L’incerto futuro delle relazioni tra Pechino e Pyongyang
Mercoledì 6 gennaio l’agenzia di stampa ufficiale della Nord Corea ha annunciato la detonazione di una bomba-H. Il test nucleare, il quarto dopo quelli del 2006, 2009 e 2013, è stato accompagnato da un sisma, che ha avuto come epicentro proprio il sito dove il test è stato condotto.
Giunta pochi giorni prima della convocazione del Congresso del Partito dei Lavoratori (la prima dal 1980), la rivendicazione del successo del test sembra essere stato un segnale chiaro da parte del leader nordcoreano, Kim Jong-Un, desideroso di provare sia alla propria popolazione sia alla Comunità Internazionale di aver consolidato il proprio potere nei confronti della vecchia guardia.
Lo strumento nucleare, infatti, è sempre stato particolarmente funzionale al governo sia come dimostrazione di forza per stringere il Paese intorno alla leadership, sia come possibile sia come carta di deterrenza da giocare nei confronti delle grandi potenze, come gli Stati Uniti, per scongiurare che l’isolamento a cui è sottoposta ormai da diversi anni si possa trasformare in un vero e proprio accerchiamento regionale. La strategia perseguita dall’attuale governo, infatti, pare essere abbastanza chiara: evitare negoziati multilaterali e usare il deterrente nucleare per cercare di ingaggiare direttamente gli Stati Uniti in un possibile dialogo bilaterale, al fine di veder riconosciuto il proprio status di potenza nucleare. Nelle settimane posteriori al test, infatti, l’Agenzia di Stampa ufficiale nordcoreana (KCNA), citando una fonte del Ministero degli esteri, apriva ad un eventuale accordo con gli Stati Uniti: la Nord Corea offriva, in cambio della conclusione delle esercitazioni militari congiunte USA-Sud Corea, la fine dei test nucleari e l’apertura di un tavolo negoziale sul nucleare direttamente con gli Stati Uniti.
Il progetto politico di Pyongyang, tuttavia non sembra al momento sortire gli effetti sperati. Al contrario, la perseveranza dimostrata nel portare avanti in modo sistematico un programma nucleare di chiara natura militare ha ulteriormente irrigidito la posizione della Comunità Internazionale nei confronti della Corea del Nord. Se, da un lato, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha immediatamente condannato l’azione nordcoreana, dall’altro una netta condanna è giunta anche da parte della Cina, storico partner della dittatura nordcoreana, che ha reagito in maniera stizzita al test nucleare del Paese limitrofo. Il recente test, dunque, è stato solo l’ultimo episodio di tensione tra il governo di Pechino e il vicino nordcoreano.
Le prime schermaglie tra Cina e Corea del Nord, infatti, si sono manifestate a seguito del ritiro di quest’ultima dal Trattato di Non Proliferazione nucleare, nel 2003. Già nel 2006, la Cina ha supportato la Risoluzione 1718 del Consiglio di Sicurezza, che ha imposto le prime sanzioni a Pyongyang contro il suo programma atomico. Tali sanzioni erano state comminate in seguito al fallimento del così detto Six party talks, tavolo negoziale che comprendeva, oltre a Cina e Corea del Nord, anche Stati Uniti, Corea del Sud, Russia e Giappone, istituito come estremo tentativo di risolvere positivamente le questioni di sicurezza legate alla natura dell’agenda nucleare di Pyongyang. Sebbene la mancanza di collaborazione da parte nordcoreana, tuttavia, hanno portato allo stallo del negoziato nel 2008, la Cina ha per molto tempo mantenuto un atteggiamento di sostanziale apertura nei confronti dell’imprevedibile vicino.
Da ormai più di sessant’anni, infatti, la Cina ha prestato supporto attivo ai leader nordcoreani, in termini di assistenza sia militare sia economica. Militarmente, i due Paesi sono legati dal “Trattato Sino-Nordcoreano di mutua Cooperazione e aiuto” del 1961, un accordo che implica pronto intervento nel caso in cui uno dei due alleati si trovi in situazione di difficoltà. Economicamente la Repubblica Popolare Democratica di Corea dipende, in maniera quasi totale, dalla Cina. La quota cinese nel commercio nord-coreano è vicina all’80% e Pechino fornisce aiuti in termini commerciali e finanziari. In cambio di risorse naturali, soprattutto minerali (rame, oro, zinco, minerale di ferro, antracite) e manodopera a basso costo, la Cina rifornisce la Corea di macchinari, carburante (90% del totale), beni di consumo (80%) e derrate alimentari (45%).
Inoltre, di concerto con la Cina, nell’ultima decade, Pyongyang ha introdotto delle liberalizzazione controllate dallo Stato, quali Zone economiche speciali per favorire gli investimenti esteri.
Tuttavia la Corea del Nord ha continuato a perseguire una politica autarchica (il “juche”) di controllo statale dell’economia-pianificazione centralizzata, nazionalizzazione di industrie e collettivizzazione dell’agricoltura- e, soprattutto, ha continuato a destinare più del 30% del suo PIL all’apparato militare.
E’ stato l’avvento al potere di Kim Jong-Un, il più giovane figlio di Kim Jong-Il, a raffreddare le relazioni con la Cina. Le tensioni tra il leader nordcoreano e la leadership cinese si sono acuite quando Kim-Jong-un, nel dicembre 2013, ha eliminato Jang-Song Thaek. Vice Presidente per la commissione Difesa, uomo dell’ancien regime e zio dell’attuale leader, oltre ad aver avuto un ruolo di peso nel gestire la transizione tra padre e figlio, Jang manteneva i rapporti ad alto livello con la leadership cinese, gestendo la cooperazione economica delle “Zone economiche speciali” tra Nord Corea e Cina. L’accusa di alto tradimento nei confronti di Thaek, e la sua successiva condanna a morte, sono da inserire all’interno delle purghe di personaggi legati al precedente regime che sembrano rispondere alla volontà del giovane leader di accentrare sempre di più il potere nelle mani nelle proprie mani.
Da quando è entrato in carica, infatti, quest’ultimo ha apportato vasti cambiamenti alle gerarchie di potere interne all’apparato militare e governativo, infastidendo Pechino per l’imprevedibilità delle sue azioni. Il progressivo deterioramento delle relazioni bilaterali potrebbe rappresentare un significativo fattore di cambiamento per gli equilibri nella parte settentrionale del Pacifico.
Fino ad ora, la Cina ha cercato di preservare lo status quo all’interno della penisola coreana. Per Pechino, infatti, è fondamentale evitare che un improvviso esacerbarsi delle tensioni, o addirittura un eventuale conflitto armato, possano avere importanti ripercussioni, sia in termini economici sia in termini politici, sui propri interessi nazionali. Da una parte, infatti, una situazione di conflitto armato creerebbe inevitabilmente una forte pressione lungo il proprio confine, esercitata soprattutto dagli ingenti flussi di rifugiati nordcoreani che proverebbero a riversarsi in Cina. Dall’altra, un eventuale improvviso collasso del regime di Pyongyang che portasse ad una riunificazione delle due Coree, porterebbe le truppe americane, oggi di stanza in Corea del Sud, a ridosso della porta di casa. La Corea del Nord, infatti, ha sempre costituito una buffer zone tra la Cina e il 38° parallelo, dove sono stanziati quasi 29.000 soldati americani, tra militari e addestratori della United States Forces Korea (UNFK). In un momento in cui la dialettica con gli Stati Uniti sembra diventare sempre più tesa a causa dell’assertività della politica cinese nel Mar Cinese meridionale (di cui la costruzione di atolli artificiali e l’installazione di batterie di missili su queste ultime sono solo i più recenti esempi), il governo di Pechino sembrerebbe poco propenso a tollerare un rafforzamento della presenza americana al proprio confine nord-orientale.
In questo contesto, dunque, non è da escludere che la Cina, esausta dalla sclerotizzazione della politica di Kim Jong-Un, cominci a valutare la possibilità di rilanciare i rapporti con i Paesi dell’area, in primis Corea del Sud, e di trovare dei punti di contatto con gli Stati Uniti nei confronti della politica di Pyongyang per poter avere un ruolo di rilievo nella gestione di un’eventuale caduta dell’attuale regime nordcoreano.
Per concludere, la Cina rimane oggi il paese con più influenza su Pyongyang. Ma le mosse nordcoreane odierne sembrano far collimare gli interessi cinesi più con quelli americani e dei suoi alleati che con Pyongyang stessa. Infatti, fino a poco tempo fa il costo relativo di una Nord Corea imprevedibile era relativamente limitato per Pechino, così come per gli altri attori regionali.
Tuttavia l’imprevedibilità di Kim, unita al momento economico alquanto difficoltoso in cui si trova Pechino, spinge la Cina sia a sostenere un nuovo round di sanzioni sia a ricucire un tentativo di negoziato multilaterale sulla sorta del “Six-party talks”. Lo stesso sembrano voler fare gli attori regionali ed internazionali, consci che soltanto una coordinazione diplomatica con Pechino può togliere margine di manovra a Pyongyang, abile a sfruttare la sua posizione strategica di attore “poco razionale” per influenzare il comportamento dei Paesi circostanti.