La Turchia e il terremoto: quali implicazioni sul futuro del Paese?
Tra la notte e il primo pomeriggio di lunedì 6 febbraio, due violente scosse di terremoto hanno colpito il sud-est della Turchia e il nord-ovest della Siria, causando quello che il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha definito il più grande disastro registrato nel Paese dal 1939, anno in cui il terremoto a Erzincan provocò la morte di circa 33.000 persone e oltre 100.000 feriti. Le due scosse, rispettivamente di magnitudo 7,8 e 7,5 e con epicentro le città di Gaziantep e Kahramanmaraş, nella Turchia meridionale, sono state susseguite da oltre 100 scosse di assestamento, percepite anche in Libano, Israele e Cipro. Dopo 24 ore, il bilancio complessivo tra Turchia e Siria aveva già superato gli 8.000 morti, con dati destinati a crescere (ad oggi si sono superate le 40.000 vittime).
Nella tragicità dell’evento e nonostante il clima in costante evoluzione, è già possibile interrogarsi sulle conseguenze del sisma nel panorama politico dei due Paesi. Questo vale in particolar modo per il contesto turco, che si appresta ad elezioni parlamentari e presidenziali nei prossimi mesi. Dei primi dubbi sorgono sul mantenimento della data delle elezioni, ad oggi fissata al 14 maggio. Oltre alla futura verifica di condizioni fisiche e territoriali “stabili” per poter dar seguito al voto, non è escluso che Erdoğan possa prolungare lo stato di emergenza, dichiarato lunedì scorso, per rispondere alla crisi sismica, con un possibile rinvio della tornata elettorale a nuova data da destinarsi.
Tale scelta potrebbe essere consequenziale alla gestione della crisi da parte del governo turco. Fin dalla prima scossa della notte del 6 febbraio, il governo di Ankara si è subito preso carico dell’emergenza sul piano nazionale, mobilitando squadre di soccorso con annesso un contingente di 3.500 militari. Al contempo, il Presidente Erdoğan ha accolto con favore i repentini aiuti internazionali promessi da oltre 50 Paesi, a cui si sono aggiunte le mobilitazioni delle “tarikat”, associazioni di beneficenza e confraternite islamiche favorevoli al partito islamico, e la decisione del Presidente di dichiarare sette giorni di lutto nazionale.
Questa risposta emergenziale proattiva e “inclusiva” sicuramente mette in luce l’attuale amministrazione di governo, potendo anche innescare un senso di solidarietà nazionale sotto la guida di Erdoğan e rafforzare la sua leadership. Inoltre, questo interventismo si pone in totale contrasto con quanto accaduto a seguito dell’enorme terremoto nel nord-ovest della Turchia nel 1999, dove l’esercito, componente importante della struttura di potere dell’epoca, si mobilitò in primis a salvataggio dei suoi ranghi, non intervenendo con coscienza in un contesto che causò la morte di oltre 20.000 persone. La risposta governativa odierna, pur memore dell’evento tragico del 1999, è stata però molto criticata internamente sia per la lentezza negli interventi di soccorso sia per la scarsità di risposte politiche nella prevenzione dei disastri e lo sviluppo di adeguati servizi di emergenza da adottare in tali situazioni. Alla luce di questi elementi, come sottolineato fin dalle prime ore anche da molti osservatori, l’evento sismico potrebbe avere un impatto determinante anche nella prossima tornata elettorale. In particolare, è presumibile ipotizzare che diversi fattori potranno complicare, piuttosto che agevolare, la stabilità del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) nei prossimi mesi. In continuità con il sisma del 1999, molte saranno le inchieste sulla “responsabilità” di quanto accaduto, guardando ai codici di costruzione e agli standard di sicurezza. Nonostante nel 2018 la Turchia abbia approvato una legislazione anti-sismica, molti appalti pubblici del Paese sono stati affidati a società gestite da figure vicine al Presidente spesso accusate di coinvolgimento in sistemi di corruzione e nepotismo. Un primo elemento che metterebbe in difficoltà la credibilità di Erdoğan e che potrebbe, al contrario, giocare a favore dell’opposizione, soprattutto di Kemal Kilicdaroglu, leader del principale partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (CHP) e critico di lunga data della corruzione nel sistema di appalto nazionale turco.
Non a caso, il sisma ha fiaccato il Paese in un periodo di già complicata gestione governativa. La Turchia sta affrontando la peggiore crisi economica da quando Erdoğan e il suo AKP sono saliti al potere nel 2002, con un’inflazione annua superiore all’84%, un deprezzamento della lira del 30% rispetto al dollaro l’anno scorso e un deficit che tocca quasi il 5% del PIL. Elementi che, in combinato disposto con il rialzo dei prezzi dell’energia e dei beni di prima necessità causato dalla guerra tra Russia e Ucraina, hanno intaccato la popolarità del Presidente e il consenso sull’operato del suo partito, sceso al 31% contro il 42,56% nel 2018 secondo l’agenzia MetroPOLL. Pur rimanendo fermo sulla sua controversa posizione sui tassi di interesse – secondo cui bassi tassi contribuiscono a contrastare l’inflazione – negli ultimi mesi il Presidente ha puntato sulla spesa per cercare di rivitalizzare l’economia, promettendo un aumento degli stipendi degli impiegati statali, alzando le pensioni del 30%, offrendo il pensionamento anticipato a 2,3 milioni di lavoratori e aumentando le sovvenzioni per l’energia. A ciò si aggiunge un incremento a gennaio del salario minimo fino al 55% rispetto a luglio 2022 per portarlo a 8.500 lire turche (circa 425 euro), insieme alla promessa di costruire mezzo milione di case per le famiglie a basso reddito. In continuità con tale politica interna di “welfare” vanno viste anche alcune decisioni di politica internazionale, come la volontà strategica di cercare nuove distensioni con i Paesi del Golfo, soprattutto Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, così da permettere nuovi accordi economico-commerciali e possibilità di introiti. Tali scelte, insieme al ruolo di mediazione assunto dalla Turchia nel conflitto russo-ucraino, hanno avuto dei primi risvolti positivi per la figura di Erdoğan sul piano interno, ma potrebbero non essere sufficienti nel post-sisma. Il riavvicinamento di Ankara con i Paesi del Golfo può aver incentivato questi ultimi ad intervenire in soccorso alla popolazione terremotata turca con diversi interventi d’urgenza, ma tali aiuti possono mitigare di ben poco gli effetti colossali del sisma. Come gran parte della comunità internazionale, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait hanno infatti promesso un cospicuo pacchetto di fondi sia a Turchia che Siria (che arriva a 50 milioni di dollari per ciascuno dei due Paesi solo da parte degli EAU), insieme a diversi interventi d’emergenza umanitaria come la creazione di ponti aerei ed ospedali da campo, forniture di soccorso urgenti e invio di task force di ricerca e soccorso. Ciò non limita, tuttavia, le difficoltà e criticità strutturali nell’apportare soccorso tanto nel breve termine – vista la complessità nel raggiungere i siti colpiti dal terremoto, isolati ancor più dal crollo di strade e danneggiamento di collegamenti – quanto nel lungo periodo, dove inevitabilmente tali misure non risulterebbero abbastanza.
I lasciti del sisma potrebbero acuire il risentimento popolare causato dalle difficoltà economiche del Paese, con un possibile esacerbamento di altre questioni sociali spinose, prima fra tutte quella dei rifugiati siriani. La crescente ostilità dell’opinione pubblica nei confronti della presenza di quasi 4 milioni di rifugiati siriani residenti in Turchia ha spinto il Presidente ad annunciare, nel marzo 2022, un piano organico per il “ritorno volontario” di 1,5 milioni di rifugiati siriani nelle aree settentrionali della Siria sotto il controllo turco, in un arco temporale di 15-20 mesi e sulla base di 8 step sequenziali. Tuttavia, il sisma ha distrutto anche una buona fetta del territorio siriano contemplato nel piano di rimpatrio di Erdoğan, rendendo dunque molto più difficile, se non impossibile, implementare il disegno di Ankara in tempi brevi. Senza omettere che per il governo turco potrebbe ora essere complesso giustificare qualsiasi deviazione di fondi verso la Siria settentrionale occupata dalla Turchia, nonché proseguire con l’intento di lanciare una nuova operazione militare, minacciata dopo l’attentato di Istanbul dello scorso novembre, nelle aree nord-orientali della Siria controllate dai curdi, ulteriore elemento che sembrava poter aiutare Erdoğan nel recuperare consenso interno.
Di conseguenza, i contraccolpi del terremoto degli scorsi giorni renderanno ancora più tortuoso il clima politico pre-elettorale turco, complicando ancora di più la posizione di Erdoğan e del suo AKP sullo scacchiere interno. La gestione del post-sisma sarà dunque cruciale al Presidente per il futuro della sua tenuta politica, già traballante a causa delle non facili condizioni economiche del Paese. I prossimi giorni riveleranno quanto Erdoğan sarà ancora abile nel volgere le avversità a proprio vantaggio e di quanta leadership e autorevolezza goda per riuscire a dimostrare la sua forza politica ai turchi. Alcuni hanno visto, infatti, nella scelta del Presidente di informare della gestione dei soccorsi Meral Aksener, leader del partito nazionalista di opposizione Good Party, piuttosto che Kilicdaroglu, un primo tentativo di utilizzo la crisi per seminare ulteriore divisione nelle opposizioni attualmente dialoganti nel cosiddetto “Tavolo dei sei”, consesso che riunisce i principali partiti di opposizione. Aksener non ha mai negato la sua poca accondiscendenza alla candidatura di Kilicdaroglu e alla collaborazione con il filo-curdo Partito Democratico dei Popoli (HDP), il cui sostegno è fondamentale per la vittoria dell’opposizione. Tutti elementi su cui Erdoğan potrebbe ora fare leva in suo favore, ma che potrebbero non essere abbastanza per far fronte all’entità della tragedia del terremoto.