Da Gaza al Libano: un rapido punto della situazione sul campo
Medio Oriente e Nord Africa

Da Gaza al Libano: un rapido punto della situazione sul campo

Di Giuseppe Dentice
21.06.2024

La guerra a Gaza si trova in una fase di stallo determinata dalle reciproche volontà di Israele e Hamas nel fiaccare (se non addirittura sabotare) i tentativi di mediazione portati avanti da Stati Uniti, Qatar ed Egitto. Tutti i tentativi sono falliti a causa della indisponibilità delle parti nel trovare una qualche forma di compromesso nelle trattative portate avanti tra il Cairo e Doha. Ad oggi, la proposta migliore sul tavolo rimane il cosiddetto “Piano Biden”, articolato in tre fasi: 1) tregua armata di circa sei settimane; 2) scambio tra prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi sequestrati da Hamas; 3) costituzione di un cessate il fuoco permanente e ricostruzione.

Al momento, le parti sono d’accordo su due punti, l’uno escludente l’altro: Israele vuole chiudere con Gaza per concentrarsi sul Libano; Hamas vuole un cessate il fuoco da spacciare come vittoria politica in funzione anti-israeliana e anti-Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Tuttavia, è anche giusto ribadire un concetto: nel caso in cui le parti dovessero trovare un’intesa, anche minima, non è detto che questo elemento possa contribuire a generare una de-escalation regionale generalizzata.

In questa fase della guerra, sia Israele, sia Hamas hanno interesse a mantenere inalterato, seppur entro una soglia controllata di confronto armato, il livello di conflittualità per opportune motivazioni politiche. Nell’impossibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati a Gaza (distruzione di Hamas e rioccupazione dell’enclave), Israele deve fare i conti con una tensione crescente lungo il confine con il Libano, che può essergli utile per degradare le capacità di Hezbollah, ma anche per distogliere le attenzioni (e le critiche) internazionali nei suoi confronti dovute in parte alle operazioni in corso nell’enclave palestinese. Da parte sua, Hamas punta a indebolire politicamente dall’interno e in termini reputazionali Israele. Coerentemente con la sua storia e i suoi obiettivi, il gruppo palestinese ha promosso da diversi mesi una strategia che mira a regionalizzare in senso islamista la crisi con Tel Aviv, cercando appoggi in tutto quel “Medio Oriente instabile”. Sforzi importanti in questa direzione si registrano, appunto, in Giordania e Iraq, considerati dei “ventri molli” adatti a recepire le propagande anti-israeliane e filo-islamiste. Al contempo, questa “operazione politica” mira a indebolire i competitor nel campo palestinese, soprattutto l’ANP, promuovendo nei confronti dell’istituzione guidata da Abu Mazen un’azione profonda di delegittimazione.

Nel frattempo, la situazione sul terreno assume evoluzioni repentine e difficilmente controllabili. Se nella Striscia di Gaza i combattimenti sono ridotti ad aree specifiche del territorio, al confine settentrionale di Israele invece la tensione rischia di sfuggire presto dal controllo delle reciproche parti. Mentre Hezbollah incrementa i lanci di razzi sui territori nord di Israele, l’esercito di Tel Aviv ha annunciato di aver approvato un piano militare per lanciare un’offensiva contro la milizia sciita nel sud del Libano. Si dovrebbe trattare di un’operazione limitata alla sola porzione meridionale del territorio, con il chiaro intento di allontanare la presenza e la minaccia posta dal partito-movimento guidato da Hassan Nasrallah e ristabilire una fascia di sicurezza per diverse chilometri di profondità rispetto al confine israeliano. Tuttavia, intorno all’operazione militare sussistono due elementi critici. In primo luogo, il fatto che per poter essere sostenibile, questa deve godere del pieno e non titubante sostegno politico e militare statunitense, senza il quale sarebbe impossibile per Tel Aviv reggere non solo il confronto su due perimetri geografici differenti, ma anche il peso massiccio a livello reputazionale, economico e umano a cui il Paese è sottoposto dall’ottobre 2023. In secondo luogo, qualora l’operazione dovesse scattare, non è detto che la stessa non possa tramutarsi presto in un’invasione terrestre su larga scala, che potrebbe contribuire a ingenerare nuova instabilità per il Libano (con gli spettri di una guerra civile sempre paventata forse non solo in maniera propagandistica da Nasrallah), ma anche per Israele e l’intera regione allargata.

Una guerra decisamente più pericolosa di quella di Gaza, nella quale gli USA rischierebbero di trovarsi impantanati e maggiormente coinvolti contro un nemico come Hezbollah più pericoloso di Hamas, con una capacità militare offensiva superiore (in virtù di una disponibilità di 150.000 missilistica in grado di colpire Tel Aviv e altri luoghi critici israeliani, come la città portuale di Haifa) e un’esperienza consolidata dagli anni di guerra combattuti al fianco delle milizie iraniane in Siria in difesa del regime di Bashar al-Assad.

Se, nel breve periodo, quindi, si suppone che le condizioni politiche e di sicurezza continueranno a degradarsi a Gaza (così come nel nord della Cisgiordania, dove da tempo si assiste ad una pericolosa escalation), nel medio termine, invece, le sfide maggiori potrebbero venire dal Libano e dai rischi di una guerra (per procura) tra Israele, Hezbollah e Iran giocata sul suolo libanese. A mutare non sarebbe solo lo spazio geografico-politico-militare del confronto, ma cambierebbe anche e soprattutto la ratio della strategia israeliana nella regione in funzione dichiaratamente anti-iraniana.