Riforma della giustizia in Israele: rischi e prospettive
Dopo mesi di proteste nelle principali città israeliane, il 24 luglio, il Governo è riuscito a far passare alla Knesset in seconda e terza lettura la riforma della giustizia a maggioranza assoluta, con 64 voti a favore e nessun contrario a causa dell’abbandono dell’aula parlamentare da parte delle opposizioni. Il passaggio decisivo della proposta dell’esecutivo ha riguardato la modifica della cosiddetta “clausola di ragionevolezza” , uno strumento giuridico che prevede la possibilità per la magistratura di pronunciarsi sulla ragionevolezza di talune decisioni del governo o di altre istituzioni che siano reputate “irragionevoli”. Con la modifica, quindi, la Corte Suprema subirà limitazioni notevoli nella sua capacità di agire e prendere decisioni nei confronti di leggi o iniziative assunte dal governo o dai suoi Ministri.
Nonostante le pressioni internazionali – specie da parte degli Stati Uniti – e domestiche – provenienti dal Presidente della Repubblica Yitzhak Herzog ma anche dall’intero arco istituzionale e di sicurezza, che ha paventato i rischi di una guerra civile –, il Premier Benjamin Netanyahu ha difeso il disegno di legge e, in un discorso televisivo al Paese, ha descritto questo passaggio senza precedenti nella storia nazionale come “un atto democratico necessario” , anche quando i crescenti costi sociali, diplomatici e di sicurezza potrebbero avere degli impatti notevoli per lo Stato nella sua interezza.
Infatti, dopo il passaggio parlamentare, i mercati finanziari israeliani sono crollati con lo shekel che ha toccato il minimo contro il dollaro dal 12 luglio – ossia dal primo passaggio della riforma della giustizia in Parlamento. Contestualmente i manifestanti hanno aumentato la propria forza manifestando per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme, dove dallo scorso weekend sono state segnalate più di 70.000 persone. Tra le altre cose sono stati registrati alcuni scontri – con un ferito per il momento – tra manifestanti pro-democrazia e forze dell’ordine nella capitale. Come segnalato da eminenti autorità, quali l’ex Premier Ehud Olmert, l’uscente Capo di Stato Reuven Rivlin e diversi capi delle agenzie di sicurezza, nel Paese sta crescendo una profonda spaccatura sociale e identitaria che rischia di indebolire la stabilità e la democrazia israeliana. A supporto di questa tesi sono scesi in campo anche imprenditori, medici, docenti universitari, corpi diplomatici e riservisti militari. Anche il Presidente Joe Biden è intervenuto in maniera inconsueta veicolando molteplici messaggi sulla questione, compresa una telefonata senza precedenti con il giornalista israeliano Barak Ravid.
Al di là del passaggio parlamentare, che ha visto l’approvazione della riforma, il tema della giustizia è lungi dall’essere concluso. È molto probabile che le proteste continueranno anche nelle prossime settimane e che la mobilitazione sarà destinata a crescere, specie se l’atteggiamento del governo dovesse rimanere su posizioni assertive non tanto e non solo in merito alla riforma in sé, ma anche sulle questioni direttamente connesse, come un eventuale ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania o il possibile approfondimento delle divisioni sociali in materia di diritti tra cittadini israeliani, e tra quest’ultimi e arabi. Non meno rilevanti potrebbero essere i contraccolpi indiretti sull’economia (con la possibile perdita di investimenti in sicurezza, industria e alta tecnologia) e nei confronti delle strategiche relazioni con Occidente (USA e UE) e mondo arabo . A ciò rischia di fare da contraltare un possibile radicamento della protesta in senso ideologico, con i manifestanti che potrebbero spostarsi su posizioni più radicali alimentando le divisioni lungo una linea di faglia già esistente e impostata genericamente sulla contrapposizione pro- vs contro-democrazia (o identità liberale). Infine, potrebbero avere un peso tanto lo stato di salute dello stesso Netanyahu, a cui è stato impiantato un pacemaker e che politicamente vive una stagione di debolezza mai vissuta in passato, quanto l’assenza di una leadership unita e autorevole tra le opposizioni e in grado di guidare la protesta sui giusti binari.
Tutte condizioni che non farebbero altro che aumentare le minacce e le esposizioni al rischio sia sul fronte domestico, sia su quello regionale e internazionale. Pertanto sarà importante per l’esecutivo, le istituzioni e l’intera società intavolare un vero dibattito nazionale sui problemi strutturali esistenti e giungere ad una qualche forma di compromesso che impedisca una escalation ideologica e approfondisca il divario identitario emerso da diversi anni, ma amplificato dalle proteste degli ultimi nove mesi.