Geopolitical Weekly n. 321

Geopolitical Weekly n. 321

Di Francesco Barbaro, Andrea Cerasuolo e Gloria Piedinovi
28.03.2019

Geopolitical Weekly n. 321

di Francesco Barbaro, Andrea Cerasuolo, Gloria Piedinovi

Sommario: Algeria, Mali, Thailandia

Algeria

Martedì 26 marzo Ahmed Gaïd Salah, Capo di Stato Maggiore e Vice Ministro della Difesa algerino, ha invocato l’applicazione dell’art. 102 della Costituzione, che prevede la destituzione del Presidente qualora una “malattia grave e duratura” ne impedisca l’esercizio delle funzioni. In effetti l’82enne Abdelaziz Bouteflika, presidente per 4 mandati dal 1999, a seguito di un ictus dal 2013 è costretto a spostarsi sulla sedia a rotelle, e non compare quasi più in pubblico.

A distanza di un solo giorno dal discorso di Salah, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), principale partito di governo, ne ha appoggiato la proposta. Ciò sembra indicare un primo possibile punto di svolta nel contesto della crisi politica algerina, iniziata con la ricandidatura di Bouteflika alle elezioni fissate per il 18 aprile, e con i conseguenti movimenti di protesta nelle piazze, portati avanti da un popolo esasperato dal sistema di potere, percepito come corrotto e antidemocratico.

Infatti, il controllo del Paese è tuttora nelle mani del cosiddetto pouvoir, una triade composta dal FLN, dalle Forze Armate e dall’intelligence. Le tre fazioni, in competizione ma solidali nel mantenimento dello status quo, in assenza di alternative avevano ripiegato ancora su Bouteflika. Ma le proteste popolari anti-sistema, riesplose con particolare intensità a partire dallo scorso 22 febbraio, hanno spinto alla rinuncia alla candidatura il vecchio e malato Presidente. Quest’ultimo, tuttavia, ha rimandato le elezioni a data da destinarsi, promettendo al popolo una “conferenza nazionale” per promuovere un’evoluzione del sistema politico. Una proposta che non è bastata a placare i manifestanti, fermi nella contestazione del pouvoir in quanto tale.

Dunque, l’attivazione dell’art. 102 rappresenterebbe un tentativo parziale di venire incontro a tali richieste. In tal modo, le Forze Armate cercano di garantirsi una base di consenso popolare allo scopo di guidare il processo di transizione politica. Ma al contempo, essendo percepite come parte integrate del pouvoir, esse si espongono al rischio di diventare il bersaglio principale delle agitazioni, e di prolungarle a tempo indefinito, dal momento che i cittadini chiedono una riforma complessiva del sistema in senso democratico e in netta discontinuità col passato

Mali

Lo scorso 23 marzo un commando armato ha assaltato i villaggi a maggioranza Fulani di Ogossogou e Welingara, nella regione centrale di Mopti, presso il confine con il Burkina Faso, uccidendo tra le 130 e le 160 persone. In molti ritengono che l’attacco sia stato condotto dalla milizia Dan Nan Ambassagou (lett. “i cacciatori votati a Dio”) legati all’etnia rivale Dogon. Secondo fonti locali, i Dogon avrebbero attaccato i due villaggi in questione in risposta ad un precedente assalto perpetrato contro una base militare dell’esercito maliano dalle milizie del Fronte di Liberazione di Macina, movimento jihadista legato al Gruppo per la Salvezza dell’Islam e dei Musulmani e formato prevalentemente da Fulani.

Il giorno successivo agli attacchi di Ogossogou e Welingara, in un tentativo di placare il risentimento dei Fulani, il Presidente Ibrahim Boubacar Keita ha disposto lo scioglimento di Dan Nan Ambas-sagou, che dal 2012 supportava il governo nella lotta contro i movimenti jihadisti e i gruppi separatisti Tuareg. Inoltre, il Capo dello Stato ha costretto alle dimissioni due alti ufficiali delle Forze Armate: il Capo di Stato Maggiore M’Bemba Moussa, sostituito con il Generale Aboulaye Coulibaly, e il Generale Abdenahmane Baby, le cui funzioni saranno esercitate dal Generale di Brigata Keba Sangare. Le sostituzioni hanno lo scopo di calmierare la rabbia dei Fulani, che hanno già accusato le Forze Armate di complicità nella strage avendo di fatto abdicato al controllo territoriale di alcuni regioni favorendo così la formazione e l’azione di milizie etniche a loro avverse.

Al di là delle implicazioni politiche e dei fragili equilibri istituzionali interni al Paese, la contrapposizione tra Dogon e Fulani ha antiche origini socio-economiche. I Fulani svolgono prevalentemente attività legate al commercio e all’allevamento semi-nomadico, mentre i Dogon sono dediti sia alla caccia che all’agricoltura stanziale: in più occasioni queste due etnie si sono scontrate per il controllo delle risorse idriche e dei terreni fertili. In questa dinamica si è inserita l’espansione nel Paese saheliano di gruppi jihadisti che hanno sfruttato la frustrazione e il risentimento dei Fulani, che accusano il governo centrale di ignorare le proprie rivendicazioni, per attirarne gruppi sempre più nume-rosi verso la causa estremiste.

Thailandia

Lo scorso 24 marzo i cittadini thailandesi si sono recati alle urne. Si tratta delle prime elezioni governative indette nel Paese dopo il colpo di stato militare avvenuto nel 2014. I due principali schieramenti vedevano, da un lato, la giunta filo-militare conservatrice guidata dal partito Palang Pracharat, cui appartiene il Primo Ministro, l’ex ufficiale dell’Esercito Prayut Chan-o-cha; dall’altro, le formazioni di opposizione appartenenti all’ala democratica e facenti riferimento al partito Pheu Thai, guidato da Sudarat Keyruphan. Proprio

a quest’ultimo partito appartengono due ex Primi Ministri, Thaksin Shinawatra e la sorella Yingluck, entrambi a capo di governi deposti in seguito a due colpi di stato militari, rispettivamente nel 2006 e nel 2014.

L’esito delle elezioni è tuttora incerto, e sarà comunicato il 9 maggio dopo l’incoronazione del re Rama X, in carica già dal 2016. Benché le prime proiezioni post-elettorali sembrino pronosticare un vantaggio a favore dell’ala conservatrice, è ancora prematuro escludere la vittoria elettorale della compagine democratica.

Indipendentemente dalla configurazione del prossimo governo, va considerato che nel panorama politico thailandese l’Esercito ricopre storicamente un ruolo molto influente. Nel 2017, il governo di Prayut chiese ed ottenne una nuova Carta Costituzionale, la cui promulgazione da parte di re Rama X ribadì lo storico legame fra la Monarchia e l’Esercito, istituzionalizzando il ruolo delle Forze Armate e prevedendo una nutrita rappresentanza militare all’interno del Senato.

Dal momento che nel sistema parlamentare thailandese la nomina del Primo Ministro è espressione della componente politica che possiede la maggioranza in entrambe le Camere, la proclamazione del risultato elettorale il 9 maggio prossimo apre la strada a due possibilità. In caso di vittoria della componente filo-militare conservatrice, l’Esercito vedrebbe confermato e rinsaldato il proprio ruolo politico. Al contrario, un risultato elettorale favorevole alla controparte condurrebbe ad una situazione delicata: un Primo Ministro ed un governo di stampo democratico dovrebbero inevitabilmente confrontarsi con la componente militare e conservatrice, il cui rilevante peso in Parlamento rimane un punto fermo nel panorama politico thailandese.