Geopolitical Weekly n.329

Geopolitical Weekly n.329

Di Sara Nicoletti, Stefania Montagna e Elena Ventura
06.06.2019

Mozambico: Daesh rivendica primo attentato nel Paese

Il 4 giugno scorso, Daesh ha rivendicato l’attacco contro il villaggio di Monjane, nella regione settentrionale di Cabo Delgado, assumendosi la responsabilità dell’uccisione di 16 persone tra civili e militari e pubblicizzando, così, la presenza di sue cellule sul territorio mozambicano. L’attentato, avvenuto il 29 maggio precedente, rappresenta la prima azione ufficiale del movimento jihadista nel Paese.

Il Mozambico non è nuovo ad attacchi terroristici di matrice salafita. Infatti, a partire dal 2014 il movimento estremista al-Shabaab ha portato a compimento un alto numero di attentati contro popolazione civile, unità militari e sedi istituzionali locali, causando circa 200 morti. Al-Shabaab, originariamente nato come setta religiosa salafita impegnata nell’assistenza alle fasce più deboli della popolazione e nota per la sua agenda politica anti-governativa e favorevole all’introduzione della Sharia, si è progressivamente evoluto in un gruppo armato insurrezionale.

Al-Shabaab, il cui nome richiama il movimento jihadista nato in Somalia e diffusosi in tutto il Corno d’Africa, ha parzialmente cooptato e capitalizzato il malcontento popolare delle classi scoiali più emarginate e vulnerabili del nord del Paese, soprattutto nell’impoverita regione di Cabo Delgado.

La disaffezione popolare verso le istituzioni mozambicane, sulle quali pesa ancora una residuale mancanza di legittimità ereditata dal lungo conflitto civile del 1975 – 1992, deriva dall’alto tasso di corruzione e nepotismo nonché dalle contraddizioni sociali dei recenti programmi di sviluppo. Infatti, il Paese, all’indomani della scoperta di importanti giacimenti di gas, ha usufruito di nuove rendite finanziarie legate all’esportazione che, tuttavia, non sono state ancora impiegate per la promozione di programmi di sviluppo locali o redistribuite attraverso politiche di assistenza sociale.

Le politiche di centralizzazione del governo hanno fatto in modo che la maggior parte della popolazione sia rimasta esclusa dai benefici delle rendite idrocarburiche, rendendo i giovani del luogo più ricettivi ai messaggi di estremismo violento.

In un simile contesto, la dichiarazione del Daesh rappresenta un oscuro monito sull’ampliamento delle attività jihadiste nel Paese e di un loro possibile salto di qualità, sia propagandistico che operativo. Anche se, sinora, non sono state appurati legami tra al-Shabaab e Daesh, nulla permette di escludere una sinergia tra i due gruppi, l’esistenza di più organizzazioni terroristiche sul territorio Mozambico o addirittura la trasformazione di al-Shabaab in una branca di Daesh allo scopo di massimizzare i benefici di immagine a livello locale.

Lo sviluppo di un fronte jihadista sedimentato in Mozambico rappresenta una ragione di potenziale instabilità per il Paese e, soprattutto, una minaccia potenziale alla sicurezza dei cittadini e alla tutela degli interessi economici di quegli Stati stranieri presenti nel settore energetico nazionale, a cominciare dall’Italia.

Sudan: strage di civili a Omdurman, cresce la tensione tra militari e forze di opposizione

Il 3 giugno scorso le Forze Armate hanno violentemente disperso un nutrito presidio di manifestanti ad Omdurman, una delle tre città che, assieme a Khartoum e Khartoum Nord, compone l’area metropolitana della capitale sudanese. La repressione della protesta pacifica, che ha visto militari e poliziotti aprire il fuoco sulla folla, ha causato circa 100 morti e, di conseguenza, ha rappresentato l’episodio più sanguinoso della rivoluzione iniziata a dicembre 2018 e culminata con la destituzione del Presidente Omar al-Bashir nell’aprile successivo.

Il presidio dei manifestanti faceva parte di una delle molteplici iniziative di protesta patrocinate dalla Dichiarazione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (DFLC), piattaforma di opposizione che riunisce partiti politici, movimenti della società civile e gruppi autonomisti regionali del Darfur e del Kordofan. Questa, scontenta dell’esito delle trattative con il Comitato Militare di Transizione (CMT), giunta militare al potere dopo la destituzione di al-Bashir, aveva deciso di proseguire con le iniziative di disobbedienza civile, inclusi sit-in, scioperi e manifestazioni di piazza.

Infatti, mentre il CMT intende organizzare le elezioni parlamentari nei prossimi 9 mesi, supervisionando la campagna elettorale e il processo di transizione, la DFLC esigono un periodo di transizione di 3 anni, ritenuto necessario per riformare le istituzioni e permettere lo sviluppo di nuovi partiti, la creazione di un meccanismo di alternanza tra civili e militari alla Presidenza della Repubblica e, infine, una ripartizione del potere politico più favorevole alle componenti civili.

Il CMT, espressione delle Forze Armate, del potente Servizio di Sicurezza ed Intelligence e dell’unità d’élite delle Forze di Supporto Rapido (formalmente conosciute con il loro vecchio appellativo di Janjawid), nonostante le dichiarazioni pubbliche inclini ad una maggiore inclusione delle componenti civili nella gestione della cosa pubblica, non appaiono intenzionate a rinunciare alla propria influenza. Di contro, la DFLC domanda a gran voce ‘immediata cessione di ogni potere politico da parte dei militari e lo scioglimento del CMT.

A peggiorare ulteriormente uno scenario già molto volatile ed aleatorio, contribuisce la progressiva polarizzazione della Comunità Internazionale, caratterizzata dall’appoggio di Russia, Arabia Saudita, Turchia, Cina ed Emirati Arabi Uniti al CMT e dal supporto di Unione Africana, Unione Europea, Stati Uniti e Regno Unito al DFLC. In questo senso, appare significativo il veto posto da Russia e Cina ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che condannava formalmente il CMT per l’eccidio di Omdurman.

Il raffreddamento dei canali negoziali tra CMT e movimenti di protesta potrebbe sensibilmente contribuire ad innalzare i toni dello scontro politico e a radicalizzare le posizioni di entrambi i blocchi di potere. Anche se, sinora, la protesta ha assunto modalità di azione pacifiche, un eventuale ripetersi di atti di violenza da parte di Forze Armate e polizia potrebbe fomentare alcune fazioni più estremiste del panorama politico e sociale sudanese. In sintesi, più l’accordo per la transizione democratica si allontana, più la minaccia di un conflitto interno inevitabilmente cresce.

Thailandia: Il Generale Prayuth Chan-o-cha confermato Primo Ministro

Nella tarda serata di mercoledì 5 giugno, il Parlamento thailandese ha eletto Primo Ministro, Prayut Chan-o-cha, ex generale delle Forze Armate e leader del Consiglio Nazionale per la Pace e l’Ordine (CNPO), la giunta militare fautrice del colpo di Stato del 2014, che ha governato il Paese negli ultimi cinque anni. La nomina è arrivata a dieci settimane dalle elezioni generali, tenutesi nel mese di marzo, per la prima volta dopo il golpe. Al termine della votazione congiunta delle due Camere (Camera Bassa e Senato), il Primo Ministro, candidatosi come leader del partito pro giunta e conservatore Palang Pracharat, è stato eletto con 500 voti su 750, ottenendo inoltre l’unanimità dai 250 membri del Senato. Il leader progressista del partito Future Forward Party, Thanathorn Juangroongruangkit, sfidante ufficiale dell’ex generale alla guida del governo, si è fermato a soli 244 voti.

La nomina di Prayut non ha costituito tanto un banco di prova per la leadership thailandese in carica, quanto un test dell’influenza dei militari all’interno delle istituzioni. Due, infatti, sono stati gli elementi decisivi per la nomina di Prayut a Primo Ministro. Innanzi tutto, il voto del Senato, la cui maggioranza dei membri (194 su 250) è nominata dal CNPO e che si è espresso all’unanimità per Prayut. In secondo luogo, la modifica dei seggi assegnati ai partiti minori dalla Commissione elettorale ad elezione già conclusa, che, di fatto, ha consentito a formazioni minori di entrare in parlamento e schierarsi in coalizione con il Palang Pracharat, potendo così votare per la candidatura dell’ex generale alla guida del governo.

L’alleanza con i partiti minori, inoltre, è stata fondamentale anche per garantire al partito del Primo Ministro la maggioranza dei seggi alla Camera Bassa. I risultati delle elezioni, infatti, avevano attribuito solo 116 seggi al Palang Pracharat. I 19 partiti ammessi, dunque, sono stati fondamentali per rafforzare la coalizione ed ottenere quei 12 seggi in più rispetto alla coalizione di opposizione, che permettono al partito pro-giunta di guidare la coalizione di maggioranza.

Nonostante la conclusione del processo elettorale e l’insediamento di un governo civile dopo più di cinque anni, dunque, il peso della leadership militare continua ad essere un elemento portante degli equilibri interni alla Thailandia. Con la conferma di Prayut a Primo Ministro e la maggioranza in Parlamento, gli ambienti militari possono ora contare su un’espressione politica che, di fatto, assicura alle Forze Armate un controllo, quanto meno indiretto, dell’orientamento del prossimo esecutivo.

Articoli simili