Il consolidamento del potere di Modi alla prova del Kashmir
Lo scorso 5 agosto, il governo indiano, tramite decreto presidenziale, ha unilateralmente revocato l’articolo 370 e 35A della propria Costituzione, che garantivano uno speciale status di semi-indipendenza allo stato del Jammu & Kashmir, regione al confine nordoccidentale dell’India, a maggioranza musulmana. Lo stesso decreto ha sancito la divisione della regione in due parti: Ladakh, a maggioranza buddista, che ha ottenuto lo status di “Stato federato”, mentre Kashmir & Jammu sono retrocessi a “Territorio dell’Unione”. La differenza tra queste due categorie risiede nel livello di indipendenza concesso dal governo centrale: mentre lo Stato federato ha un proprio governo eletto che ha il compito di formulare la legislazione in vigore all’interno dello Stato stesso, il Territorio dell’unione è governato ed amministrato direttamente dal governo centrale di New Dehli. Gli articoli revocati ad inizio agosto, entrati a far parte della Costituzione indiana nel 1952, garantivano al territorio del Kashmir la qualifica di “Stato” e un’ampia indipendenza decisionale, oltre che un diritto di esclusività ai Kashmiri per l’acquisto di proprietà nella regione. In particolare, l’articolo 370 stabiliva l’indipendenza dell’area, la quale aveva diritto a una propria costituzione, una propria bandiera e una larga autonomia decisionale riguardo qualsiasi questione nazionale, eccetto quelle concernenti sicurezza, comunicazioni e politica estera. D’altro canto, l’articolo 35 A proibiva ai non residenti di detenere proprietà terriere e di stabilire la propria dimora nella regione indipendente, come misura per proteggere la demografia del luogo in questione.
La revoca, ufficializzata senza alcuna consultazione tra il governo centrale e l’assemblea legislativa locale, ha colto di sorpresa sia la popolazione sia gli esponenti politici in Kashmir. Prima dell’annuncio, il governo indiano aveva adottato una serie di misure di sicurezza, come quella di allontanare i turisti dalla regione e di imporre la chiusura delle scuole nella capitale estiva, Srinagar. Parallelamente, le linee di comunicazione nella regione sono state interrotte e la presenza militare indiana nel territorio è stata rafforzata con l’invio di un contingente formato da circa 10.000 truppe. Nonostante ciò, l’ufficializzazione della revoca dell’autonomia ha suscitato la reazione della popolazione, scesa in piazza nelle ore immediatamente successive per manifestare il proprio dissenso. Almeno 4.000 tra civili e importanti personalità politiche sono stati arrestati durante le 500 proteste che si sono susseguite nel corso delle prime tre settimane.
La scelta del governo, in realtà, era già stata paventata in diverse occasioni dal Primo Ministro Nerendra Modi, leader del partita nazionalista induista “Bharatiya Janata party” (BJP), che aveva accennato più volte allo status speciale del Kashmir come ad una condizione di ormai ingiustificato privilegio rispetto alle altre divisioni amministrative dell’Unione indiana.
La regione ricopre un’importanza strategica per il governo di New Delhi. In primis, è un importante bacino di risorse naturali e una rinomata meta turistica, aspetti che rendono l’area un asset di grande valore per l’economia e lo sviluppo del Paese. In secondo luogo, il Kashmir rappresenta anche un vitale cuscinetto rispetto ai due storici rivali di New Dehli nella regione, Cina e Pakistan, che contendono all’India la sovranità su una parte del territorio Kashmiri. Se la disputa con Pechino riguarda essenzialmente la definizione del confine orientale tra la regione di Ladakh e la parte ad amministrazione cinese dell’Aksai Chin, quella con il Pakistan è invece di ben più ampio respiro.Il Kashmir, rappresenta il principale motivo del contendere della complicata relazione tra le due potenze nucleari già dal 1947.
Lo stato del Kashmir, infatti, era entrato a far parte del territorio indiano nel 1947 solo in via temporanea e provvisoria, in cambio del supporto militare indiano richiesto dal governo locale per sedare la ribellione scoppiata nell’ovest, a maggioranza musulmana, in favore dell’ingresso del Kashmir nel neonato Pakistan. L’intenzione dell’allora Primo Ministro indiano, Nerhu, era quella di fornire supporto alle truppe del Maharaja del Kashmir, Hai Singh, così da ripristinare lo status quo ante e, a quel punto, indire un referendum sotto la supervisione delle Nazioni Unite, cosicché la popolazione locale avesse potuto decidere autonomamente il proprio destino. Tuttavia, il voto non ha mai avuto luogo e la natura provvisoria dell’annessione del Kashmir all’India si è trasformata in una realtà di fatto. Benché l’elevato grado di indipendenza di cui la regione godeva sia stato negli anni funzionale ad incrementare i consensi della popolazione nei confronti dell’amministrazione indiana, forti spinte autonomiste sono rimaste sempre presenti nelle aree occidentali del territorio e hanno animato un’intensa attività di insorgenza, condotta sia da cellule di militanti locali sia da gruppi più strutturati che avevano il proprio retroterra logistico e il proprio bacino di reclutamento in territorio pakistano. La partecipazione di militanti pakistani alle operazioni della militanza, da un lato, e il ripetuto supporto politico del Pakistan alle istanze autonomiste della popolazione hanno reso il Kashmir il dossier più controverso delle relazioni bilaterali.
Le tensioni, sfociate in tre veri e propri conflitti armati, hanno conosciuto un andamento altalenante nel corso degli anni e hanno fortemente contribuito all’instabilità delle condizioni di sicurezza lungo la linea di confine condiviso (denominato Line of Control - LOC). Un nuovo picco della conflittualità in quest’area è stato registrato lo scorso 14 febbraio, quando un convoglio di soldati indiani diretti in Kashmir è stato attaccato a Pulwama da un attentatore suicida, appartenente al gruppo Jaish-e-Mohammed (JeM), formazione di ispirazione jihadista operativo in territorio kashmiri, causando 40 morti. L’episodio ha innescato una serie di schermaglie tra le due potenze nucleari che hanno portato le tensioni sull’orlo di una pericolosa escalation. Il raid compiuto dall’aeronautica indiana 50 chilometri oltre il confine pakistano nei giorni successivi all’attacco contro un presunto campo di addestramento di JeM, infatti, è stato seguito da susseguirsi di incursioni aeree e di confronti a fuoco attraverso la LOC.
Il deterioramento della relazione con il Pakistan ha visto un atteggiamento piuttosto muscolare delle autorità indiane che, per la prima volta dal conflitto del ’71, hanno spinto le operazioni s al di là del confine. A contribuire a tale atteggiamento ha senz’altro giocato il fatto che la crisi di sicurezza sia avvenuta a ridosso delle elezioni politiche in tutta l’Unione Indiana e, dunque, in un momento di importante campagna elettorale per il Primo Ministro Modi.
Quest’ultimo è stato in grado di trasformare la crisi in un’opportunità, per mostrare la forza della sua leadership a livello nazionale ed internazionale, così da compensare eventuali danni di immagine provocati dai mediocri risultati del precedente mandato, specialmente in termini di sviluppo economico ed occupazione. Nonostante, infatti, l’economia sia stato un punto prioritario nell’agenda di Modi in questi anni, i livelli di disoccupazione sono aumentati ed è stato registrato un calo del PIL (3,5%, il più basso negli ultimi sei anni). La strategia ha effettivamente fatto breccia nella popolazione, che non solo è scesa in piazza per mostrare il proprio supporto alla reazione militare in territorio pakistano, ma ha anche premiato il partito alle elezioni con una percentuale 37%, il che ha consentito a Modi di ottenere un’ ampia maggioranza di 303 seggi su 543 all’interno del Parlamento.
Forte del largo consenso popolare e dell’ampia maggioranza ottenuta all’interno del Parlamento, Modi ha potuto avanzare in maniera quasi incontrastata la sua agenda politica ed accelerare il processo di revisione dello status del Kashmir. L’azione è stata preceduta da un’attenta propaganda politica, già iniziata in periodo elettorale, in cui la revoca dell’autonomia era stata promossa come un passo in avanti per lo sviluppo della regione himalayana, grazie alle condizioni di maggior stabilità e di apertura agli investimenti e di cui potrebbe godere tutto il territorio con le nuove disposizioni. Con l’annullamento dell’articolo 35°, infatti, anche cittadini stranieri fino ad ora non residenti nel Kashmir potrebbero aprire nuove attività commerciali o industriali, espandendo, di fatto, il tessuto economico locale.
Il supporto popolare riscosso dal Primo Ministro ha inevitabilmente condizionato anche la reazione delle altre forze politiche. Persino partiti storicamente all’opposizione, come l’ “Indian National Congress”, il “Bahujan Samaj Party” (Persone in Maggioranza), che si batte per i diritti delle minoranze religiose e per l’uguaglianza tra i vari strati sociali della popolazione, l’ “Aam Aadmi Party” (Partito dell’Uomo Comune), da sempre a favore di un governo decentralizzato che favorisca lo sviluppo dell’autonomia regionale, non sono stati in grado di assumere una posizione netta rispetto all’annuncio della decisione unilaterale presa dal governo sullo status del Kashmir, in quanto opporsi alla decisione avrebbe potuto significare perdere i consensi di una grande fetta di popolazione. Proprio per questo motivo sono pochi i partiti che hanno espresso le loro remore riguardo la legittimità della revoca e, quando è accaduto, questo fenomeno ha condotto ad una polarizzazione, non solo del dialogo politico ma anche all’interno degli stessi partiti. Ad esempio, esponenti di spicco del partito “National Congress”, hanno fortemente preso le distanze dalla flebile risposta della formazione politica alla revoca dell’articolo 370 e 35A. che, di fatto, non ha permesso alla coalizione di opposizione di bloccare il passaggio del decreto nella Camera Alta (Rajya Sabha), nonostante lì il BJP non potesse contare su una maggioranza.
Se , da un lato, la piega nazionalista presa dal governo ha polarizzato lo spettro politico indiano, dall’altro questa polarizzazione ha portato alla creazione di nuove alleanze tra i partiti dell’ala della sinistra indiana, che hanno trovato nell’opposizione all’agenda del governo un importante punto di convergenza per cercare di raccogliere diventare il punto di riferimento per l’ala più moderata dell’elettorato…
I recenti sviluppi hanno di fatto palesato una tendenza ipernazionalista che il governo indiano ha manifestato dal 2014, anno in cui il BJP ha ottenuto un ruolo preponderante e quasi incontrastato nella scena politica interna indiana. In particolare, l’inaspettata accelerata sul Kashmir rappresenta il compimento di un desiderio di unitarietà demografica che viene tradotto col principio secondo cui gli interessi del gruppo etnico e sociale di maggioranza vengono effettivamente favoriti a scapito di quelli degli altri segmenti etnici, cioè nel dominio della maggioranza induista sulle altre minoranze religiose, in particolare sulla consistente minoranza musulmana. Il progetto della “Nuova India” promosso dal premier Modi prevede anche la costruzione di un tempio ad Ayodhya, luogo in cui, fino alla demolizione da parte degli induisti 1992, sorgeva una centenaria moschea islamica, l’eliminazione dei privilegi concessi alle minoranze e della possibilità legale di conversione per gli induisti, così come l’introduzione di ulteriori restrizioni per i matrimoni interreligiosi e, infine, una modifica della carta costituzionale volta ad affermare il carattere prettamente induista della nazione indiana.
Benchè la politica populista di Modi stia risultando pagante in termini di consensi agli occhi della maggioranza induista, la polarizzazione del discorso politico, nonché la politica nazionalista fortemente identitaria, che sfocia in tendenze di uniformazione etnica e religiosa a favore della maggioranza indiana e induista rischia di riaccendere paure e risentimenti tra le diverse comunità religiose del Paese e di minacciare la stabilità dell’Unione stessa. Questa narrativa, infatti, potrebbe marginalizzare le sostanziose minoranze religiose ed etniche ed instillare un sentimento di alienazione non solo rispetto alle autorità centrali, che ne uscirebbero delegittimate, ma soprattutto nei confronti della stessa nazione indiana. Questo fenomeno, inoltre, potrebbe aprire nuove finestre di opportunità per l’attecchimento di ideologie radicali, anche di matrice jihadista. Infatti, la mancanza di sentimento di appartenenza potrebbe spingere sacche di popolazione a ricercare il proprio senso di identità non più nello Stato, ma piuttosto all’interno di gruppi fondamentalisti transnazionali, come Daesh e Al-Qaeda, con pericolose ripercussioni per la stabilità e la sicurezza interna.