ATLAS: Burundi, Hong Kong, Iraq, Sud Sudan

ATLAS: Burundi, Hong Kong, Iraq, Sud Sudan

Di Ludovica Castelli, Denise Morenghi e Matteo Urbinati
28.05.2020

Burundi: il Generale Evariste Ndayishimiye vince le elezioni presidenziali

Il 20 maggio si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno visto trionfare, con il 68% dei voti, il Generale Evariste Ndayishimiye, leader del partito di potere CNDD-FDD (Conseil national pour la défense de la démocratie-Forces de défense de la démocratie) e stretto alleato del Presidente uscente Pierre Nkurunziza.

Il principale avversario di Ndayishimiye è stato Aghaton Rwasa, leader delle CNL (Congrès national pour la liberté), ex comandante ribelle durante la guerra civile burundese e tra i più importanti sostenitori del cosiddetto Hutu power, ideologia etno-nazionalistica volta a favorire il ruolo e l’influenza dell’omonima etnia.

Le elezioni presidenziali hanno rappresentato l’apice della tumultuosa stagione politica burundese degli ultimi due anni, caratterizzata da un numero crescente di manifestazioni contro l’ormai ex Presidente Nkurunziza, accusato di corruzione, autoritarismo e nepotismo. Sotto le pressioni della società civile, Nkurunziza aveva rinunciato a modificare la Costituzione per superare lo scoglio del limite dei mandati e prolungare ulteriormente la sua permanenza al vertice dello Stato, durata per circa 15 anni.

Tuttavia, la vittoria di Ndayishimiye non rappresenta un cambio sostanziale negli equilibri di potere nazionali. Infatti, il Generale appartiene al medesimo partito dell’ex Presidente ed è considerato dai movimenti di opposizione un semplice “leader fantoccio”.

La vittoria di Ndayishimiye è stata contestata da Rwasa, che ha accusato le autorità di intimidazioni ai danni dell’elettorato, violenze sugli oppositori e brogli.

Anche se, al momento, Rwasa ha affermato di voler attendere le statuizioni della Commissione Elettorale, non è da escludere che la conferma della vittoria di Ndayishimiye possa innescare una nuova ondata generalizzata di proteste, i cui esiti futuri potrebbero essere drammatici e sfociare in manifestazioni di violenza estesa su tutto il territorio.

Hong Kong: il via libera alla nuova legge sulla sicurezza riaccende le proteste

Il 28 maggio il Congresso Nazionale del Popolo cinese ha approvato quasi all’unanimità la proposta di legge per la sicurezza nazionale di Hong Kong. Se adottata, la legge introdurrebbe nella costituzione della regione autonoma (Basic Law) sanzioni penali in caso di secessione, tentativi di sovversione dell’ordine, atti di terrorismo e legami con agenti esterni, di cui spesso sono state accusate le manifestazioni antigovernative della città. Pechino ha giustificato l’urgenza di introdurre la legge con la deteriorata condizione di sicurezza di Hong Kong e l’incapacità delle autorità locali di emanare una legge di sicurezza negli ultimi anni. Benchè non siano ancora chiari i dettagli del testo, la legge rappresenta la decisione delle autorità cinesi di aggirare il tradizionale iter legislativo di Hong per impartire un netto giro di vite alla gestione della sicurezza sul territorio e aprirebbe la strada ad un cambiamento significativo nel funzionamento della soluzione politica “Un Paese Due Sistemi”.

La proposta di legge ha rinfiammato il dissenso nella regione autonoma, in cui i manifestanti erano già tornati in piazza nelle ore precedenti all’annuncio per protestare contro l’aumento dell’interferenza del governo cinese e la limitazione delle libertà di espressione, in un momento in cui il Consiglio legislativo di Hong Kong si apprestava a discutere l’approvazione del provvedimento sulla penalizzazione di atti irrispettosi nei confronti dell’inno nazionale cinese.

In effetti, i nuovi provvedimenti sembrano mostrare una volontà di controllo sempre più stringente su Hong Kong da parte di Pechino. Il pugno di ferro potrebbe portare ad un nuovo inasprimento della dialettica e ad un aumento degli scontri tra manifestanti e Forze di sicurezza locali.

In questo contesto, la scelta del governo cinese potrebbe ulteriormente complicare il futuro della regione autonoma. Da un lato, la prospettiva di assistere ad un restringimento degli spazi di espressione politica potrebbe fomentare le frange più intransigenti dei movimenti di opposizione ed alimentare così l’instabilità all’interno della regione autonoma. Dall’altro, l’incertezza che ancora aleggia sul provvedimento e la prospettiva di possibili punizioni anche per le attività di società con collegamenti all’estero potrebbe avere ripercussioni sul ruolo di Hong Kong come hub finanziario e commerciale nel medio termine. Il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha già espresso l’intenzione dell’Amministrazione Trump di prendere in considerazione il termine dello statuto speciale applicato alle relazioni con Hong Kong in materia di transazioni economiche e commerciali, a causa della diminuzione della sua autonomia da Pechino. Benchè la dichiarazione i Pompeo rientri in un più ampio contesto di competizione con Pechino, la posizione statunitense ha messo in luce la possibilità che gli sviluppi connessi alla legge sulla sicurezza possano effettivamente portare ad un ridimensionamento della presenza straniera nella regione autonoma, con ripercussioni diretti sul suo ruolo che da sempre la regione autonoma ha ricoperto di porta di accesso in Cina per il mondo esterno.

Iraq: il Governo Kadhimi si riavvicina all’Arabia Saudita

Venerdì 23 maggio, il Ministro delle Finanze iracheno e responsabile ad interim del Ministero del Petrolio Ali Allawi si è recato a Riyadh in quella che è la prima visita ufficiale all’estero di un rappresentante del neo governo di Baghdad, insediatosi lo scorso 6 maggio.

L’apertura al Regno saudita è stata fortemente voluta dal nuovo Premier iracheno Mustafa al-Khadimi ed è volta a rilanciare le relazioni tra i due Paesi dal punto di vista politico, economico e sociale, con l’obiettivo ultimo di contenere l’influenza iraniana in Iraq. L’incontro infatti ha riaperto un canale di dialogo riguardo una serie di misure di cooperazione che, sebbene annunciate nel 2017, erano poi di fatto rimaste in sospeso durante la premiership di Adel Abdul Mahdi.

In particolare, a livello economico sono stati annunciati una serie di accordi di notevole importanza: dalla collaborazione nel settore energetico al via libera degli investimenti sauditi nel maggior giacimento di gas naturale iracheno. Entrambe misure atte a ridurre l’interdipendenza energetica tra Baghdad e Teheran e a ricalibrare i rapporti con Riyadh. A livello diplomatico, invece, l’Arabia Saudita ha sbloccato l’invio dell’Ambasciatore in Iraq dopo quattro anni di interruzione delle relazioni diplomatiche, una decisione dalla forte valenza simbolica che potrebbe preludere a ulteriori accordi e, in generale, a un maggiore attivismo saudita in Iraq.

Infatti, in un momento di oggettiva difficoltà per l’Iran a causa di fattori interni, come l’emergenza sanitaria, e di fattori esterni, come le forti pressioni di Washington e le ripercussioni della morte di Soleimani sulla tenuta della rete regionale di proxy, l’Arabia Saudita potrebbe tentare di recuperare spazio di manovra in un contesto come quello iracheno dove l’influenza iraniana è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni.

Sud Sudan: proseguono i massacri etnici nella regione di Jonglei

Tra il 20 e il 21 maggio, violenti scontri etnici hanno colpito la città di Pieri, nel nord della regione di Jonglei. Nello specifico, bande armate composte da miliziani di etnia Murle hanno rastrellato i villaggi a maggioranza Lou Nuer, provocando la morte di oltre 300 persone. Negli ultimi mesi, nel Paese si è registrata un’intensificazione della violenza etnica, come testimoniato dalle decine di attacchi perpetrati dallo scorso febbraio e che hanno causato oltre 800 vittime.

Il conflitto tra Murle e Lou Nuer ha origine nella competizione per il controllo e l’accesso alle risorse idriche e del suolo e si inserisce nel solco della classica rivalità economica e sociale tra pastori semi-nomadi ed agricoltori.

Tale competizione è stata acuita dal peggioramento delle condizioni ambientali, causate dalle disastrose conseguenze delle recenti alluvioni che hanno distrutto i raccolti e ucciso centinaia di capi di bestiame. Inoltre, per via del lockdown dovuto alle misure di contenimento per l’epidemia di covid-19, i prezzi dei generi alimentari sono aumentati mentre gli approvvigionamenti di cibo, medicinali e altri beni di prima necessità sono nettamente diminuiti, aumentando il malcontento e l’indigenza popolari.

Gli scontri inter-etnici testimoniano l’estrema fragilità del Paese che continua a fronteggiare le scorie di lunga durata della guerra civile. Le violenze tra diverse comunità e gruppi socio-economici mettono in evidenza come il processo di stabilizzazione nazionale proceda a rilento e con difficoltà, nonostante i recenti sviluppi positivi. Infatti, lo scorso febbraio, il Presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, e il leader dell’opposizione Riek Machar, di etnia Nuer, avevano sottoscritto un accordo di pace che avrebbe dovuto porre fine agli scontri ed aprire la strada alla riconciliazione nazionale.

L’evidente distanza che separa la politica istituzionale e le dinamiche sociali locali non costituisce un buon segnale per il percorso di stabilizzazione sud sudanese e, anzi, lascia presagire il proseguo della volatilità che caratterizza la scena politica nazionale.

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