Da ISAF a Resolute Support: l’impegno italiano a favore dell’Afghanistan
Asia & Pacific

Da ISAF a Resolute Support: l’impegno italiano a favore dell’Afghanistan

By Francesca Manenti and Francesco Tosato
07.31.2014

Il 2014 rappresenta un anno di fondamentale importanza per la futura stabilità dell’Afghanistan. Con l’uscita di scena, almeno ufficiale, di Hamid Karzai, ormai al termine del suo ultimo mandato presidenziale, e con la fine della missione ISAF, infatti, il Paese, per la prima volta dal 2001, si trova non solo a dover tirare le somme di un processo di costruzione istituzionale durato quindici anni, ma, soprattutto, a mettere in pratica in modo autonomo le lezioni apprese in questo periodo.

Nonostante la delicatezza di questo momento, tuttavia, il Paese si trova ora in una fase di pericoloso stallo politico che sta mettendo a repentaglio la tenuta della già precaria stabilità del governo di Kabul. A più di tre mesi dalle elezioni per il nuovo Presidente, infatti, non è ancora stato possibile conoscere il nome del successore di Karzai. Dopo un primo turno in cui nessuno dei candidati ha raggiunto la soglia del 50%+1, necessaria per aggiudicarsi la vittoria diretta, non sono ancora stati ufficializzati i risultati del ballottaggio, disputato tra Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani. Le denunce di pesanti brogli da parte di entrambi i candidati e l’impossibilità di portare a termine lo spoglio delle schede hanno portato le due parti ad accordarsi per il conteggio ex novo dei voti, con inevitabili ripercussioni sulla tempistica per il completamento del processo elettorale. Sembra ormai poco probabile, infatti, che l’effettivo passaggio di consegne alla nuova amministrazione possa avvenire prima del prossimo autunno. In un momento di così delicata transizione, la mancanza di una leadership politica che possa rappresentare l’autorità del governo centrale costituisce un fattore di grande criticità per un Paese in cui la divisione etnica e tribale della popolazione è sempre stata di ostacolo alla coesione interna. L’eterogeneità del panorama etnico, infatti, (pashtun 42%, tagiki 27%, hazara e uzbechi 9%, aimak 4%, turkmeni 3% e baluchi 2%) costituisce la variabile fondamentale nei rapporti di potere all’interno del tessuto sociale afghano. Tale frammentarietà già in passato ha favorito l’affermarsi dei così detti signori della guerra, influenti capi locali che, durante l’invasione sovietica del ’79, si sono distinti alla guida di proprie milizie per la difesa del territorio afghano. Per quanto instabile e assolutamente precario, dunque, l’equilibrio di potere all’interno del Paese è sempre stato strettamente legato al gioco di forza tra i diversi warlord, i quali, in questi trentacinque anni, hanno consolidato la loro influenza, dapprima grazie al ruolo dei diversi gruppi paramilitari sotto il loro comando e, dopo il 2001, attraverso l’autorità esercitata all’interno delle rispettive enclave territoriali, che ha permesso a molti di loro di ritagliarsi un ruolo politico all’interno del Paese.

L’importanza che questi signori della guerra ricoprono tuttora per la stabilità interna è testimoniata dal ruolo preponderante che alcuni di loro hanno avuto anche in occasione delle ultime elezioni, non tanto come front runner ufficiali quanto come alleati strategici per i due candidati durante il ballottaggio, in grado di garantire un sostanzioso apporto in termini di voti e, conseguentemente, di poter fare la differenza nella corsa elettorale. Benché i risultati del primo turno, infatti, non abbiano registrato un grande successo dei warlord candidati (Abdul Rasul Sayyaf 7,04%, Shafiq Gul Agha Sherzai 1,57%), è innegabile un notevole coinvolgimento degli ex mujaheddin per cercare di dare al futuro governo la speranza di una stabilità di medio-lungo termine. Oltre a Sayyaf e Sherzai, i quali, dopo la sconfitta elettorale, hanno espresso il proprio sostegno per Abdullah, potrebbero giocare un ruolo importante per i prossimi esiti elettorali anche Ismail Khan (tagiko, ex Governatore di Herat ed ex Ministro dell’acqua e dell’energia, scelto da Sayyaf come candidato alla vice-presidenza e unitosi alla campagna di Abdullah al secondo turno) e Abdul Rashid Dostum, leader uzbeco e numero due di Ghani in queste elezioni.

L’incapacità dei due candidati di trovare una soluzione di concerto per portare a termine il passaggio di consegne ai vertici dello Stato e il conseguente stallo politico che ne sta derivando, rischia ora di mettere in serio pericolo non solo l’attendibilità del processo elettorale, ma soprattutto la stabilità del futuro governo. La palese difficoltà nel dare forma alla nuova compagine istituzionale, infatti, potrebbe mettere a repentaglio la già precaria diffusione di un sentimento di appartenenza allo Stato e favorire il rinvigorimento di poteri locali. In questo contesto, i signori della guerra potrebbero trarre vantaggio dall’eventuale disgregazione dell’autorità centrale e cercare di approfondire un’eventuale frattura sociale per incrementare le rispettive sfere d’influenza, con inevitabili ripercussioni sulla coesione interna. Una delle sfide principali per il futuro Presidente, dunque, sarà proprio riuscire ad accreditarsi quale interlocutore credibile e trasversalmente riconosciuto ai diversi elementi della società afghana. In questo contesto, la capacità del futuro governo di scongiurare una nuova frammentazione del Paese lungo linee etniche sarà fondamentale per garantire la stabilità delle istituzioni nei prossimi anni.

Spetterà al nuovo Presidente, inoltre, gestire il delicato dossier sicurezza e cercare di porre rimedio al procrastinarsi della definizione delle questioni ancora irrisolte riguardo alla presenza nei prossimi anni di una forza internazionale in Afghanistan. A sei mesi dal ritiro degli ultimi contingenti presenti nel Paese, infatti, non è ancora stata raggiunta un’intesa tra Stati Uniti e governo afghano riguardo al Bilateral Security Agreement (BSA), l’accordo che dovrebbe fornire il quadro giuridico per le truppe statunitensi dal prossimo gennaio. La causa principale di questo ritardo è il passo indietro del Presidente uscente Karzai, il quale, dopo mesi di trattative con Washington e nonostante il consenso ottenuto lo scorso novembre dalla Loya Jirga , si rifiuta ora di firmare un documento che garantirebbe il permanere delle Forze di Washington almeno per i prossimi due anni. La reticenza di Karzai ha portato, inevitabilmente, a un deterioramento dei rapporti con l’Amministrazione Obama, con forti ripercussioni sulla disponibilità degli Stati Uniti nel portare avanti il proprio impegno in Afghanistan nei prossimi anni. Fermo restando il rifiuto da parte di Washington di mantenere propri uomini in Afghanistan in assenza del BSA, il governo americano ha pianificato il ritiro definitivo del contingente non oltre il 2016, in anticipo di due anni rispetto alla precedente dead line, fissata al 2018, e una drastica riduzione delle forze, che saranno formate ora solamente da 9.800 uomini.

Per il nuovo governo di Kabul, inoltre, la definizione dell’accordo con gli Stati Uniti rappresenta un passaggio fondamentale anche per garantire l’inizio della nuova missione NATO, Resolute Support, che dovrebbe portare avanti l’impegno dell’Alleanza nel programma di advisoring delle Forze di sicurezza afghane. La firma del BSA, infatti, è considerata da Bruxelles una condizione imprescindibile per intavolare con il governo afghano alcuna trattativa rispetto al NATO Status of Forces Agreement, (SOFA), l’accordo tra Kabul e l’Alleanza per la modulazione del futuro assetto della missione. Con il ritiro, ormai imminente, dei contingenti ISAF, il procrastinarsi della definizione di questi accordi non permette di dipanare la forte incertezza che ancora caratterizza una questione tanto delicata, con evidenti ripercussioni sulla tempistica di ridispiegamento dei contingenti internazionali nel Paesi.

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