Geopolitical Weekly n.234

Geopolitical Weekly n.234

Di Ruggero Balletta
27.10.2016

Iraq

Lo scorso 16 ottobre, il Premier iracheno Haider al-Abadi ha annunciato l’inizio delle operazioni militari per riprendere il controllo della città di Mosul, principale roccaforte dello Stato Islamico (IS) in Iraq dal giugno del 2014.

A questo sforzo partecipano, oltre a circa 54.000 soldati dell’Esercito Iracheno, anche 40.000 unità appartenenti alle forze Peshmerga curde e un numero stimato fra i 9.000 ed i 15.000 uomini aderenti a diverse milizie sciite e sunnite. Tra quest’ultime sono presenti anche i combattenti della milizia Hashd al-Watani (creata da Atheel al-Nujaifi, ex goveratore di Nineve) supportata e addestrata dal contingente turco di stanza a Bashiqa, su invito del Governo Regionale Curdo, presenza di fatto contestata da Baghdad. Sul fronte opposto, si stima che le milizie dello Stato Islamico poste a difesa della città rientrino in un range compreso tra le 5.000 e le 8.000 unità.

Le operazioni in corso seguono principalmente due direttive che vedono da un lato l’esercito iracheno  avanzare verso nord, lungo la direttrice che collega la base di Qayyarah a Mosul, mentre i Peshmerga curdi procedono dal nord-est verso i villaggi posti a nord della roccaforte di IS. Al momento, l’Esercito di Baghdad ha conquistato numerosi villaggi nei sobborghi meridionali della città, in particolare al-Sirt, Bajwaniya, al-Hud e al-Mashraf, mentre i Peshmerga sono riusciti ad avanzare fino ai villaggi di Khrap Delil, Nawaran e Derk posizionandosi a circa 12 chilometri da Mosul. Tali risultati sono stati raggiunti grazie al supporto dell’Aeronautica Statunitense nonché di circa 5.200 unità dell’esercito americano impegnate in attività di addestramento e supporto.

La presenza di forze sul campo così eterogenee ha reso necessaria una fitta contrattazione in relazione al ruolo di ogni singola componente nell’ambito delle operazioni. Così il premier iracheno al-Abadi, il 16 ottobre, ha dichiarato che solamente i soldati della 16a Divisione corazzata dell’Esercito Iracheno e i membri della Polizia Federale procederanno fino al centro città, una volta completate tutte le operazioni preparatorie per l’attacco finale grazie al sostegno delle altre forze della coalizione. Ciò nonostante la volontà da parte di tutti gli attori coinvolti sul campo di tutelare i propri interessi (spesso inconciliabili) nell’area aumenta il rischio di una nuova escalation delle tensioni settarie nella regione di Mosul anche in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico.

Quest’ultimo, nonostante le perdite subite, lo Stato Islamico continua a dimostrarsi un’organizzazione resiliente in grado di rispondere in maniera asimmetrica all’offensiva delle forze irachene e dei loro alleati. L’esempio più evidente si è avuto lo scorso 21 ottobre a Kirkuk, quando un gruppo di fuoco, composto da circa una ventina di miliziani di al-Baghdadi, ha assaltato il quartier generale della polizia nell’area di Dubiz e un ufficio del dipartimento dell’energia nel quartiere di Domiz, causando la morte di circa 20 persone.

Kenya

Il 25 ottobre, un commando di al-Shabaab, gruppo jihadista somalo affiliato ad al-Qaeda, ha fatto irruzione nell’Hotel Bishaaro di Mandera, città al confine settentrionale del Paese, uccidendo 12 membri di una compagnia attoriale lì soggiornante. Tuttavia, il bilancio delle vittime potrebbe essere soltanto parziale, poiché sono ancora in corso le operazioni di ricerca tra le macerie dell’albergo, raso al suolo nel corso dell’attacco.

La città di Mandera, capoluogo dell’omonimo distretto settentrionale keniota, è stata spesso teatro delle attività di al-Shabaab causa sia della sua prossimità con il territorio somalo sia della nutrita presenza di miliziani jihadisti. Mentre in passato il movimento concentrava i propri attacchi contro una moltitudine di bersagli (cittadini stranieri, membri delle Forze Armate e di Sicurezza, esponenti della comunità musulmana e cristiana), negli ultimi mesi gli attentati hanno colpito soltanto militari, poliziotti e cittadini non-musulmani. Tale cambiamento di strategia potrebbe rappresentare il tentativo di ricucire i rapporti con la popolazione di religione islamica al fine di ampliare il bacino di reclutamento e ottenere quel supporto popolare recentemente erososi a causa della brutalità delle tattica di guerriglia utilizzate dal gruppo estremista.

Lo scopo degli attacchi di al-Shabaab è duplice: da una parte continuare la campagna per la creazione di un vasto emirato a cavallo tra la Somalia, il nord del Kenya e l’est dell’Etiopia, dall’altra esercitare pressione sul governo di Nairobi nel tentativo di spingerlo a ritirare il proprio contingente militare impegnato nella missione di peace enforcement dell’Unione Africana AMISOM (Africna Union Mission in Somalia).

Nigeria

Il 16 ottobre, il gruppo jihadista Boko Haram ha liberato 21 delle 197 ragazze musulmane rapite il 14 aprile del 2014 nel villaggio di Chibok, nello Stato nord-orientale del Borno, dopo una lunga mediazione portata avanti dal Governo svizzero Svizzera e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Inoltre, secondo alcune fonti del governo nigeriano, il movimento terroristico avrebbe avviato trattative per la liberazione del resto delle ragazze, chiedendo in cambio il rilascio di alcuni miliziani incarcerati o un sostanzioso riscatto in denaro.

Diverse sono le cause che potrebbero aver spinto Boko Haram a liberare le 21 ragazze. Innanzitutto, potrebbe trattarsi di un atto distensivo volto a dimostrare la volontà effettiva di trattare il rilascio del resto degli ostaggi, anche se non sono da escludere motivazioni di matrice politica o finanziaria. Infatti, da circa un anno, il gruppo jihadista appare in grande difficoltà a causa dell’efficace offensiva militare effettuata nella regione del Lago Ciad dalla Multination Joint Task Force (MJTF), contingente multinazionale formato da Nigeria, Niger, Ciad, Camerun e Benin. Le pesanti perdite di territorio e miliziani, unite alla probabile interruzione del flusso di denaro proveniente dai sostenitori sia nazionali che internazionali, potrebbero aver costretto Boko Haram a cercare immediate fonti di finanziamento, individuale nell’ipotetico riscatto per le ragazze di Chimbok.

Inoltre, esiste la possibilità che il rilascio degli ostaggi faccia parte di un tentativo di riconciliazione tra il movimento terroristico e la popolazione musulmana locale, sempre meno incline a sostenere Boko Haram a causa sia del parziale abbandono della sua vocazione sociale e assistenzialistica sia della brutalità delle sue tattiche di insorgenza. In questo senso, la leadership del gruppo potrebbe cercare di ricucire lo strappo con le comunità islamiche locali liberando le ragazze e concentrando i propri attacchi esclusivamente contro le popolazioni cristiane e le Forze Armate e di Sicurezza e risparmiando i civili musulmani. Una simile strategia è stata adottata anche da altri gruppi jihadisti in Africa, quali al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) e al-Shabaab in Somalia. Un simile cambiamento di politica potrebbe riflettere la lotta interna per la leadership di Boko Haram, oggi divisa tra i sostenitori di Abubakar Shekau, l’emiro di lungo corso, e quelli di Abu Musab al-Barnawi, suo ex braccio destro e nominato al vertice dell’organizzazione direttamente dal capo dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. Infatti, mentre Shekau ha incentrato la propria campagna di insorgenza sul conflitto contro tutte le comunità ritenute empie (sia cristiani che musulmani), al-Barnawi potrebbe rinunciare agli attacchi contro i fedeli islamici per costruire una nuova base di consenso attorno a Boko Haram, recuperando parzialmente quella dimensione sociale ed educativa che aveva caratterizzato il gruppo nei suoi primi anni di vita, sotto la guida di Mohammed Yusuf.

Pakistan

Il 24 ottobre, un gruppo di uomini armati hanno fatto irruzione nell’accademia di polizia della città di Quetta uccidendo almeno 59 cadetti e ferendone un altro centinaio. I tre attentatori armati di fucili automatici, giubbotti esplosivi e bombe a mano, hanno neutralizzato le guardie armate all’ingresso e successivamente hanno aperto il fuoco sugli studenti che dormivano nelle camerate. Intervenute per respingere l’assalto, le Forze di sicurezza hanno ingaggiato gli assalitori in un duro conflitto a fuoco per circa quattro ore, durante le quali le forze speciali sono riuscite a liberare alcuni ostaggi e a mettere in sicurezza l’edificio. L’operazione è terminata con l’uccisione di uno degli assaltatori, mentre gli altri due sono morti in seguito alla detonazione dei loro giubbotti esplosivi. Il compound militare dove è avvenuto l’attacco ospita circa 700 persone, fra addestratori e cadetti, ed era già stato oggetto di attacchi terroristici nel 2006 e nel 2008. La responsabilità dell’attacco è ancora incerta. Il gesto, infatti, è stato inizialmente rivendicato da Lashkar-e-Jhangvi, un movimento jihadista sunnita attivo dal 1996, responsabile di numerosi attacchi contro la comunità sciita pakistana, che nel tempo ha iniziato ad operare anche in Afghanistan grazie ad una sinergia con i talebani afghani. Tuttavia nelle ore immediatamente successive, l’agenzia Amaq, spesso utilizzata dal Daesh per rivendicare i propri attacchi, ha attribuito l’attentato alla branca Khorasan dell’autoproclamatosi Stato Islamico, ossia il gruppo di ex militanti talebani (sia afghani sia pakistani) che, nel settembre 2014, ha dichiarato affiliazione ad Abu Bakr al-Baghdadi e che si vuole imporre come espressione del Califfato nel territorio compreso tra Afghanistan e Pakistan. L’attacco all’accademia di polizia è solo l’ultimo episodio in cui il gruppo Khorasan e la militanza locale si contendono la responsabilità di un attentato. Già lo scorso 9 agosto, infatti, in seguito l’attentato contro l’ospedale pubblico di Quetta era stato rivendicato contemporaneamente sia dalla formazione legata a Daesh sia dal gruppo talebano pakistano Jamat ul Harar. Questa concorrenza tra i gruppi più radicati nel territorio, storicamente legati ad al-Qaeda, e le cellule terroristiche più giovani, che tendono ad essere più sensibili al richiamo di Daesh, sembra testimoniare come in Pakistan sia in atto uno scontro generazionale tra combattenti jihadisti che potrebbe ulteriormente compromettere la sicurezza interna al Paese. Il Balucistan è una delle regioni più instabili del Pakistan, al suo interno hanno trovato terreno fertile numerosi gruppi terroristici, così come alcuni gruppi separatisti che dal 1948 portano avanti la lotta armata per la secessione dal Pakistan. Tuttavia, la zona del Balucistan è stata al centro di un concreto sforzo di antiterrorismo da parte delle forze di sicurezza pakistane, in particolare dopo il 2002 quando il governo ha approvato definitivamente il progetto cinese per la creazione del China–Pakistan Economic Corridor (CPEC). Il CPEC prevede la realizzazione di una serie di progetti per un totale di 51 miliardi di dollari con l’obiettivo di espandere e migliorare la rete infrastrutturale del Pakistan, radicando e consolidando i legami economici fra Islamabad e Pechino. Il progetto era stato proposto già all’inizio degli anni ’50 con la costruzione della Karakoram Highway ma era stato abbandonato a causa dell’instabilità politica della regione. Il governo di Islamabad, nel tentativo di riportare i separatisti in seno alla causa pakistana, ha destinato gran parte dei fondi del CPEC ad infrastrutture sul territorio del Belucistan, in particolare nella costruzione del porto di Gwadar sul Mare Arabico. Inoltre una significativa porzione di investimenti vedrà la costruzione di un oleodotto al confine fra Balucistan ed Iran, da cui la Cina spera di importare petrolio e gas naturale. Il CPEC per il momento si sta rivelando una opportunità unica per il Pakistan grazie alla creazione di oltre 700.000 posti di lavoro e una crescita del 2.5% del Pil. Resta però da considerare che, qualora le condizioni di sicurezza non migliorasse, il rischio che la Cina decida di deviare i suoi investimenti verso regioni più stabili potrebbe seriamente concretizzarsi, con l’economia pakistana che sarebbe condannata a restare indietro rispetto al resto delle nazioni asiatiche nel medio termine.

Thailandia

Il 13 ottobre la Corte Reale thailandese ha comunicato ufficialmente la morte del sovrano Bhumibol Adulyadej, noto come Rama IX. Il Re, malato da tempo, si è spento nell’ospedale Siriraj di Bangkok. La morte di Re Bhumibol ha lasciato un grande vuoto di potere nella politica tailandese, dato che per oltre 70 anni egli è stato la figura di riferimento dell’intero Paese. Benchè il premier Prayuth Chan-ocha, ex Generale nominato Primo Ministro da Bhumibol a seguito del colpo di Stato militare del 2014, avesse indicato come successore al trono il secondogenito della famiglia reale, Principe Maha Vajiralongkorn, quest’ultimo ha dichiarato di non sentirsi ancora pronto per la successione. La richiesta del Principe Vajiralongkorn di attendere quasi un anno prima di succedere al padre, desta molte perplessità sulle capacità del Principe Ereditario di guidare il Paese dato che molti osservatori ritengono che non abbia il carisma e la statura politica del padre. Per evitare un vuoto di potere durante i periodi di interregno, che secondo la tradizione thailandese possono essere anche piuttosto lunghi (anche superiori ad un anno), è stato nominato un reggente, come previsto dalla costituzione del Paese. La scelta è ricaduta su Prem Tinsulanonda, capo del Consiglio Consultivo del re, nonché figura molto vicina al defunto monarca. La nomina di Tinsulanonda sembra rafforzare ulteriormente il già consolidato rapporto tra Corona e vertici militari. Ex Generale ed ex Primo Ministro, infatti, Tinsulanonda in questi anni è sempre stato una sorta di eminenza grigia, nonché una figura di collegamento tra l’establishment militare e i vertici istituzionali thailandesi. Tale scelta potrebbe rivelarsi cruciale in un momento in cui l’attuale governo, figlio del colpo di Stato militare del 2014 contro l’allora Primo Ministro Shinawatra, sta cercando di rafforzare dall’interno l’influenza delle Forze Armate all’interno del sistema di governo. Già lo scorso agosto, infatti, il premier Prayuth Chan-ocha aveva indetto un referendum per modificare il testo della nuova costituzione, il quale prevede la riduzione dei poteri dei partiti politici e la possibilità per la Giunta militare di nominare parte dei membri del Senato. Un eventuale vuoto di potere causato dall’inadeguatezza del Principe Vajiralongkorn a prendere le redini del Paese avrebbe potuto creare degli spazi di espressione a quelle forze sociali e politiche, vicine all’esautorata famiglia Shinawatra, che non riconoscono la legittimità dell’attuale governo. Un eventuale rafforzamento dei consensi riscossi da queste frange di opposizione potrebbe rivelarsi una possibile criticità per la tenuta dell’attuale esecutivo, soprattutto in vista delle elezioni parlamentari che dovrebbero tenersi entro la fine dell’anno prossimo.

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