Iacovino: foreign fighters stanno rientrando in Europa per combattere in nome del Califfo
ROMA. «Inside fighters». I miliziani stranieri dell’Isis stanno rientrando in patria per combattere «dall’interno», in Europa, la loro guerra santa. «Questa è l’operazione più pericolosa del Daesh: formare e addestrare miliziani che, poi, tornano e possono circolare liberamente grazie al loro passaporto», afferma Gabriele Iacovino. Il responsabile degli analisti del Centro Studi Internazionali-Cesi, diretto da Andrea Margelletti, aggiunge: «Le insidie stanno anche nel fatto che la prevenzione e la lotta al fenomeno diventano più difficili in ambito Schengen. Per questo vi è bisogno di un’efficace azione di coordinamento e collaborazione tra servizi di sicurezza».
I «tagliagole» fuggono da Ramadi. Il califfo è costretto a ripiegare, malgrado i proclami contenuti nel suo nuovo messaggio audio?
«È un messaggio di propaganda in un momento di difficoltà sul campo per Daesh (termine arabo per indicare lo Stato Islamico, ndr). La ripresa di Ramadi da parte dell’esercito iracheno, la pressione dei Peshnerga curdi sull’area di Sinjar, la campagna aerea russa in Siria: sono tutti episodi che dimostrano le difficoltà operative del gruppo. Purtroppo, però, l’immagine e il messaggio di Daesh sono ancora molto forti».
Quindi?
«Proprio i momenti di difficoltà operativa sono possibili punti di forza per il gruppo terroristico, che si erge a baluardo del jihadismo internazionale. In più, è proprio in queste circostanza che si cerca il colpo sensazionale per dimostrare la propria forza».
La Procura di Sarajevo ha rivelato di avere appena sventato un «colpo sensazionale» dell’Isis, ordinando 11 arresti. È la conferma che i Balcani rappresentano uno dei principali focolai di infezione jihadista nel nostro continente?
«I Balcani sono da sempre uno snodo fondamentale per la radicalizzazione europea, sia per la presenza di gruppi terroristici sia per i network che forniscono supporto a coloro i quali vogliono andare a combattere il proprio jihad all’estero. Questo, insieme alla forza della malavita locale organizzata, rende la regione molto pericolosa per la sicurezza europea e del nostro Paese».
«Affiliazione ideologica pericolosa come un atto terroristico». Lo ha dichiarato in un’intervista al «Giornale di Sicilia» l’islamista Valentina Colombo, commentando il fermo e l’immediato rilascio di una ricercatrice libica a Palermo. D’accordo?
«Bisogna mantenere un approccio realistico al fenomeno terroristico. Una cosa è un predicatore che su internet diffonde messaggi utili per la radicalizzazione dei giovani come il fu Awlaki, imam americano divenuto il più importante ideologo di al-Qaeda nella Penisola Arabica. Altra cosa è la persona che visita siti internet condividendone l’approccio ma senza riscontri oggettivi con la realtà».
A proposito di Libia. L’accordo di Skhirat consentirà davvero la nascita di un governo di unità nazionale?
«È una grande scommessa della comunità internazionale. Utilizzare un accordo che un paio di mesi fa era precipitato in un nulla di fatto e farlo diventare un successo è un’operazione diplomatica importante. Ora bisognerà vedere quale sarà la reale applicazione sul campo di un simile accordo. Nonostante vi siano segnali preoccupanti circa le reazioni di vari attori locali libici, il processo di ricostruzione istituzionale è al momento l’unica via per pacificare il Paese».
Nel «Paese del Caos» quale è, allora, lo scenario attuale?
«Il documento di Skhirat è stato siglato da 90 deputati del Governo di Tobruk, tra i quali il vicepresidente dell’Assemblea Emhamed Shaib, e da 69 del Consiglio di Tripoli. Prevede la creazione di un governo di unità nazionale che avrà un mandato annuale, prolungabile per altri 12 mesi, un Consiglio di Presidenza, una Camera dei Rappresentanti ed un Consiglio di Stato. Nello specifico, il Consiglio sarà composto dal premier Fayez Sarraj, rappresentante di Tobruk ma lontano dalle idee del generale Haftar, e da tre vicepremier. Ma non è tutto».
Dica pure.
«A premier e vice si aggiungono i rappresentanti politici delle tre regioni libiche: Nuri Balabad per il Fezzan, Fathi Bashara per la Cirenaica e Saleh Makhzoum per la Tripolitania. L’accordo prevede pure la creazione di una nuova Camera dei Rappresentanti, nella quale confluirebbe il Parlamento di Tobruk. Quello di Tripoli, invece, diverrebbe una sorta di Consiglio di Stato. Difficile che realtà come quella di Zintan o di Misurata, molto forti militarmente ed economicamente ma scarsamente rappresentate a livello delle future istituzioni, possano accettare».
Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha escluso un nostro intervento militare in quello che fu il regno di Gheddafi. Una scelta solo temporanea?
«Il percorso intrapreso è quello di sostegno alle nuove istituzioni libiche che saranno. Dunque, molto probabilmente si tornerà a parlare di un’azione militare di pacificazione in Libia anche per formare le nuove forze di sicurezza. Senza dimenticare sullo sfondo la necessità di arginare la minaccia proveniente dal rafforzamento del Daesh in Libia. Anche perché il processo politico necessità di andare parallelamente a quello di sicurezza e viceversa».
Abu Bakr al-Baghdadi è tornato a minacciare Israele. Una strada ormai senza uscita?
«Israele non è un obiettivo del Daesh se non in termini propagandistici. Certo è che, a prescinde da questa valutazione, la situazione in Cisgiordania sta diventando insostenibile. Parlare ora di un processo di pace è una chimera irraggiungibile. Ma la cosa più preoccupante è che la mancanza di prospettive sta portando ad una reazione sempre più violenta nella popolazione palestinese, ormai difficilmente controllabile pure dall’Anp».