Come la Cina reagirà alla nuova ondata di protezionismo
Asia e Pacifico

Come la Cina reagirà alla nuova ondata di protezionismo

Di Paolo Crippa
14.05.2017

Il 2017 si è aperto con una nuova ondata di protezionismo che ha coinvolto gran parte dell’Occidente. La successione alla Casa Bianca ha decretato una netta cesura nei confronti di quelle politiche a favore della globalizzazione che segnarono l’eredità di Clinton, poi sapientemente raccolta da Barak Obama. Mentre Donald Trump in un solo mese cancella l’implementazione di TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) e TPP (Partnership Trans-Pacifica), destinati ad essere i due accordi di libero scambio più imponenti degli ultimi vent’anni, in Europa la critica alla globalizzazione è interpretata in chiave ideologica da un variegato numero di partiti populisti. Front National, Partito per la Libertà olandese, Partito della Libertà Austriaco, Diritto e Giustizia polacco, AfD: tutti accomunati dalla volontà di ristabilire la centralità dei confini nazionali e di recuperare quella sovranità concessa negli anni all’Unione Europea. Ma nonostante questo ritorno di fiamma dell’orgoglio autarchico abbia assunto delle tinte squisitamente politiche, il dato più significativo è di natura economica. Secondo le stime del WTO nel 2016 il commercio internazionale è cresciuto meno del PIL mondiale. Negli ultimi trent’anni era successo solamente due volte: nel 2000, a seguito delle tensioni mediorientali, e nel 2008 a causa della crisi economica. Oggi non ci troviamo di fronte a shock endogeni e nemmeno ad uno scenario geopolitico così compromesso da poter spiegare questo fenomeno, ma piuttosto a una nuova congiuntura tra trend politici e meccanismi di mercato. Da una parte il ritorno al protezionismo  come simbolo di identità e sicurezza, dall’altra una nuova tendenza nel mondo del business: il re-shoring. Le aziende Europee e Americane hanno smesso di delocalizzare in Bangladesh, Pakistan, Cina, Taiwan e stanno riportando i propri impianti di produzione più vicino a casa. Marocco, Bulgaria, Turchia, solo per fare alcuni esempi. Secondo le stime dal 2003 al 2015 il numero di aziende americane che hanno delocalizzato all’estero si è ridotto del 75%. Se da una parte un fattore indiscutibile è la crescente instabilità politica di alcune aree di delocalizzazione, dall’altra si fanno largo nuove esigenze di mercato. Dall’assistenza tecnica in tempi rapidi per i prodotti elettronici a una nuova idea di distribuzione molto più veloce e personalizzata. Tra non molto Trump inaugurerà il tavolo di rinegoziazione del NAFTA, il grande accordo di libero scambio che coinvolge Stati Uniti, Messico e Canada dal 1994, suggellando così la fine di un’era di entusiasmo nei confronti della globalizzazione.

L’Asia invece si sta muovendo nella direzione opposta. Quest’anno il vertice del World Economic Forum di Davos è stato inaugurato da Xi Jinping, il quale ha tenuto un accorato discorso in difesa del libero scambio, dicendosi estremamente preoccupato per il nuovo clima che si respira al di là dell’Atlantico. Il leader cinese ha dichiarato, impressionando i commentatori per l’intensità del suo appello, che il ritorno di tariffe e barriere è un gioco pericoloso, dal momento che nessuno uscirà vincitore da una guerra commerciale. La nuova posizione cinese, di strenuo difensore dell’interdipendenza economica trova la propria ragion d’essere nello storico cambiamento che l’economia nazionale sta attraversando.  Nonostante la Cina sia universalmente conosciuta come il più grande esportatore al mondo di prodotti a basso costo, con un export che supera i 2000 miliardi di dollari l’anno, nel 2012 il settore dei servizi ha superato il settore manifatturiero. Si tratta di un chiaro segno delle profonde metamorfosi che sta attraversando la società cinese, assestandosi verso un’economia più matura, un’economia di mercato. Un settore produttivo sempre più legato al consumo interno e una classe media in ascesa che reclama uno stato sociale più generoso sono tutti segnali di una Cina che si sta lentamente avvicinando ad un tenore di vita occidentale, lasciandosi alle spalle i ruggenti anni della crescita a doppia cifra. Il 18% di tutte le esportazioni cinesi, per lo più componentistica meccanica ed elettronica, finiscono negli Stati Uniti. Washington è ad oggi il primo partner commerciale di Pechino, ma probabilmente le cose sono  destinate a cambiare. La politica economica di Trump, per quanto i suoi contorni siano ancora in fase di definizione, si è aperta in chiave nettamente anti-cinese. Il Presidente durante la sua campagna elettorale aveva sventolato l’ipotesi di un grande dazio sulle importazioni dalla Cina. Tali spauracchi sembrerebbero confermati dalla nomina al vertice del Consiglio Nazionale per il Commercio di un controverso economista californiano, Peter Navarro, autore di un libro dal titolo decisamente eloquente: Death by China. La Cina, che in questo modo rischia di vedersi ridimensionata un’importante voce della propria bilancia commerciale, sta attraversando una fase delicatissima. Se i suoi partner storici al di là dell’Atlantico e degli Urali stanno per innalzare nuovi muri, pechino deve cominciare a guardare altrove per soddisfare la costante crescita dell’export e per sostenere la propria trasformazione interna.

Pechino da anni sta preparando e gradualmente attuando una vera guerra di connettività. Attraverso investimenti mirati a costruire un’enorme rete infrastrutturale che unirà oleodotti, porti e autostrade, la Cina vuole raggiungere nuovi mercati non ancora sviluppati con partnership commerciali per dare nuovi sbocchi alle proprie merci. Si tratta di un disegno di ampio respiro, che spazia dall’Asia Centrale all’Iran, dall’Africa subsahariana al Mediterraneo. Tutto è iniziato nei primi anni 2000, quando il settore industriale cinese stava intraprendendo il passaggio dal carbone al petrolio. All’epoca la stragrande maggioranza dei barili di greggio veniva importata dai Paesi del Golfo, trasportati poi via mare passando attraverso lo stretto di Malacca. La fragilità geopolitica del Golfo Persico, unita all’esigenza di diversificare le fonti di approvvigionamento spinsero le principali aziende del settore, sotto l’egida di Hu Jintao, a muovere i propri investimenti altrove, stilando accordi con diversi paesi in via di sviluppo ricchi di combustibili fossili. Negli anni le stesse rotte commerciali e infrastrutturali costruite principalmente per il petrolio, sono state inserite in un progetto molto più ambizioso, per far fronte ai mutevoli bisogni dell’economia interna. Un nuovo grande progetto di connettività, che prende il nome di One Belt, One Road (tradotto anche Nuova Via della Seta),  prevede un piano di investimenti da 1800 miliardi di dollari in dieci anni che coinvolge circa trenta paesi. L’obiettivo è collegare il mercato cinese a diverse aree geografiche attraverso un enorme corridoio infrastrutturale, che si articoli in una rotta marittima e una rotta interna che attraversi tutta l’Asia. A finanziare questa architettura sono i due colossi del credito cinese, la China Development Bank e la Industrial and Commercial Bank of China. Il fiore all’occhiello di questo sistema è il corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), che unisce, attraverso una rete di ferrovie, reti elettriche e oleodotti, la remota regione dello Xinjiang con il porto di Gwadar, nel Beluchistan. Quest’ultimo, ampliato e messo in totale concessione ad un’authority cinese nel 2015 a seguito di un accordo bilaterale, è destinato a diventare uno dei principali snodi logistici di tutta l’Asia. I progetti di ampliamento prevedono un impianto di desalinizzazione, una centrale termoelettrica da 360 MW e un aeroporto merci internazionale. Per il Pakistan la collaborazione economica con Pechino, (che è stimata intorno al 17% del proprio PIL) è un’occasione unica: 33 dei circa 54 miliardi di dollari investiti dalla Cina sono stati destinati al settore energetico, un settore in cui il Pakistan soffre di un grave ritardo strutturale. Ma non solo, lungo il corridoio sorgeranno presto almeno tre Zone Economiche Speciali capaci di attrarre innovazione e catalizzare lo sviluppo industriale di zone povere e remote come il Kashmir occupato.

Il Pakistan è solo uno dei tanti fortunati esempi, ma in futuro gli occhi di Pechino volgeranno sempre più verso i paesi dell’Asia Centrale. Mentre le regioni del Guandong, Fujian e Jiangsu, tecnologiche e popolose, guardano al trasporto marittimo verso l’Asia Pacifica, Xi Jinping mira a legare il destino del vasto entroterra, montuoso e sottosviluppato, a quello delle ex-repubbliche sovietiche, sottraendole all’orbita di Mosca. Nel 2015 la Cina è diventata il più grande partner commerciale del Kazakhstan, con 23,6 miliardi di dollari in investimenti. Tajikistan e Turkmenistan sono entrambi strategici, non soltanto per il ricco sottosuolo (alluminio, gas naturale), quanto per la posizione centrale lungo la Nuova via della Seta. Il progetto guarda ai benefici nel lungo periodo, quando attorno a tutte queste infrastrutture si creeranno bacini economici e nuove aree industriali, dove la Cina potrà far valere la propria influenza. Sarà questo mercato, che si snoda attraverso una superficie vastissima, profondamente diversificato in quanto a risorse, manodopera e costo del lavoro, a guidare la crescita cinese per i prossimi decenni. Per comprendere l’ampiezza del disegno, basti guardare a due esempi. Da una parte in India è in fase di progettazione una ferrovia ad alta velocità lunga 1400km per collegare la città di Kunming, nella regione dello Yunnan, con Calcutta. Dall’altra, sul versante mediterraneo, la Shangai International Port Group LTD si è aggiudicata per 25 anni, a partire dal 2021, la gestione del porto di Haifa, al momento ancora in costruzione, che con i suoi 1,86 milioni di capacità container sarà il primo porto del Mediterraneo Orientale.

Mentre l’Occidente invoca il ritorno dei dazi e delle barriere doganali per far fronte ai pericoli delle migrazioni e agli squilibri economici causati dalla globalizzazione, in Asia grandi flussi di capitale e manodopera stanno abbattendo lentamente i già deboli confini nazionali. C’è chi parla già di un supply chain century, un secolo delle catene di produzione e distribuzione, dove l’attenzione graviterà sempre più intorno ai grandi centri logistici e meno alle capitali amministrative. Tutto è in rapida evoluzione, ma se l’America continuerà a sognare il ritorno ad uno splendido isolamento, di sicuro sarà un secolo cinese.

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