UCRAINA ANNO III
Russia & Caucasus

UCRAINA ANNO III

By Marco Di Liddo, Emmanuele Panero, Tiziano Marino, Alexandru Fordea and Alessio Stilo
02.24.2025

A tre anni di distanza dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia e a 11 anni dall’inizio del conflitto tra Kiev e Mosca, gli attori coinvolti hanno cominciato a discutere termini, modalità e contenuti del tanto atteso negoziato di pace. Tuttavia, russi, ucraini, statunitensi ed europei si sono presentati all’appuntamento più atteso con intenzioni, posizioni e obbiettivi molto diversi tra loro.

Per gli Stati Uniti, l’Ucraina è una partita da chiudere velocemente per virare il timone strategico, definitivamente, verso il Continente Asiatico e per rinegoziare i termini dell’alleanza politica e militare con l’Europa. Il Presidente Trump considera i dossier securitari nel Vecchio Continente come eredità di un mondo e di un’epoca morenti e sembra, dunque, intenzionato a capitalizzare le paure degli europei e le esigenze dei russi. La Casa Bianca appare incline a trovare un compromesso con il Cremlino per sottolineare come il proprio inquilino rispetti le promesse di campagna elettorale e per provare a convincere Vladimir Putin a sconfessare, almeno in parte, “l’amicizia senza limiti” con Pechino e Xi Jinping nell’ottica della prossima escalation del confronto, sempre più teso, tra statunitensi e cinesi. Per convincere lo Zar, Trump è disposto, almeno apparentemente, a riconoscere le annessioni russe degli oblast ucraini, a negare l’ingresso di Kiev nella NATO, ad alleviare parzialmente le sanzioni e ridiscutere i termini della presenza militare a stelle e strisce in Europa. Tuttavia, la sua disponibilità non è illimitata e la sua immagine di uomo forte non dovrà uscirne compromessa, pena l’imposizione di sanzioni ancora più feroci e il proseguo (condizionale) delle forniture di armamenti per tenere in vita la resistenza ucraina. In questo contesto di disimpegno americano dal quadrante Euro-Mediterraneo e, in generale, di rinegoziazione dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, Washington intende alzare il prezzo della protezione militare americana, chiedendo ai partner europei di alzare il budget per la Difesa, incrementare gli acquisti di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e, in generale, assumersi maggiori responsabilità politiche ed operative a livello continentale.

La Russia, che aveva costruito parte della sua strategia di guerra proprio sull’elezione di Trump e sulla divisione del fronte europeo, oggi raccoglie più di quanto abbia seminato ed ottenuto sul campo di battaglia. La pressione sull’Ucraina è costante, ma la capacità di sfondare il fronte latita e l’economia comincia a surriscaldarsi, indicando che il massimo sforzo potrà essere profuso fino ai primi mesi del 2026. Quasi in un lampo, il Cremlino viene riabilitato dalla Casa Bianca, ritenuto l’unico interlocutore credibile e legittimo per gestire il conflitto e percepito come l’ago della bilancia nella grande partita globale anticinese. A Mosca viene perdonato tutto: le fosse comuni, gli attacchi contro i civili, il rapimento di oltre 20.000 bambini ucraini, la perdurante campagna di guerra ibrida contro tutto il blocco Euro-Atlantico. I russi ne prendono atto e, al momento, non intendono fare alcun passo indietro sulle rivendicazioni avanzate nel lontano 2021. Molto probabilmente non riusciranno ad ottenere la totalità di quanto richiesto ma per loro il congelamento del conflitto, l’assenza di garanzie di sicurezza vincolanti a difesa dell’Ucraina, il mancato allargamento della NATO e la diminuzione del coinvolgimento statunitense rappresentano già una vittoria. Dopotutto, la Russia ha bisogno di prendere fiato per rigenerare le forze (armate e non solo) e prepararsi alla prossima fase del confronto con l’Occidente. Infine, non bisogna dare per scontato che il Cremlino rinunci alla partnership con Pechino: infatti, in Occidente le amministrazioni ed i governi cambiano a causa dell’alternanza democratica e gli accordi stipulati oggi possono essere disconosciuti domani. Al contrario, le leadership autoritarie durano più a lungo e nell’epoca contemporanea, segnata dal ritorno alla politica di potenza, offrono più garanzie ed una comunanza di visoni strategiche antioccidentali. Il fatto che Russia e Stati Uniti abbiano deciso di avviare consultazioni bilaterali per la gestione iniziale del negoziato manda un messaggio politico deleterio circa l’irrilevanza, ai loro occhi, di Europa ed Ucraina. Nei fatti, Kiev e le Cancellerie europee sono state trattate come l’Impero Britannico e la Francia trattarono, oltre 100 anni fa, l’Impero Ottomano nel contesto del Primo Conflitto Mondiale. Gli incontri dei delegati russi e statunitensi e la loro volontà di risolvere bilateralmente il conflitto senza consultare e coinvolgere ucraini ed europei ricordano i famosi accordi Sykes-Picot del 1915, in cui si definirono unilateralmente le sfere d’influenza e la nuova mappa del Medio Oriente. Appare ovvio che l’Europa non può, né dovrebbe, accettare un simile trattamento, pena la condanna all’irrilevanza globale. Tuttavia, nell’epoca del ritorno della politica di potenza, per essere presenti ai tavoli negoziali bisogna avere la volontà di impegnarsi e fare scelte nette, anche se dolorose. Bruxelles e i Paesi membri affrontano la più grande crisi del blocco Euro-Atlantico dal Secondo Dopoguerra e devono cominciare a considerare l’ipotesi di un cambiamento del paradigma nel rapporto di alleanza con Washington. Questo vuol dire, innanzitutto, riformare la componente militare e mobilitare l’economia, mostrando la disponibilità a prendersi sulle spalle il peso, in solitaria, della resistenza ucraina. L’impressione è che, al di là delle dichiarazioni pubbliche dei leader di alcuni Stati (Regno Unito, Francia e Germania su tutti), tale processo appaia lungo, denso di incognite e, come spesso accaduto in passato, appesantito dalle divisioni interne e dalle diverse priorità delle singole agende.

Infine, l’Ucraina è la vera sconfitta di questi primi tre anni di guerra. Infatti, nonostante l’eroica resistenza sul campo di battaglia e la fiera opposizione all’invasore russo, Kiev deve confrontarsi con il cambio di rotta statunitense e con le incertezze europee. Gli ucraini rischiano di dover accettare una pace imposta e ingiusta, in cui dovranno cedere territori senza alcuna garanzia e, all’indomani del silenzio dei cannoni, aprire una durissima stagione di confronto interno tra le diverse componenti politiche e sociali del Paese disilluse, affrante e radicalizzate dalla guerra. Proprio per questo, a Kiev si potrebbe decidere di temporeggiare, accettando momentaneamente la situazione de facto e il congelamento del conflitto, provare a ricostruire la parte del Paese ancora libera e attendere tempi migliori per lanciare una nuova controffensiva negli anni avvenire. Al di là dell’evoluzione del processo negoziale e andando oltre le possibili sindromi da tradimento che potrebbero affiorare in quel momento, l’Europa non dovrà abbandonare Kiev poiché il suo supporto risulterà ancora importante per sostenere un processo di transizione postbellica pacifico, trasparente e partecipativo. Tuttavia, in questo momento storico, la costruzione di una deterrenza militare e politica credibile ed autonoma da quella statunitense non può essere scissa dal futuro complessivo dell’UE. Senza la prima si mette a rischio la tenuta stessa del progetto continentale e il ruolo degli europei nel mondo che verrà.

In ogni caso, l’impressione generale è che tutti gli attori coinvolti navighino a vista e siano più preoccupati di ricercare soluzioni temporanee alle problematiche congiungenti che piani strategici di lungo periodo in grado di garantire stabilità, prosperità e sviluppo. Proprio per queste ragioni, esiste la seria possibilità che il negoziato si areni o, nella migliore delle ipotesi, produca un accordo di breve periodo con lo scopo di rigenerare le forze dei belligeranti e prepararle alla prossima fase del conflitto, con rischi di escalation sempre maggiori.