Israele dopo le elezioni: un’analisi del voto
Lo scorso primo novembre, le elezioni parlamentari israeliane hanno sancito il ritorno di Benjamin Netanyahu come Primo Ministro del Paese. Tale vittoria riporta al potere il più longevo dei Premier israeliani che ha ricoperto questa carica dal 1996 al 1999, e dal 2009 al 2021. Ad una prima analisi, queste elezioni (le quinte dal 2019) potrebbero porre fine al ben consolidato stallo della Knesset che negli ultimi tre anni e mezzo è stata rinnovata quattro volte, durando in media nove mesi. Due dati fondamentali emergono infatti dagli ultimi risultati elettorali: in primo luogo, l’affluenza ha raggiunto il 71,3%, la più alta dal 2015, con il 3,9% in più dello scorso anno. In secondo luogo, se i partiti arabi come Hadash-Taal e Raam sono passati per il rotto della cuffia (racimolando ognuno 5 seggi), il partito israeliano di sinistra Meretz non hanno superato la soglia di sbarramento del 3,25% e non sarà quindi rappresentati in Parlamento. Oltre a rivelare una profonda crisi della sinistra israeliana ed una diffusa disaffezione della comunità araba israeliana, questi due elementi potrebbero consentire alla maggioranza – più ampia rispetto alle precedenti – una notevole libertà di azione.
Nonostante ciò, lo scenario che va delineandosi potrebbe essere politicamente meno stabile di quanto non dicano i numeri. La coalizione a sostegno di Netanyahu ha ottenuto 64 seggi, di cui 32 sono da attribuirsi al partito Likud che, per formare un esecutivo, necessita quindi del cruciale supporto del partito di estrema destra Sionismo Religioso, terza forza politica della Knesset con 14 seggi, e di quello di due partiti ultra-ortodossi, Shas e Torah Uniti nel Giudaismo. Netanyahu dovrà quindi individuare l’esatto equilibrio – ad oggi precario soprattutto nel lungo termine – tra le forze della sua coalizione che non solo hanno i numeri per poter direttamente influenzare l’azione di governo, ma che rappresentano anche il fattore più significativo delle elezioni, ovvero la schiacciante crescita (e vittoria) dell’estrema destra. Se da un lato è stato un abile giocatore ad aggregare le diverse componenti politiche più conservatrici assicurandosi così la vittoria, dall’altro Netanyahu dovrà guidare un governo appoggiato da partiti con visioni molto differenti, a cominciare dal concetto e dal ruolo di Stato, che si manifesta – per semplificazione ovviamente – con l’idea di un soggetto politico etno-nazionalista, basato quindi sui caratteri di ebraicità, identitarismo e nazionalismo, all’interno del quale si rivendica un forte richiamo all’ortodossia religiosa.
Sebbene non nuove alla politica israeliana, tali visioni non sono mai state supportate da un così grande consenso. Lo spostamento verso destra è stato soprattutto visibile durante il giuramento della Knesset lo scorso martedì 15 novembre, quando i banchi del Parlamento erano occupati da più persone con il yarmulkes (il copricapo indossato principalmente dagli ebrei maschi ortodossi) e più coloni che vivono nei pressi della cosiddetta Linea Verde (la demarcazione che separa Israele dai Territori Occupati durante la guerra del 1967). In linea con questo slittamento verso destra appare poi essere la totale assenza delle donne nei due partiti ultra-ortodossi, mentre una marginale quota rosa siede tra i banchi del Likud e Sionismo Religioso. La maggior parte delle ventinove donne elette, infatti, insieme agli otto legislatori arabi e del Partito Laburista israeliano, fanno parte dell’opposizione.
Certamente, a favorire la considerevole vittoria dell’estrema destra è stata anche la poca coesione delle opposizioni di centro e centro-sinistra, tendenzialmente accomunate da un sentimento anti-Netanyahu. Qui, il principale concorrente era Yesh Atid, il partito centrista guidato dall’uscente Premier Yair Lapid che difendeva le politiche economiche neoliberiste e sosteneva (retoricamente) una visione dei due Stati, però mai materializzatasi nei tavoli di dialogo. Racchiudendo alcuni legislatori con posizioni politiche più vicine al Likud che ai loro (presunti) partner di coalizione e risentendo delle sempre più instabili relazioni fra i vari movimenti politici, la colazione di centro e sinistra è stata fortemente influenzata dalle divisioni tra i partiti che rappresentano la comunità arabo-israeliana. Il senso di disillusione nei confronti della leadership araba nonché la sua frammentazione politica e la grande assenza del dossier palestinese dai dibattiti elettorali si è tradotta nella bassa affluenza alle urne degli elettori arabi (intorno al 50% ed al di sotto della media nazionale). Su questa scia si è collocata anche la sconfitta di Meretz – e con essa la fine del progetto politico di apertura verso la componente palestinese –, l’unico partito israeliano esplicitamente anti-occupazione, che, insieme alla leadership araba, non è dunque stato in grado di (ri)aggregare il proprio elettorato e rappresentare alla meglio le reali esigenze della popolazione arabo-israeliana.
In una prospettiva più ampia, Israele è, quindi, alle prese con una ridefinizione della sua identità, sia di Stato sia di società, in cui la gestione della componente multietnica e multi-religiosa gioca un ruolo essenziale. Questo non è limitato solo alle divisioni arabo-palestinesi-israeliane, ma comprende anche gli spostamenti interni alla destra stessa. Infatti, in questo contesto di profonde trasformazioni, anche la società israeliana sembra assumere le medesime pulsioni tipiche della politica, con posizioni e valori a confronto sempre più polarizzati tra loro. Non a caso, negli ultimi due decenni, questa dinamica è riuscita ad emergere in maniera chiara anche all’interno dei partiti di destra che hanno attirato quei giovani israeliani cresciuti in una società sempre più polarizzata e provenienti da contesti socio-economici bassi ed altamente religiosi (in cui ha ‘ben agìto’ il Ministero dell’Educazione, largamente influenzato dalla destra ortodossa). La combinazione di questi fattori e il continuo processo di estensione di colonie e avamposti ebraici in Cisgiordania insieme ad una narrazione (più orale che scritta) – che ha (nuovamente) cercato di legare la religione alla terra – hanno agito come principali forze motrici di questa tendenza. Seppur marginalmente, i problemi giudiziari di Netanyahu (su cui pende un processo di corruzione) hanno contribuito a questo rimodellamento poiché lo hanno costretto a cercare sostegno politico tra le varie forze di destra, anche le più estreme. Qui, grande vincitore – e in un certo senso anche emblema di queste pulsioni – è stato il leader del partito Potere Ebraico guidato da Itamar Ben Gvir, un colone dell’insediamento Kiryat Arba, accusato – in passato – di incitamento al razzismo. Nello specifico, due sono le tattiche più efficaci adottate da Ben Gvir: mentre catalizzava l’attenzione dei media in aree strategiche, come Gerusalemme Est, chiedeva a gran voce il rafforzamento della sicurezza degli israeliani con una maggiore azione delle forze di polizia, portando avanti una campagna che mirasse alla de-arabizzazione dello Stato.
Nel breve periodo, il deterioramento delle tensioni tra la comunità araba e quella israeliana (almeno tra quelle forze più vicine alla destra) sembra essere uno scenario sempre più probabile. Il contesto è quello di un Paese che ha già conosciuto violenze e scontri soprattutto nella Cisgiordania settentrionale, dove la costruzione da parte dei coloni di nuovi avamposti e gli attacchi alla popolazione locale hanno causato una delle peggiori ondate di violenza dal 2015. Proprio in queste aree è plausibile che il neo governo possa tentare di forzare in qualche modo di plasmare i confini fisici e giuridici dell’area C in Cisgiordania: qui vi abitano circa 300.000 palestinesi e comprende oltre il 60% del territorio occupato dagli israeliani, all’interno del quale Tel Aviv esercita il pieno controllo in materia civile e di sicurezza e può imporre piani e progetti edilizi che limita fortemente la possibilità dei palestinesi di costruire abitazioni e infrastrutture di fondamentale importanza. Tale contesto in parte potrebbe essere agevolato dalla decisione di Netanyahu di accogliere la proposta di Ben Gvir di regolarizzare, entro 60 giorni dall’insediamento del nuovo esecutivo, tutti gli avamposti e le colonie illegali costruite in Cisgiordania, consentendo ai coloni di ritornare definitivamente ad Homesh, insediamento situato tra le città di Nablus e Jenin e lasciato nel 2005 come parte del piano – dell’allora Premier Ariel Sharon – di ritiro graduale degli israeliani da ventuno insediamenti di Gaza e quattro della Cisgiordania.
Ecco, quindi, che l’affermazione dell’estrema destra, un possibile sdoganamento pubblico e politico di un nazionalismo etnico ed il mantenimento di un carattere ebraico predominante nelle funzioni dello Stato sembrerebbero suggerire e prefigurare l’emergere di uno scenario di forte instabilità, nel quale potrebbero trovare forte agio e spazio sia quelle violenze ormai quotidiane tra israeliani e palestinesi, che vanno avanti da ben più in là dei fatti di maggio 2021, sia politiche discriminatorie verso le controparti arabo-palestinesi. Condizioni, queste, che potrebbero trovare una valvola di sfogo politico anche nell’eventuale controllo di taluni Ministeri chiave – tra cui quelli della Difesa, dell’Interno, della Giustizia o delle Finanze – i quali potrebbero in qualche modo essere essenziali per influenzare a livello domestico l’operatività del governo e dello Stato israeliano. In altre parole, qualora Netanyahu dovesse optare per una composizione di estrema destra, Ben Gvir e Bezalel Smotrich (leader del partito Sionismo Religioso e già Ministro dei Trasporti nel 2019) potrebbero diventare il volto di questo nuovo governo.
Naturalmente, questa nuova impronta identitaria israeliana, dove la componente prettamente identitaria ebraica torna ad essere centrale, potrebbe compromettere l’azione del Paese nell’arena internazionale e regionale. Qui, le relazioni – attentamente coltivate – con quei Paesi arabi che hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche con Israele sotto gli Accordi di Abramo potrebbero dover affrontare una sfida ancora più intensa in seguito ad una maggiore presenza di ortodossi e nazionalisti nel governo ed alla loro relativa visione del conflitto israelo-palestinese. Quest’ultima potrebbe potenzialmente indebolire la leadership che gli Emirati Arabi Uniti cercano di detenere nella più ampia regione mediorientale rinvigorendo l’opposizione dell’opinione pubblica araba che non ha accolto con favore le intese di normalizzazione. Accanto ad Abu Dhabi, gli Stati Uniti saranno l’altro attore che monitorerà con attenzione le politiche (intrinsecamente volubili ed adattabili) di Netanyahu. Nonostante ciò, è improbabile (almeno nel breve periodo) che cercheranno di influenzare attivamente le scelte del nuovo governo: così come avviene con la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania, l’amministrazione statunitense non andrà oltre la pura retorica. Israele continuerà ad essere un partner commerciale essenziale, ma soprattutto un attore chiave nella politica mediorientale degli USA. Nonostante ciò, in discontinuità con l’agenda politica e diplomatica degli ultimi anni, gli USA potrebbero essere costretti a ridare centralità a questa regione per far fronte ad una possibile (in)stabilità geopolitica collegata agli ultimi grandi eventi internazionali (Covid-19 e guerra russo-ucraina) che hanno impattato in profondità la regione stessa.
Fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Netanyahu ha tentato di ristabilire il suo rapporto, più personale che istituzionale, con il Presidente Vladimir Putin per assicurarsi una maggiore libertà di azione ed un migliore posizionamento strategico in Siria. Il conflitto russo-ucraino potrebbe (in termini ipotetici) rischiare di indebolire l’influenza di Mosca in alcuni contesti nella regione mediorientale, mentre per Israele potrebbe costituire un’opportunità. Il Paese ha infatti perseguito una chiara strategia: da un lato, ha cercato di non compromettere i rapporti con l’Occidente condannando l’aggressione russa ed offrendo aiuti umanitari all’Ucraina; dall’altro, non ha sostenuto le sanzioni economiche contro la Russia al fine di incrementare la sua influenza nel contesto siriano. Qui, l’obiettivo principale è la securizzazione dei confini che, in ottica israeliana, passa per la sua libertà di azione militare. Nello specifico, Israele vorrebbe – in un Paese il cui spazio aereo è controllato dalla Russia – colpire le forze e le basi militari di Hezbollah e delle milizie sostenute dall’Iran riducendo quindi l’influenza iraniana sul regime di Damasco intensificatasi nell’ultimo anno. In altre parole, il successo dell’azione anti-iraniana in Siria potrebbe dipendere dalla qualità delle relazioni tra Russia e Israele soprattutto in un momento di crescente frizione russo-iraniana per il controllo di risorse e territori in Siria.
Va delineandosi, dunque, un quadro complesso che sfiderà, in modo profondo, la tenuta del nuovo governo, non solo per quanto riguarda le sue possibili politiche a livello domestico, ma anche per il maggiore spazio di azione che avranno le componenti religiose e identitarie e, di conseguenza, in termini di equilibri di potere. Molteplici sono le sfide che questo nuovo governo dovrà affrontare, in primis quella economica, a causa di un significativo aumento dei prezzi nonostante un’inflazione relativamente bassa. Tale situazione potrebbe intensificare le disuguaglianze economiche ed esacerbare la tensione sociale, specialmente in questo periodo post-elettorale. Fortemente dipendente dal commercio internazionale, Israele rischia quindi di risentire dell’incertezza economica globale, i cui effetti potrebbero essere visibili sulla sua economia nel 2023. Diverse sono poi le scommesse, soprattutto quelle internazionali. Gli Accordi di Abramo sono stati per Israele uno palcoscenico per una maggiore integrazione (commerciale ma anche nel settore della difesa) nella regione del Medio Oriente e Nord Africa, interessante sarà quindi monitorare come le future politiche israeliane si combineranno con questo processo di normalizzazione e con gli USA, che hanno sostenuto questa maggiore cooperazione tra gli attori regionali anche come strategia di bilanciamento in seguito alla diminuzione del loro engagement (diretto) nell’area.