Geopolitical Weekly n.207

Geopolitical Weekly n.207

Di Carolina Mazzone e Olena Melkonian
18.02.2016

Sommario: Cina, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Turchia

Cina

La Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha completato, secondo quanto mostrato da alcune immagini satellitari dello scorso 14 Febbraio, l’installazione di due batterie di missili terra-aria e dell’annesso sistema radar nell’isola più grande dell’arcipelago delle Paracel, la Woody Island, nel Mar Cinese Meridionale.

Dopo le critiche mosse dagli Stati Uniti, che hanno parlato di minaccia per la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, ha fatto seguito la risposta di Pechino che ha legittimato la sua azione presentandola come un diritto alla difesa nazionale. Non è la prima volta che la Cina subisce tali contestazioni, poiché anche in passato è stata accusata di destabilizzare la regione con la costruzione di piste per l’atterraggio aereo, fari marittimi e con l’aumento di un sempre più aggressivo pattugliamento navale su una serie di isolotti contesi nel mar Cinese Meridionale.

Negli ultimi anni, le rivendicazioni sulla sovranità delle isole dell’arcipelago Spratly e delle Paracel hanno creato notevoli tensioni tra i Paesi rivieraschi (Vietnam, Taiwan, Filippine, Malaysia e Brunei) e la Cina. Ricche di giacimenti di idrocarburi e dal grande potenziale ittico, le isole si trovano in una posizione strategica e sono considerate da Pechino come rientranti nella propria sfera di sovranità. La politica navale della RPC, ritenuta dai Paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico) come aggressiva e minacciosa, è contestata anche da Stati Uniti e Giappone. Infatti, entrambi insistono nel sostenere come l’assertività cinese rischi di minare il diritto alla libertà di passaggio marittimo che potrebbe arrecare considerevoli danni al commercio globale, considerando che attraverso queste acque internazionali avvengono scambi commerciali per miliardi di dollari con circa 70 mila navi che le attraversano annualmente.

I Paesi dell’ASEAN, che fino ad ora non sono riusciti a fare fronte comune contro la Cina, temono che la sovranità cinese sulle isole possa diventare a breve un dato di fatto incontestabile, minacciando la loro economia strettamente legata al commercio e alla pescosità delle acque del Mar Cinese Meridionale.

La notizia delle immagini satellitari che mostrano le installazioni è giunta poco dopo la conclusione del Summit dell’ASEAN tenutosi in California che ha portato a un accordo per stabilire rapporti pacifici ed evitare la militarizzazione della zona del Mar Cinese Meridionale. La mossa di Pechino non ha sorpreso gli Stati Membri e si aggiunge alle dimostrazioni di forza militare avvenute nei mesi precedenti, come quelle seguite alle elezioni presidenziali a Taiwan, dopo le quali la Cina ha ricordato di avere i suoi missili puntati su Taipei. Nonostante le provocazioni cinesi e le preoccupazioni legate all’emergere di un possibile conflitto con la RPC, sembra non esserci una reale volontà di esacerbare i dissidi ma di mantenere la situazione sotto osservazione, nella speranza di trovare una soluzione a livello diplomatico.

Repubblica Centrafricana

A distanza di due anni dall’insediamento del governo di transizione, lo scorso 14 febbraio si è tenuto il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Repubblica Centrafricana. Dopo due anni di governo di transizione, a contendersi il ruolo di Capo dello Stato sono stati due candidati di religione cristiana, Georges Dologuele e Faustin Archange Touaderà. Le procedure di voto si sono svolte senza significativi  episodi di violenza, grazie anche alla presenza della missione ONU MINUSCA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic), attiva dal 2014.

Dologuele, che ha ricoperto l’incarico di Primo Ministro sotto la presidenza di Ange-Félix Patassé tra il 1999 e il 2001, è sostenuto dall’Unione per il Rinnovamento Centroafricano (Urca) e il partito del il Kwa Na Kna (Knk) dell’ex presidente Bozizé. Invece Tuaderà, ex- capo del governo sotto la presidenza di Bozizé dal 2008 al 2013, si è presentato come candidato autonomo ed è stato supportato dall’elettorato insoddisfatto dell’unione tra KnK Urca. Per il primo, il programma politico prevede il rilancio dell’economia e dello sviluppo del Paese, mentre per il secondo l’importanza dell’avanzamento del Paese risiede nel dialogo tra le diverse componenti sociali ed etniche in conflitto tra loro da diversi anni.

A partire dal 2013, a seguito del colpo di Stato perpetrato dalle milizie musulmane della coalizione SELEKA e della resistenza opposta dai gruppi di autodifesa dei villaggi cristiani, chiamati “anti-balaka” (anti-machete), il Paese è attraversato da un feroce conflitto etnico-religioso.

Oggi le elezioni presidenziali rappresentano il primo passo verso la stabilità della Repubblica Centroafricana. Attualmente, il Paese, risulta controllato a ovest da milizie del movimento Anti-balaka, mentre le diverse fazioni musulmane dominano il centro e il nord del territorio. Il nuovo Presidente dunque, dovrà cercare di ricostruire di un tessuto sociale estremamente frammentato. Di conseguenza, tra gli obbiettivi del prossimo Capo dello Stato potrebbe esserci la realizzazione di un vasto programma di riforme necessario a ri-strutturare il sistema di redistribuzione delle risorse ed a favorire la riconciliazione tra i diversi gruppi etnico-religiosi del Paese.

Russia

La mattina del 15 Febbraio, un’autobomba ha ucciso due poliziotti presso un posto di blocco nella città di Derbent, in Daghestan. Le autorità russe hanno identificato l’attentatore in un giovane studente daghestano dell’Università di Astrakhan, senza tuttavia rivelarne l’identità.

L’attentato è stato rivendicato dal Wilayat al-Qawkaz (provincia del Caucaso), branca russa dello Stato Islamico. In precedenza, nel Dicembre 2015, lo stesso gruppo aveva attaccato un gruppo di militari russi nei pressi della fortezza di Naryn Kala, sempre a Derbent, uccidendo un agente dei servizi di sicurezza (FSB).

Fondato il 23 Giugno scorso con la dichiarazione di fedeltà e affiliazione (bayat) a Daesh,  il Wilayat al-Qawkaz è formato da brigate di miliziani daghestani fuoriusciti dall’Emirato del Caucaso, la più antica organizzazione jihadista attiva in Russia, con comprovati rapporti con al-Qaeda.

Guidato dal daghestano Rustam Asildarov, il Wilayat al-Qawkaz e la sua ascesa rappresentano sia il tentativo da parte dello Stato Islamico di espandere la propria influenza nella turbolenta regione caucasica, sia la crisi che attraversa le vecchie organizzazioni terroristiche cecene e daghestane, sfiancate dai conflitti clanici, dall’azione delle forze militari e di sicurezza russe e dal pugno di ferro del Presidente ceceno Ramzan Kadyrov.

A influire significativamente sulla nascita del Wilayat al-Qawkaz è stata la guerra in Siria e il consistente afflusso di miliziani ceceni tra le fila dello Stato Islamico e di al-Nusra. Infatti, sul campo di battaglia siriano, molti foreign fighters ceceni (circa 1500) hanno potuto rivitalizzare il proprio addestramento, tessere relazioni con i network jihadisti internazionali e completare il proprio processo di radicalizzazione, tutti fenomeni difficilmente realizzabili in Patria a causa nella morsa di sicurezza imposta dal Cremlino. Dunque, con il ritorno di questi combattenti stranieri nelle repubbliche del Caucaso del Nord, è lecito aspettarsi una possibile e significativa ripresa delle attività terroristiche.

Infatti, oltre alla tradizionale acredine che da secoli oppone Mosca ad alcune sezioni della popolazione musulmana caucasica, il coinvolgimento russo nella guerra in Siria in funzione pro-governativa costituisce un ulteriore elemento di escalation nello scontro.

Siria

Lo scorso 15 febbraio, alcuni raid arei su cinque ospedali e due scuole nelle provincie di Idlib e Aleppo hanno provocato la morte di circa 50 persone e suscitato reazioni di sgomento e forte condanna in larga parte della Comunità Internazionale. Sebbene la Turchia abbia attribuito la responsabilità dei bombardamenti alla Russia, il Cremlino ha negato qualsiasi tipo di coinvolgimento. Gli Stati Uniti, invece, hanno indicato nelle forze lealiste fedeli al regime di Assad i responsabili dell’accaduto e hanno rinnovato l’appello alla cessazione dei bombardamenti contro obiettivi civili.

Il bombardamento degli ospedali e delle scuole contribuisce a rendere ancora più complicate le negoziazioni  tra Governo e insorti per trovare una soluzione diplomatica ad una guerra civile che ormai si trascina da 5 anni.

I colloqui per il raggiungimento di un’intesa, avviati lo scorso mese a Ginevra, sono saltati a causa dall’abbandono dei negoziati da parte dell’opposizione per l’avanzata delle forze governative siriane su Aleppo, avvenuta in concomitanza con i lavori del vertice di pace. Alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, svoltasi dal 12 al 14 febbraio, Russia e Stati Uniti avevano raggiunto un’intesa che prevedeva la cessazione delle ostilità e l’invio di aiuti umanitari entro la settimana successiva. Tuttavia, i gruppi più estremisti e di chiara ispirazione jihadista come lo Stato Islamico e Jabat al-Nusra erano stati esclusi dagli accordi in quanto organizzazioni terroristiche.

Gli attacchi del 15 febbraio hanno mostrato l’estrema fragilità del provvedimento di Monaco. In contemporanea, le forze di Assad, sostenute da Iran e Russia, proseguono la loro lenta avanzata su Aleppo, seconda città della Siria dove i ribelli riescono da anni a mantenere un controllo parziale del territorio. Con il proseguo dell’avanzata e il parallelo indebolimento della galassia ribelle, acuito ulteriormente dalla recente interruzione della loro principale linea di rifornimento su Aleppo, i lealisti e i loro alleati guadagnano maggior potere negoziale per i colloqui di pace. Di contro, l’arretramento dei ribelli indebolisce la posizione degli Stati che li sostengono, in particolar modo Turchia e Arabia Saudita.

L’eventuale riconquista lealista di Aleppo e il considerevole danno che il fronte ribelle potrebbe subire, sembrano rendere più probabile un maggiore coinvolgimento militare di Ankara e Riyadh, che hanno pubblicamente affermato di considerare l’opzione dell’invio di un nutrito contingente di truppe in territorio siriano per contribuire alla pacificazione. Qualora si realizzasse uno scenario simile, desterebbe molta preoccupazione il clima di tensione che potrebbe crearsi tra Iran e Russia da un lato, e Turchia e Arabia Saudita dall’altro, fortemente contrapposti su interessi strategici divergenti e con le rispettive forze armate costrette a condividere uno spazio operativo molto esiguo.

Turchia

Nei giorni del 17 e 18 febbraio, la Turchia è stata colpita da una due attentati terroristici. Il 17, nel centro di Ankara, nelle immediate vicinanze di palazzi istituzionali (Parlamento, Stato Maggiore delle Forze Armate), un’autobomba è stata fatta esplodere contro a due autobus militari, nei pressi del causando la morte di circa 28 persone; il 18, a Diyarbakir, nel sud-est del Paese, una mina ha colpito un convoglio militare provocando 7 vittime.

Il Primo Ministro Ahmet Davutoglu e il Presidente Recep Erdogan hanno attribuito la responsabilità dell’attentato di Ankara al gruppo curdo-siriano Unità di Protezione Popolare (YPG), mentre dietro l’attacco a Diyarbakir i sospetti ricadono sul Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Tuttavia, alcuna formazione terrorista o insurrezionale ha rivendicato ufficialmente la responsabilità dei due attacchi.

Mentre l’attacco di Diyarbakir, per dinamica ed obbiettivi, appare effettivamente un’azione perpetrata dal PPK, l’attentato di Ankara ha suscitato reazioni contrastanti. Sebbene il responsabile dell’attentato di Ankara sia stato identificato nella persona del curdo-siriano Saleh Nejar, permangono molti dubbi sull’effettivo coinvolgimento dello YPG o del PKK. Infatti, lo YPG non ha mai compiuto attentati in Turchia e soprattutto pare non disporre delle capacità tecniche e logistiche per compiere una simile azione nella capitale turca. Per quanto riguarda il PKK, è la modalità e il luogo dell’attentato a suscitare qualche perplessità Infatti, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, sebbene tenga a colpire forze armate e di sicurezza, cerca di compiere azioni mirate e volte a minimizzare le vittime civili. Inoltre, resta da capire come abbia fatto il gruppo terroristico a compiere una simile azione in uno dei luoghi più sorvegliati di tutti il Paese. L’insieme delle smentite del PKK e dell’YPG e i dubbi sollevati dai partiti di opposizione hanno spinto l’insieme dei movimenti anti-anti-governativi a sollevare lo spettro di un attentato fabbricato dai servizi segreti sia per inasprire le posizioni dell’opinione pubblica contro la comunità curda sia per ragioni di politica estera.

Infatti, con riferimento alla guerra civile siriana, Ankara guarda con forte sospetto all’avanzata delle forze lealiste ad Aleppo e al consolidamento del fronte curdo al confine nord. Tuttavia, l’avversità turca contro i crudi strige con il sostegno che i Paesi Occidentali, che invece ne sostengono lo sforzo in funzione di contrasto alla Stato Islamico. Dunque, secondo gli oppositori di Erdogan, il Presidente avrebbe lanciato una strategia della tensione nel triplice obbiettivo di screditare la causa curda agli occhi della Comunità Internazionale, irrigidire la posizione del popolo turco verso i curdi e utilizzare il casus belli del terrorismo per lanciare una massiccia operazione militare nel nord della Siria.

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