Il complesso ritiro della Nato dall’Afghanistan: l’opzione uzbeka
Entro il 2014 è previsto il ritiro definitivo dall’Afghanistan delle truppe NATO e dei suoi alleati, presenti sin dal 2001 con la missione ISAF. Dall’anno prossimo, le autorità afghane, già da giugno scorso pienamente responsabili della sicurezza nazionale, non potranno più contare sulla massiccia assistenza diretta fornita dagli assetti ISAF. In quest’ottica, gli USA stanno trattando con il presidente afghano Karzai un Bilateral Security Agreement (BSA) volto al mantenimento, oltre il 2014, di una forza residuale in grado di continuare sia l’opera di addestramento e mentorizzazione delle ANSF (Afghan National Security Forces) sia le operazioni di contro-terrorismo contro al-Qaeda e movimenti allineati, oltre a fornire quelle enabling capabilities (appoggio aero-tattico, MEDEVAC e intelligence) che ancora mancano agli afghani. Tuttavia, alla luce dell’impasse sui colloqui di pace con i talebani a Doha, che hanno portato Karzai a sospendere i contatti con Washington sul BSA, gli scenari dell’Afghanistan e della sicurezza regionale risultano sempre più incerti.
I rischi di medio-lungo periodo legati al ritiro NATO sono evidenti: dalla ripresa della guerra civile afghana dinnanzi all’impossibilità di un compromesso con gli insorti, all’espansione dell’estremismo qaedista e del traffico di droga. Si tratta di questioni che non potranno che avere effetti deleteri sulla già difficile affermazione della società civile in un contesto democratico molto lacunoso, come anche sull’ancora scarsa integrazione politica ed economica dell’Afghanistan nel contesto regionale.
Da un punto di vista logistico, il ritiro solleva importanti problematiche nel breve periodo. Bisogna, infatti, considerare che, sin dal 2001, in Afghanistan è stata dispiegata una quantità di materiale militare altamente tecnologico (ed il relativo know-how) mai vista prima nella storia dell’Alleanza Atlantica. Allo stesso tempo, bisogna valutare la complessità di tali operazioni di ritiro che coinvolgeranno una serie di attori molto eterogenei sotto il profilo giuridico (pubblici, privati, civili, militari) e nazionale/internazionale.
Verosimilmente, verranno lasciate in loco tutte quelle strutture (basi, avamposti e comandi) ed equipaggiamenti (veicoli logistici, camion, computer etc.) di natura non offensiva che possono essere trasferite e adeguatamente mantenute dagli afghani. Per quanto riguarda i materiali propriamente militari, il problema che sorge è evitare che tali assetti, tecnologie e conoscenze di natura militare finiscano nelle mani sbagliate o siano semplicemente affidati a mani inesperte. Inoltre, il rimpatrio di ciascun equipaggiamento presente oggi in Afghanistan deve essere valutato dal punto di vista della convenienza economica, alla luce delle enormi proporzioni di un simile ritiro, che prevede il rientro di circa 98 mila uomini, 80 mila veicoli e oltre 125 mila container. Conseguentemente, tutto ciò che non potrà essere rimpatriato o trasferito in sicurezza agli afghani verrà smantellato, bonificato e distrutto sul posto.
Queste colossali operazioni dovranno svolgersi in tempi decisamente rapidi attraverso delle rotte diverse rispetto alla classica via pakistana che era stata preferita durante la fase di dispiegamento: i ripetuti episodi di incomprensione tra Washington e Islamabad, la serie di sconfinamenti militari statunitensi in territorio pakistano e le reciproche accuse di doppiogiochismo e scarsa collaborazione hanno inesorabilmente logorato le relazioni tra NATO e Pakistan.
L’inaffidabilità della rotta pakistana, specie dopo l’incidente del novembre 2011, in cui Forze USA uccisero per errore 24 soldati pakistani, è ormai evidente a tutti, e il rischio che le autorità pakistane blocchino i convogli dall’Afghanistan diretti a Karachi è tale da aver spinto USA e alleati ricercare ulteriori e alternative vie di congiunzione rispetto ai costosissimi ponti aerei. Visto il peggioramento della situazione interna pakistana, a partire dal 2009 si è iniziato a cercare possibili rotte logistiche a nord, attraverso i Paesi ex sovietici dell’Asia Centrale.
Un ritiro attraverso la “via del nord” centroasiatica prevede, però, dei costi elevatissimi (circa 17.500 dollari a container, contro i 7.200 che potevano essere previsti attraverso la via meridionale marittima attraverso il Pakistan) che potrebbero ulteriormente aumentare qualora i Paesi centrasiatici decidessero di innalzare le tariffe di transito, comportando dei milionari esborsi aggiuntivi nel bilancio finale delle operazioni. Inoltre, non sembra auspicabile la possibilità di coprire parte dei costi di transito lasciando una parte dei materiali transitati, in quanto gli equipaggiamenti NATO, oltre ad essere composti da mezzi e materiali prevalentemente di “seconda mano” (e spesso usurati), presenterebbero due ordini di problemi: l’eterogeneità tecnologica della Coalizione, considerando le differenze tra i sistemi di arma dei contingenti, e le differenze fra l’armamento occidentale e quello dell’ex-Patto di Varsavia.
Inoltre, bisogna ricordare che non esiste ancora un piano comune tra gli alleati per definire e organizzare efficientemente le modalità delle operazioni di ritiro: non solo la NATO non ha assunto una linea comune nel definire i termini del ritiro, ma gli stessi governi centroasiatici hanno assunto approcci differenti in base ai Paesi membri della coalizione e, attraverso un complesso schema di accordi bilaterali, hanno ottenuto un più ampio margine per massimizzare i propri interessi negoziando autonomamente con ciascun interlocutore interessato: ciò non fa altro che incrementare ulteriormente i costi rispetto a un più efficiente sistema di accordo comune. Ad esempio, mentre il Regno Unito preferirebbe rifarsi a dei modelli di ingaggio tipici della NATO per accordarsi con gli Stati di transito, la Germania continuerebbe a trattare bilateralmente, e in totale autonomia, con i Paesi centroasiatici.
A questo punto, esclusi i confini pakistani, iraniani e cinesi, appare sempre più probabile che il ritiro del 2014 avverrà lungo le più lente e costose rotte terrestri settentrionali: il Tajikistan, una realtà fortemente instabile che condivide con l’Afghanistan un confine montuoso (catena del Pamir) di oltre 1.300 km, non sembra essere un’opzione facilmente percorribile per una fondamentale carenza infrastrutturale; il Turkmenistan, che condivide con l’Afghanistan un confine percorribile di 744 km e che ha recentemente iniziato la costruzione di una nuova rete di collegamenti ferroviari e terrestri con l’Afghanistan, non sarebbe portato a cooperare con l’Alleanza Atlantica per ragioni costituzionali attinenti al proprio status “neutrale”.
L’unica via alternativa effettivamente percorribile sembra essere la NDN (Northern Distribution Network), una fitta rete di collegamenti terrestri, ferroviari e aerei stabilita nel 2008 e passante per Lituania, Lettonia, Russia, Kazakistan e Uzbekistan. È interessante notare come proprio quest’ultimo Paese potrebbe diventare fondamentale, ancora una volta, assumendo un ruolo strategico chiave nelle operazioni di ritiro.
Già nelle fasi iniziali della campagna militare in Afghanistan, l’Uzbekistan aveva svolto una funzione fortemente cooperativa con la NATO, ospitando dal 2001 al 2005 il 416° Air Expeditionary Operations Group degli Stati Uniti presso la base aerea di Karshi-Khanabad, fornendo un enorme contributo logistico all’Alleanza durante la prima fase offensiva della guerra in Afghanistan e intervenendo domesticamente contro le possibili infiltrazioni jihadiste e talebane.
Tashkent si affermò, così, come il miglior alleato dell’Occidente nella regione centroasiatica; ma questo idillio sarebbe durato solo fino al maggio 2005, in seguito alla dura repressione delle rivolte di Andijan, fomentate dalla grave situazione economica e sociale e dalle possibili infiltrazioni islamiste. Allora, il regime del Presidente Islam Karimov si oppose a qualunque ipotesi di indagine internazionale vedendole come un’ingerenza negli affari interni uzbeki.
La ferma reazione di USA ed UE, che criticarono aspramente il massacro imponendo anche sanzioni commerciali e un embargo militare contro Tashkent (poi ritirate nel 2007), costò all’Occidente (e in particolar modo agli Stati Uniti) una solida alleanza con quella che sembrava essersi affermata come fondamentale testa di ponte della NATO nella regione.
In merito al problema afghano, il governo uzbeko ha comunque preservato delle buone relazioni con alcuni Paesi della coalizione: tra questi, la Germania è stata capace di mantenere la propria base logistica a Termez, a pochi chilometri dal confine afghano, pagando al governo uzbeko un contributo che oscilla tra i 12 ed i 15 milioni di euro l’anno. Inoltre, il governo di Tashkent si è mosso per la stabilizzazione dell’Afghanistan in favore della NATO anche nel corso del summit di Bucarest del 2008, in cui il Presidente Karimov promosse la riformulazione del gruppo delle Nazioni Unite 6+2, istituito nel 1999 e formato dagli stati confinanti con l’Afghanistan, Russia e Stati Uniti, come 6+3 includendo, come ulteriore membro esterno, la stessa organizzazione nordatlantica.
Grazie alla crisi tra Washington e Islamabad, il peso strategico dell’Uzbekistan è tornato, così, ad essere potenzialmente determinante per quanto riguarda le operazioni di ritiro: l’Uzbekistan, pur condividendo un confine di soli 137 km con l’Afghanistan, è al centro della storica “via della seta” e costituirà probabilmente la rotta preferenziale per il transito/ritiro della NATO dall’Afghanistan attraverso l’importantissimo Hairaton Bridge, unico collegamento ferroviario internazionale dell’Afghanistan che attraversa l’Amu Darya e raggiunge Mazar-i-Sharif. Questo vantaggio strategico dell’Uzbekistan potrebbe portare l’Occidente a riavvicinarsi a Tashkent che, in cambio, potrebbe chiedere una forte contropartita in termini economici e politici, ossia importanti tariffe di transito ed un sensibile ammorbidimento del criticismo occidentale verso il regime di Karimov, soprattutto in tema di diritti umani.
Peraltro, il riavvicinamento occidentale nei confronti dell’Uzbekistan è stato già portato avanti dall’amministrazione Obama che, a partire dal 2011, ha ritirato le feroci critiche contro Tashkent. Sembra evidente che, realisticamente, trovare un accordo sulle modalità di ritiro e combattere il nemico comune della militanza radicale costituisca una priorità strategica imprescindibile per entrambi i Paesi.