Serraj non è nemmeno sindaco di Tripoli, di fatto ha una guardia presidenziale che abbiamo visto ritirarsi nei giorni scorsi davanti a milizie che sono sotto il comando di Tripoli ma che sono anche in grado di esercitare pressione politica su di lui.
E Haftar?
Haftar viene immaginato un attore forte con un gruppo coeso. invece è stato ricoverato due settimane in ospedale e subito è iniziata la lotta per la successione con attentati e tensioni fra il capo del parlamento e esponenti militari dell’esercito stesso di Haftar. Stiamo parlando di due realtà dove se c’è un ordine che qualcuno non condivide, non solo non è detto che non lo eseguano, ma possono anche ribellarsi militarmente.
Un quadro che sembra già il fallimento delle elezioni previste per il 10 dicembre, è così?
La conferenza di Parigi ha emesso un accordo molto labile. Sostanzialmente si è detto: enunciamo alcuni principi costituzionali, facciamo le elezioni e poi la costituzione. E’ una situazione rischiosissima, la stessa del voto del 2014.
In questo quadro l’Italia che parte ha, o meglio, non ha?
L’Italia non è fuori della partita, ma rimane nel binario della diplomazia guidata dall’ONU che noi abbiamo sempre seguito. Teniamo conto che fino al 2015 noi riconoscevamo Tobruk, poi concordemente con l’ONU siamo passati con Tripoli. L’Onu lascia all’Italia la possibilità di rimanere nei suoi binari, magari incrementando si spera il suo operato. Ci è stato dato spazio per le operazioni su Misurata, abbiamo guidato la formazione della guardia presidenziale di Serraj e abbiamo collaborato alla riformazione della guardia costiera libica, tutte cose non da poco.
Fonte: IlSussidiario