Il dramma dimenticato del Sud Sudan
Africa

Il dramma dimenticato del Sud Sudan

Di Giulia Riedo
18.05.2015

Lontano dall’attenzione mediatica, in Sud Sudan si combatte una guerra civile dal dicembre del 2013, quando l’attuale presidente, Salva Kiir, ha accusato il vicepresidente Riek Machar di aver organizzato un colpo di Stato. Attualmente Machar è alla guida della Sudan People Liberation Army in Opposition, gruppo di ribelli che è riuscito a consolidarsi nell’Upper Nile, zona ricca di risorse idriche e petrolifere. Lo scontro presentava inizialmente i tratti di un confronto tra leadership rivali. In seguito, queste, appellandosi ai legami di affiliazione etnica, hanno sovrapposto al contrasto politico le tradizionali rivalità tra etnie.

Le modalità di formazione del Sud Sudan hanno contribuito a porre le basi per l’attuale conflitto. Lo Stato diviene indipendente nel luglio 2011, tramite un referendum. Salva Kiir è stato eletto nell’aprile 2010 come presidente dello Stato autonomo del Sudan e Machar ha mantenuto da allora la carica di vicepresidente. Il fatto che dopo l’indipendenza non si siano tenute elezioni presidenziali ha parzialmente intaccato la legittimità di Kiir ed ha alimentato le contestazioni interne al Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), attuale partito al governo, e al SPLA, suo braccio armato, nonché spina dorsale dell’attuale esercito sud sudanese. Nel 2005 l’SPLM firmò un accordo di pace con il Sudan nel quale però non vennero ricompresi come soggetti ufficiali i numerosi gruppi armati che avevano preso parte alla guerra civile. L’SPLM per attenuare la minaccia rappresentata da tali gruppi, decise di reintegrarli nelle proprie forze armate formando, con la Juba Declaration, un movimento unico nel 2006. Nonostante la coalizione, il raggiungimento dell’indipendenza ha dissolto la ragione principale di coesione tra i gruppi armati.

Le forti divisioni interne all’esercito si sono ulteriormente aggravate dopo la decisione di Kiir di formare nel 2013 una Guardia presidenziale, strumento di coercizione e potere diretto del Presidente, composta da personaggi fedeli alla sua persona per lo più appartenenti all’etnia Dinka, storicamente rivale dei Nuer, popolazione alla quale appartiene il vicepresidente Machar. La creazione della Guardia presidenziale dimostra la diffidenza che Kiir prova nei confronti di Machar, personaggio che già nel 1991 aveva indotto la frattura del partito e nel 1997 aveva firmato un accordo con Khartoum divenendo assistente di Al-Bashir. La creazione della guardia ha sollevato numerose contestazioni, in quanto tradisce la composizione multietnica delle forze armate e riapre, così, le fratture etniche. Tuttavia, le critiche rivolte al governo di Juba non si fermano alle azioni della Guardia Presidenziale, ma riguardano soprattutto la corruzione endemica e la mancata attuazione di politiche di sviluppo per un Paese che presenta buone potenzialità.

La risoluzione del conflitto e’ urgente, ma il fallimento del processo di negoziazione guidato dall’IGAD sembra aver allontanato le speranze di pacificazione. Tra accuse di mancata imparzialità del mediatore e il boicottaggio degli incontri finali da parte del presidente Kiir, le parti non hanno raggiunto un accordo entro il termine prestabilito del 5 marzo e i colloqui sono al momento sospesi sino ad Aprile. Il problema principale riguarda la futura struttura dell’esecutivo e la possibilità di ricostituire il parlamento garantendo una maggior rappresentanza alle entità locali e provinciali. Una prima ipotesi di accordo si basava sull’ assegnazione del ruolo di primo ministro a Machar e sul mantenimento della carica presidenziale da parte di Kiir. Le due parti principali non concordavano, però, sui poteri da attribuire ai due ruoli istituzionali, richiedendo l’uno una forma di governo presidenziale e l’altro una direzione dell’esecutivo da parte del primo ministro.

Il 3 marzo 2015 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità la risoluzione 2206 che prevede l’imposizione di sanzioni per tutti coloro che ostacolino, anche indirettamente, il processo di pace. Il consiglio richiede che le parti rispettino il cessate il fuoco firmato precedentemente (23 gennaio 2014, 6 maggio 2014 e 9 maggio 2014) dal governo sud sudanese e dall’SPLA in Opposition e che vengano progressivamente ritirate le forze straniere dispiegate sul territorio dall’inizio della crisi. Le sanzioni applicabili non vengono elencate, ma si fa riferimento anche alla possibilità di emanare divieti di viaggio e congelamento delle risorse finanziarie di gruppi ed individui. A tal fine e’ stato istituito un Comitato per le sanzioni, il quale verrà affiancato da un panel di esperti incaricato di raccogliere e analizzare informazioni riguardanti il flusso di armi e il sostegno militare a coloro che ostacolano il processo di pace e commettono violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani. L’IGAD riporta violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti anche nel mese di febbraio. Secondo il rapporto, le milizie Shilluk, affiliate alle truppe governative dell’SPLA hanno reclutato bambini di età compresa tra 11 e 18 anni, nel villaggio di Wau-Shilluk payam, nell’Upper Nile, passando nelle scuole e di casa in casa. Anche un rapporto ONU documenta il reclutamento di 561 bambini dall’ inizio del conflitto. Entrambe le parti hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, tra le più eclatanti si ricordano gli avvenimenti del 15 e 17 aprile del 2014 nelle città di Bentiu e Bor, in cui 353 civili sono Stati uccisi e 250 feriti, come confermato dal rapporto emesso il 9 gennaio 2015 dalla sezione che si occupa di diritti umani della Missione Onu in Sud Sudan(UNMISS). Secondo il Rappresentante speciale dell’ONU, sono ancora in corso attacchi e uccisioni su base etnica, ma i perpetratori sono rimasti impuniti. Anche il Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana aveva istituito una commissione di inchiesta sulle violazione dei diritti umani compiute sul territorio. L’Unione Africana ha però impedito che il report fosse presentato alla fine di febbraio, ritenendo che i risultati compromettessero le negoziazioni in corso. 76 organizzazioni tra quali Amnesty International hanno richiesto la pubblicazione immediata del rapporto senza però giungere al risultato sperato.

A dimostrazione di quanto sia lontana la fine del conflitto, il 24 marzo i due terzi dei parlamentari, sostenendo che la continuità della presidenza Kiir sia necessaria ai fini della stabilizzazione del Paese, hanno votato un’estensione del suo mandato di altri tre anni, rimandando cosi le elezioni previste a giugno.

La guerra civile ha causato una catastrofe umanitaria: i servizi di base sono assenti, le condizioni sanitarie sono precarie e il rischio di crisi alimentare è elevato, così come il numero di sfollati. Secondo l’African Development Bank già nel 2013 il 51% della popolazione sud sudanese viveva sotto la soglia di povertà. L’UNHCR ha registrato a metà del 2014 la presenza di 1,4 milioni di sfollati (Internal Displaced Person), aggiuntisi ai già presenti 250 mila rifugiati provenienti dalla Repubblica Centrafricana, dalla Repubblica Democratica del Congo, dall’Etiopia e dal Sudan. Solo il 10% degli IDPs vive in campi predisposti dalla Missione ONU, la stragrande maggioranza vive in zone remote e difficilmente raggiungibili. Inoltre, l’assistenza umanitaria e l’azione delle ONG sono ostacolate dall’atteggiamento ostile del governo di Juba nei confronti degli operatori internazionali.

Il recente conflitto ha rallentato bruscamente le prospettive di crescita del Paese: il World Economic Outlook dell’ottobre 2013 prevedeva per il 2014 una crescita intorno al 43%, ma il dato dell’aprile 2014 è solo del 7%. I proventi derivanti dal petrolio rappresentano il 98% del PIL del Paese ma l’economia è stata fortemente danneggiata dai livelli storicamente bassi del prezzo del petrolio e dalla sospensione delle attività estrattive del greggio decisa nel 2012 in ritorsione alle tariffe imposte dal Sudan per l’utilizzo dei suoi oleodotti. Tale risorsa si concentra negli Stati del Nord-est, Unity, Jonglei e Upper Nile, aree attualmente al centro del conflitto. La questione del trasporto del greggio rimane tra le più delicate e risveglia gli appetiti regionali. Una delle più importanti infrastrutture ad oggi progettata, è il Lamu Port Southern Sudan Ethiopia Transport Corridor (LAPSSET), il quale prevede la costruzione di un porto, nuovi collegamenti ferroviari e un oleodotto che colleghi il Sud Sudan e il Kenya, evitando così l’utilizzo di infrastrutture sudanesi. Per lo stesso scopo si vorrebbe costruire un oleodotto che arrivi nel porto di Djibouti attraverso l’Etiopia, ma i lavori sono al momento sospesi a causa della guerra civile. Per quanto concerne le risorse idriche, l’Egitto è interessato alla costruzione nello Stato del Jonglei di quello che diverrebbe il canale più largo del mondo, oltre 350Km, finalizzato a deviare l’acqua dalla palude di Sudd verso il Sudan e l’Egitto.

Considerate le opportunità economiche, i più importanti Stati della regione si sono interessati agli scontri in corso e hanno aumentato il grado di complessità del conflitto, strumentalizzando le proprie alleanze con le parti sud sudanesi in funzione di rivalità a livello regionale. Nonostante, i rapporti tra Khartoum e Juba siano migliorati, la fazione di Machar ha offerto una spartizione dei proventi del petrolio al governo Sudanese, qualora esso avesse garantito la sicurezza nei siti di estrazione. Questo porta le autorità di Juba ad accusare il Sudan di aver sostenuto i ribelli. Anche l’intervento Ugandese a supporto del SPLM, inizialmente cruciale per il mantenimento del controllo della capitale, rischia di spingere Khartoum verso Machar a causa dell’ostilità tra Sudan e Uganda. Un altro elemento che può aver contribuito al peggioramento dello scontro è il mancato sostegno al governo di Kiir da parte del suo più importante alleato internazionale, gli Stati Uniti. Questi avevano fatto propria la causa sud sudanese, tanto da porla, tra 2011 e 2012, al centro dell’agenda del Consiglio di Sicurezza. Gli USA, probabilmente in seguito alle scoperte di giacimenti di gas di scisto sul proprio territorio, hanno poi distolto l’attenzione dalla vicenda, indebolendo quindi gli elementi di dissuasione per le forze ribelli. Il disinteressamento degli USA ha lasciato ampio spazio alla Cina, il principale investitore estero, e ad altri Paesi asiatici.

Il Sud Sudan appena divenuto indipendente si presentava come uno Stato con grandi potenzialità di crescita. Ad oggi, la guerra civile impedisce qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazione, nonché la formazione di un governo stabile e legittimato necessario per gestire una politica estera delicata. Al fine di facilitare il dialogo, la soluzione migliore sarebbe la creazione di un Contact Group che ricomprenda tutti gli attori coinvolti, che preveda progetti di giustizia e riconciliazione anche a livello delle comunità locali e che sia unico per evitare la strumentalizzazione di forum differenziati già avvenuta in passato. Va sottolineato che l’imposizione di un embargo sul commercio di armi aiuterebbe a diminuire la presenza di armi leggere sul territorio e probabilmente sortirebbe effetti migliori di qualsiasi altro tipo di sanzione.

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