Dazi e nucleare iraniano: Emmanuel Macron e Angela Merkel a colloquio con Trump
Lo scorso 23 aprile, il Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il Capo di Stato francese Emmanuel Macron, per una visita ufficiale articolata su tre giorni. L’incontro è stato segnato da una forte carica simbolica e dalla celebrazione dei rapporti di reciproca amicizia che legano non soltanto i due Pasi, ma anche, su un piano strettamente personale, i due rispettivi leader. Se da un lato Trump e Macron hanno più volte ribadito la profonda sintonia che li lega di fronte ai giornalisti, dall’altra il cerimoniale non ha mancato di rievocare le pietre miliari delle relazioni bilaterali tra i due Stati.
Ad oggi Macron è l’unico leader occidentale di rilievo ad intrattenere rapporti più che cordiali con il Presidente Trump. A differenza della precedente Amministrazione, quando gran parte delle personalità internazionali accorrevano per conoscere Barack Obama, il 45° Presidente degli Stati Uniti si trova sostanzialmente isolato da un punto di vista diplomatico. Xi Jinping infatti, nonostante gli ultimi colloqui, rimane pur sempre il principale competitor, Angela Merkel assieme a quasi tutto l’arco parlamentare tedesco ha più volte marcato le distanze, mentre la stessa Theresa May, Primo Ministro del Paese europeo storicamente più atlantista, si è recentemente trovata a dover rinunciare alla visita ufficiale, per timore di eventuali proteste.
Se da un lato Trump è consapevole della necessità di trovare un interlocutore di prim’ordine all’interno dell’Unione Europa, dall’altra Emmanuel Macron è stato estremamente abile a sfruttare un momentaneo vuoto di leadership, conseguente all’indebolimento elettorale della figura di Angela Merkel, per ergersi a portavoce globale delle istanze europee, e per agganciare sempre più il proprio Paese a quella che, per il momento, rimane la principale potenza economica e militare a livello internazionale. La Francia è una nazione che storicamente ha sempre cercato, anche in virtù del proprio arsenale nucleare e del prezioso retaggio coloniale, di perseguire una politica estera indipendente e non sempre appiattita su posizioni atlantiste. Al contempo però, gode di una proficua collaborazione con Washington per quanto riguarda il settore dell’intelligence e del contro-terrorismo. Sotto gli ultimi tre Presidenti della Repubblica, infatti, la cooperazione con gli americani nelle aree di crisi si è decisamente intensificata, soprattutto in aree come Nord Africa e Medio Oriente, dove si sono sempre diretti gli interessi di Parigi. Il recente intervento francese in Siria a fianco dell’USAF, ad esempio, si può inscrivere nel solco di tale riallineamento.
La visita del Presidente francese si è concentrata fondamentalmente su due dossier: i dazi paventati da Trump sulle importazioni di acciaio e alluminio, rispettivamente al 25% e al 10%, e l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) siglato nel 2015. Partendo da quest’ultimo punto, se da una parte Trump lo ha più volte definito “il peggiore accordo di sempre”, dall’altra Emmanuel Macron, a fronte dei profondi interessi commerciali che legano la Francia all’Iran, un mercato vergine da 80 milioni di abitanti, si è recato a Washington con l’intento di salvaguardarlo. La proposta di Macron, più tardi condivisa anche da Angela Merkel, sembrerebbe quella di estendere l’accordo temporalmente (attualmente la scadenza è fissata per il 2025) e, al contempo, far sì che le restrizioni coinvolgano anche lo sviluppo di missili balistici a lungo raggio e mettano un freno alle ambizioni politiche della Repubblica Islamica in Medio Oriente, con particolare riferimento a Siria, Yemen e Libano.
Tale ipotesi, per quanto ambiziosa, non sembrerebbe incontrare il supporto di Trump, dietro al quale si agita un Partito Repubblicano oltranzista e un nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John R. Bolton, profondamente critico nei confronti dell’Iran.
Da parte di Teheran, parallelamente, è difficile ipotizzare la riapertura di un tavolo di trattativa multilaterale estremamente complesso ed estenuante, soprattutto in un momento di fragilità per la leadership iraniana, la quale potrebbe sfruttare a proprio vantaggio l’inasprimento della contrapposizione ideologica con gli Stati Uniti per compattare il fronte interno e accattivarsi l’opinione pubblica.
Per quanto riguarda invece il secondo dossier, se da una parte l’ipotesi di nuovi dazi rientra all’interno del disegno studiato da Trump per favorire la produzione interna d’acciaio e rendere gli Stati Uniti sempre meno dipendenti dalle importazioni, dall’altra si è rivelata un’arma diplomatica estremamente efficace per aumentare il potere persuasivo nei confronti degli alleati per quanto riguarda la politica estera. Risulta indubbio come i due dossier siano in realtà strettamente collegati e che Trump, benché da una parte sia animato dal desiderio di mettere mano all’esposizione commerciale del proprio Paese, dall’altro necessita del supporto di alleati nel suo tentativo di ridefinire gli equilibri geopolitici del Medio Oriente, partendo appunto dall’Iran.
Tutt’altro trattamento è stato riservato invece alla Cancelliera tedesca, la quale non ha mai nascosto le distanze valoriali e personali che la dividono da Trump. Angela Merkel, giunta a Washington lo scorso 27 aprile, è stata ricevuta dal Presidente americano per sole tre ore, in maniera estremamente discreta, per un colloquio di carattere tecnico principalmente focalizzato sul tema dei dazi. La Germania, infatti, con i suoi 0.81 milioni di tonnellate all’anno è il primo esportatore europeo d’acciaio negli Stati Uniti. Trump ha criticato a più riprese non soltanto il surplus commerciale tedesco, definendolo dannoso per l’economia europea tanto quanto per quella americana, ma si è rivolto anche al budget tedesco per la Difesa, giudicato insufficiente per gli standard dell’Alleanza Atlantica, in luce di una possibile futura rimodulazione dell’impegno statunitense nel contesto europeo. Accanto a ciò, tutta una serie di ulteriori temi contribuiscono a segnare uno dei punti storicamente più bassi per le relazioni bilaterali tra Germania e Stati Uniti, tra cui ambiente, politiche migratorie e strategie energetiche. Non va dimenticata, ad esempio, la netta opposizione da parte dell’Amministrazione Trump al progetto per la costruzione del gasdotto Nord Stream 2, che rafforzerebbe di fatto la dipendenza energetica di Berlino dal mercato russo, fortemente voluto dalla componente socialdemocratica (SPD) dell’attuale governo.
Per quanto riguarda il JCPOA, su cui Trump dovrà esprimersi ufficialmente il prossimo 12 maggio, nonostante la Cancelliera abbia recentemente affermato che l’attuale accordo presenti alcune criticità, non è possibile interpretare le parole di Angela Merkel come una netta presa di posizione, ma piuttosto come una velata propensione ad una modifica, piuttosto che ad un’eventuale cancellazione. La Germania, infatti, è sempre stata uno dei principali fautori, nonché strenuo difensore, dell’accordo di non-proliferazione con Teheran.
Ciò che si evince da questo round di colloqui può essere fondamentalmente riassunto in tre punti. Da una parte, il dossier iraniano si conferma una delle priorità dell’attuale Amministrazione americana. Il Presidente ha infatti posto deadlines molto serrate, paventando addirittura una risoluzione unilaterale della questione senza ulteriori consultazioni. Ciò ha indirettamente conferito a Donald Trump una posizione di preminenza all’interno della discussione e ha fatto sì che i principali stakeholders si affrettassero alla Casa Bianca in cerca di un compromesso.
Dall’altra parte, emerge sempre più lo stato di difficoltà nel quale attualmente riversa la leadership tedesca. La voce di Berlino infatti, nonostante conservi la sua autorevolezza, appare quantomai fioca, a fronte di una politica interna frammentata e attraversata da profonde crisi d’identità.
Tuttavia, il dato più evidente è la momentanea consacrazione di Emmanuel Macron (prima ancora che della stessa Francia) a nuovo interlocutore privilegiato del governo statunitense. Oggi, la Francia di Macron vuole ricoprire un nuovo ruolo di potere all’interno dell’Unione Europea, nonché cercare di ristabilire, attraverso il placet e il supporto di Washington, la propria influenza all’interno di quegli scenari geopolitici, come ad esempio il Sahel, dove ha sempre storicamente proiettato la propria influenza economica e militare.
Ciò che sorprende in tale contesto è la totale mancanza di una linea politica europea che rappresenti, se non gli interessi di tutti 27 i Paesi, almeno le istanze dei principali attori.
La posizione di Macron, confermata anche da quest’ultima visita ufficiale, sembra infatti quantomeno ossimorica: se da una parte il Presidente si pone come alfiere della globalizzazione e principale promotore del progetto di integrazione europea, dall’altra sta giocando una partita volta a ritagliarsi sempre più ampi margini di sovranità, che consentono alla Francia di muoversi, all’interno del contesto europeo, da battitore libero, anche per quanto riguarda le relazioni trans-atlantiche.