Geopolitical Weekly n.205

Geopolitical Weekly n.205

Di Carolina Mazzone e Elena Melkonian
04.02.2016

Sommario: Burundi, Nigeria, Siria, Ucraina

Burundi

Il vertice dell’Unione Africana (UA) del 31 gennaio scorso si è concluso senza l’approvazione della risoluzione che prevedeva il dispiegamento di una forza di peacekeeping di 5000 uomini per la protezione dei civili, a seguito delle manifestazioni anti-governative che da mesi colpiscono il Paese. Il provvedimento è stato infatti rifiutato dal Ministro degli Esteri burundese Alain Nyamwite. Il Consiglio per la pace e la sicurezza (CPS) ovvero l’organo dell’UA che si occupa della gestione e della prevenzione dei conflitti nel continente, ha di conseguenza stabilito che, senza autorizzazione del governo di Bujumbura, non sussistono le condizioni per un intervento legittimo. Al termine della riunione è stato poi istituito un comitato di dialogo con lo scopo di trovare una soluzione al conflitto e promuovere la fine delle proteste.

Inoltre, la mancata applicazione della risoluzione testimonia anche il timore di alcuni stati membri dell’UA, politicamente meno influenti, di veder legittimate le possibili ingerenze esterne negli affari interni di uno Stato sovrano attraverso l’azione del CPS.

All’origine dell’attuale situazione di instabilità in Burundi sono i disordini che hanno avuto origine nell’aprile 2015, in seguito alla decisione del Presidente Nkurunziza (al potere del 2005) di ricandidarsi per un terzo mandato attraverso la modifica unilaterale delle contrarie disposizioni costituzionali. Il Capo di Stato, accusato dalla popolazione di aver instaurato un sistema statale autoritario e basato su nepotismo e corruzione, ha reagito attraverso un massiccio utilizzo della forza contro i manifestanti. Contestualmente, Nkurunziza ha sfruttato i poteri speciali derivanti dalle leggi anti-terrorismo per reprimere con estrema durezza qualsiasi forma di dissenso.

In un simile contesto fortemente polarizzato tra governo e opposizioni, la posizione delle Forze Armate costituisce un’importante e ulteriore variabile per l’evoluzione del conflitto e il ridimensionamento del potere presidenziale. Anche se inizialmente l’Esercito si era dichiarato neutrale rispetto agli scontri tra governo e popolazione, il 13 maggio scorso ha cercato invano di compiere un colpo di Stato.

L’aumento dei contrasti interni alla popolazione è da attribuirsi anche alla rivalità storica tra le due maggiori etnie del Paese: gli Hutu (80% della popolazione) e i Tutsi (20%); rivalità che però in Burundi ha sempre mantenuto una caratterizzazione maggiormente legata a un profilo sociale piuttosto che genuinamente etnico.

La determinata opposizione del governo di Bujumbura all’autorizzazione della missione internazionale nel proprio territorio è da imputare al rifiuto del Presidente Nkurunziza di sottoporre il proprio esecutivo sotto un controllo e un’influenza esterna che potrebbero progressivamente dar voce all’opposizione. Senza l’attuazione della missione, il Presidente burundese potrebbe, infatti, continuare ad applicare il sistema di potere clientelistico per il quale viene contestato. Infine, c’è il rischio che l’escalation di violenza sfoci in una vera e propria guerra civile, che potrebbe avere conseguenze fondamentali sull’assetto politico e sociale del Paese.

Nigeria

Il 31 gennaio scorso, la Nigeria ha subito una serie di attacchi terroristici: nel nord-est del Paese, il gruppo jihadista Boko Haram ha assaltato il villaggio di Dalori, nei pressi di Maiduguri, capitale dello Stato federale del Borno, uccidendo 86 persone, mentre a sud, presso la cittadina di Brass, nella regione del Delta del Niger, un non meglio identificato commando di miliziani ha provocato l’esplosione di un oleodotto della Nigerian Agip Oil Company, joint venture tra ENI e alcune società petrolifere nigeriane.

I due attentati rispecchiano le continue minacce alla sicurezza e alla stabilità interna che caratterizzano il più popoloso Paese africano. Nella parte nord orientale del Paese, dove la popolazione è principalmente musulmana, la diffusione del jihadismo rappresenta l’espressione violenta del malcontento sociale e politico dovuto al sottosviluppo e agli attriti etnici tra il gruppo dominante degli Hausa-Fulani e il gruppo subalterno dei Kanuri, che costituisce il principale bacino di reclutamento per Boko Haram. Infatti, il movimento terroristico, attraverso la lotta armata, mira a rafforzare il controllo del territorio intorno all’area del Lago Ciad e ha lo scopo di costituire una realtà para-statale indipendente rispetto al governo centrale e amministrata secondo i più rigidi dettami shariatici

Al contrario, nel sud del Paese i miliziani della regione del delta del Niger provengono prevalentemente dalle ex bande del Movimento per l’Emancipazione del Niger Delta (Mend), organizzazione criminosa ed eco-terrorista il cui obiettivo un maggiore controllo delle risorse petrolifere locali e degli introiti provenienti dalla produzione petrolifera. Questi ultimi, infatti, sono gestiti da ristretta cerchia di politici locali, nazionali e dai rappresentanti delle multinazionali estere. Nonostante il Mend abbia sensibilmente ridimensionato le proprie attività dopo l’attuazione del Disarmament Demobilitation and Reintegration Act nel 2009, molte delle sue brigate continuano ad imperversare nella regione del Delta del Niger.  Infatti, solo una parte dei miliziani ha avuto accesso ai benefici offerti dal piano di reintegrazione e ai benefici economici dell’accordo.

Gli avvenimenti in questione dimostrano come in Nigeria si sovrappongano minacce di diverso genere che vanno a intaccare la stabilità del Paese. Nelle regioni più instabili del Paese, il governo di Abuja potrebbe avviare una serie di investimenti pubblici e di interventi sociali per promuovere occupazione e ridurre l’arruolamento nelle frange islamiste di Boko Haram o in quelle dei miliziani del Mend. Specificatamente nella regione del Delta, con il supporto alla diversificazione della produzione locale, all’ agricoltura e al risanamento ambientale, il governo potrebbe favorire sviluppo e una maggiore redistribuzione delle risorse.

Siria

Lo scorso 1 febbraio, a Ginevra ha avuto inizio il terzo round di negoziati sulla crisi siriana, terminati senza il raggiungimento di alcun risultato significativo.

I colloqui, previsti dalla Risoluzione n.2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno lo scopo di giungere a un cessate il fuoco tra le fazioni in lotta e di avviare, a partire dal giugno 2016, una transizione politica di 18 mesi che include la stesura di una nuova Costituzione e l’indizione di libere elezioni.

Sin dalla vigilia dei colloqui, l’esito dei negoziati è stato messo a dura prova dall’atteggiamento ostativo dei delegati dell’Alto Comitato dei Negoziati (High Negotiations Committee, HNC), soggetto politico istituito lo scorso 10 dicembre a Riyadh rappresentativo delle istanze dell’opposizione sunnita al regime di Assad. L’HNC, infatti, ha posto diverse pre-condizioni alla sua partecipazione a Ginevra, a cominciare dall’interruzione delle operazioni militari del fronte lealista. Ciò nonostante, l’HNC ha intrattenuto alcuni colloqui bilaterali esclusivamente i rappresentanti delle Nazioni Unite e senza incontrarsi con i delegati del governo di Damasco. A quel punto, vista l’impossibilità di istituire un tavolo negoziale comune, l’Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la crisi siriana, l’Ambasciatore Italiano Staffan de Mistura, ha rinviando i colloqui al prossimo 25 febbraio.

Di fatto, questo ennesimo slittamento sembra essere fortemente legato ai recenti sviluppi sul campo di battaglia. L’atteggiamento poco incline al compromesso dell’HNC potrebbe, infatti, rappresentare un tentativo di guadagnare del tempo al fine di congelare il più possibile la situazione sul piano diplomatico in un momento in cui le forze ribelli appaiono in difficoltà difronte all’offensiva lealista. In particolare, negli ultimi giorni, l’Esercito siriano ha compiuto importanti passi avanti nella sua manovra di accerchiamento dei gruppi ribelli nel centro di Aleppo. Le operazioni si sono concentrate nei sobborghi settentrionali della città, dove il fronte lealista è riuscito a tagliare le linee di approvvigionamento ai ribelli provenienti dal territorio turco. Ad oggi, dunque, i soli canali di rifornimento tra Turchia e Aleppo passano dall’area occidentale della città.

Inoltre, sul fronte delle opposizioni, continua a pesare l’esclusione dai negoziati di qualsiasi rappresentante della componente curda siriana, nonostante le sue milizie continuino a svolgere un ruolo di primo piano nella lotta allo Stato Islamico nel nord del Paese. Come se non bastasse, i rappresentanti del Governo siriano continuano a contestare la legittimità della partecipazione alle trattative di alcuni gruppi inclusi nell’HCN. Ci si riferisce in particolare Ahrar al-Sham o Jaish al-Islam, entrambi vicini  alla costola siriana di al-Qaeda, Jabath al-Nusra.

Infine, sul piano internazionale, il ruolo di Assad nel futuro della Siria costituisce uno dei principali punti di contrapposizione tra i diversi attori coinvolti nello sforzo di pacificazione del Paese.

Se da un lato gli Stati Uniti, insieme a Arabia Saudita e Turchia, continuano a propendere per l’allontanamento del Presidente siriano, dall’altra parte Russia e Iran continuano a sostenere la necessità della tenuta del capo del regime alawita.

Ucraina

Il 3 febbraio, il ministro dell’Economia e del Commercio Aivaras Abromavicius ha rassegnato le dimissioni dichiarando l’impossibilità di portare avanti il pacchetto di riforme economiche e anti-corruzione inizialmente previsto dal programma di governo.

Nello specifico, il pacchetto legislativo proposto da Abromavicius è stato continuamente emendato e ostacolato nella sua approvazione da una porzione consistente di membri della Rada (Parlamento), in particolare da quelli appartenenti al partito del Presidente Petro Poroshenko (Blocco Petro Poroshenko, BPP). L’ormai ex-Ministro e banchiere di origini lituane, incaricato di riformare la struttura economica, finanziaria e ammnistrativa del Paese e depurarla dalle disfunzioni del passato sovietico, ha accusato diversi membri dell’esecutivo di opporsi al processo di rinnovamento e di voler continuare a governare il Paese secondo lo stile della vecchia nomenklatura. Inoltre, Abromavicius ha accusato l’establishment di averlo sottoposto a pesanti pressioni in merito alla scelta dei vertici delle imprese dello Stato.

Simili accuse sono state presentate anche da altri membri dell’esecutivo a dimostrazione della crisi e delle divisioni interne alla colazione di governo, che perde sempre più consensi e che minaccia indagini sul comportamento dei suoi rappresentanti.  Le dimissioni di Aivaras Abromavicius, che è già il quarto ministro dell’Economia ad aver abbandonato l’incarico, dimostrano la difficoltà nel processo di riforma delle strutture politiche e amministrative nazionali, dovuta alla reticenza di parte della classe dirigente.

Il pacchetto di riforme, che avrebbe agevolato l’apertura dell’ucraina al libero mercato europeo ed estirpare la viscerale corruzione, è legato ad un prestito di 17,5 miliardi di dollari concesso dal Fondo Monetario Internazionale. L’abbandono dell’incarico del ex-Ministro lituano potrebbe bloccare l’invio della terza tranche prevista dal FMI, indispensabile alla tenuta finanziaria delle casse dello Stato. Dopo le dimissioni di Abromavicius, gli eurobond ucraini sono crollati, mentre sono a rischio gli investimenti da parte di Stati Uniti e dell’Unione Europea, stimati per 40 milioni di dollari.

Il Paese, in crisi per la recessione e per la guerra nel Donbass, la cui soluzione appare ancora molto lontana, rischia di scivolare in una nuova spirale di instabilità. I recenti avvenimenti politici dimostrano la spinta riformatrice sia ancora molto osteggiata dalle forze conservatrici e dai tradizionali potentati economici del Paese.

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