La tutela del patrimonio culturale contro le minacce di tipo asimmetrico
Medio Oriente e Nord Africa

La tutela del patrimonio culturale contro le minacce di tipo asimmetrico

Di Francesco Lembo
19.10.2015

La notizia della devastazione del sito archeologico di Palmyra e dell’esecuzione del suo anziano direttore Khaled Asaad da parte delle forze dello Stato Islamico (IS) ha suscitato quest’estate lo sdegno e la riprovazione dell’opinione pubblica mondiale. La distruzione del sito patrimonio dell’UNESCO, sotto il controllo delle milizie dello Stato Islamico sin dal maggio scorso, è culminata agli inizi di settembre nell’abbattimento del tempio di Bel, esempio magistrale di architettura romana d’Oriente del primo secolo dell’età imperiale. Dello scempio di Palmyra si torna oggi a parlare a seguito della notizia diffusa dalla sovrintendenza siriana ai beni culturali sul crollo dell’Arco di Trionfo posto all’ingresso del colonnato.

Questi episodi sono gli ultimi di una lunga serie di devastazioni condotte a danno di numerosi siti d’importanza storico-artistica nella regione, fra cui si contano le mura dell’antica città di Ninive, capitale dell’impero assiro, il mausoleo di Giona e il sepolcro di San Giorgio a Mossul, luoghi di pellegrinaggio per i fedeli delle tre religioni monoteiste, nonché la reggia di Assurnasirpal II a Nimrud, i cui rilievi sono oggi conservati presso i maggiori musei del mondo.

Il motivo alla base di queste operazioni di distruzione intenzionale del patrimonio storico-culturale di Siria e Iraq è duplice. Da un lato, infatti, le forze dello Stato Islamico sono guidate da un intento iconoclasta, mirante a eradicare non solo la memoria dell’età pre-islamica, ma lo stesso dialogo fra Islam e altre culture di cui quegli stessi monumenti sono testimonianza. Ad esser colpita è la stessa idea che la storia possa avere delle stratificazioni, frutto dell’incontro e del susseguirsi di civiltà diverse.

A quest’obiettivo di cancellare il passato, si aggiungono poi ragioni economiche. Il commercio clandestino di reperti archeologici è una delle fonti di finanziamento dello Stato Islamico. L’opera di saccheggio compiuta a seguito dell’occupazione di siti d’importanza storico-culturale si conclude con la vendita sul mercato illegale di beni dal significativo valore economico a operatori provenienti per lo più da Paesi occidentali. Secondo fonti dell’INTERPOL, il giro d’affari di materiale artistico clandestinamente scambiato ammonterebbe a circa sei miliardi di dollari.

Tutto ciò reca un grave pregiudizio a un valore fondamentale della Comunità Internazionale, ossia la tutela del patrimonio culturale, divenuta una finalità non più rimessa alla sola azione degli Stati sui cui sono localizzati i beni storico-artistici, ma oggetto ormai di attenzione da parte di tutti, visto il valore universale che essi rivestono. La protezione del patrimonio culturale è dunque una questione di rilievo umanitario, come sottolineato di recente dal Direttore Generale dell’UNESCO, Irina Bokova.  Il suo scopo consiste nella difesa di un pluralismo identitario, espresso in una varietà di forme artistiche oggi messe in pericolo dal fanatismo terrorista.

Tuttavia, le convenzioni oggi in vigore in materia di protezione del patrimonio culturale non sono in grado di offrire un’adeguata risposta al problema del terrorismo. Esse sono state concepite per far fronte a rischi derivanti da calamità naturali o da eventi bellici di tipo convenzionale. Ad esempio, la distruzione dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan da parte del regime talebano nel 2001 non incontrò nessun ostacolo né tantomeno venne sanzionata a livello internazionale, poiché, pur essendo l’Afghanistan membro della Convenzione UNESCO di Parigi sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, l’azione distruttiva non si configurava, ai sensi del diritto internazionale, come un attacco armato, ipotesi che avrebbe consentito l’intervento dell’organo internazionale di controllo previsto dalla convenzione. Inoltre, la tutela prevista da queste convenzioni si applica ai beni situati solo negli Stati che ne fanno parte ai quali, peraltro, è richiesto di collaborare attivamente per assicurare un pronto ed efficace intervento della Comunità Internazionale qualora i beni risultino in pericolo. Ciò, evidentemente, contrasta con l’obiettivo di garantire una tutela universale al patrimonio storico-culturale il cui destino, purtroppo, rimane ancora legato a quello dei rispettivi Stati in cui è localizzato.

In sostanza, nei casi di devastazione intenzionale compiuta da gruppi terroristici non riconducibili agli apparati militari di uno Stato è piuttosto difficile garantire la tutela internazionale del bene e accertare la responsabilità internazionale degli autori. Lo stesso Statuto della Corte Penale Internazionale, pur prendendo in considerazione l’attacco ai beni culturali come una tipologia di crimini di guerra, esclude dalla sua giurisdizione quegli atti aventi matrice terroristica.  A questo si aggiunge la complessità di intervenire in contesti in cui il governo legittimo non è in grado di collaborare efficacemente con gli organismi internazionali, visti i suoi rapporti difficili con gli altri membri della Comunità Internazionale, nonché la sua incapacità di controllare effettivamente il territorio.

Dinanzi a questa grave lacuna, sono state avanzate delle proposte. Già a partire dal 2003, l’UNESCO in una sua dichiarazione ha enunciato la condanna della distruzione intenzionale del patrimonio culturale, da chiunque e in qualunque momento effettuata, nella speranza di avviare la formazione di una norma di diritto internazionale generale oggi inesistente. Più recentemente, nell’aprile 2015, ha formulato una risoluzione in cui si auspica l’istituzione di zone protette in caso di conflitti sia interni che internazionali all’interno delle quali si rendano operative le norme poste a tutela del patrimonio culturale previste dalle convenzioni attualmente in vigore. Si è giunti così alla dichiarazione del giugno scorso del Comitato del Patrimonio Mondiale, organo di controllo delle convenzioni UNESCO, che ha raccomandato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di vagliare l’estensione del mandato di future missioni di peacekeeping per includervi anche la protezione del patrimonio culturale. Fra i Paesi promotori di queste iniziative sta emergendo l’idea di creare in seno all’UNESCO una squadra di tecnici specializzati nella salvaguardia dei beni storico-artistici da utilizzare al fianco dei contingenti militari in occasione di interventi decisi dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in caso di minacce alla pace. Con un’espressione efficace, queste forze appositamente create e addestrate per intervenire durante e dopo i conflitti sono state definite caschi blu della cultura. Un possibile teatro di sperimentazione di questa formula potrebbe essere la Libia in cui un’eventuale missione sotto l’egida delle Nazioni Unite avrebbe anche lo scopo di difendere siti come quello di Leptis Magna.

Sul fronte del contrasto al commercio illegale di beni d’importanza storico-artistica, la convenzione UNESCO del 1970, sebbene largamente ratificata sia dai Paesi d’origine che da quelli di destinazione, è risultata poco efficace. Il suo limite principale consiste nella sua applicazione circoscritta ad oggetti già catalogati in cui ovviamente non rientra tutto il materiale proveniente da scavi clandestini; inoltre, se, da un lato, essa prevede che i Paesi d’origine dotino i beni oggetto di commercio di certificati di esportazione lecita, dall’altro, non impedisce, la circolazione sul territorio dei Paesi di destinazione di reperti privi di quella certificazione. Un regime di contrasto più efficace è stato introdotto con la Convenzione Unidroit del 1995 che sconta però la mancata ratifica di numerosi Paesi, per lo più quelli di destinazione. Essa richiede una serie di modifiche normative a livello nazionale per rendere il reato di vendita e acquisto illegale di beni storico-artistici uniformemente perseguibile in tutti i Paesi firmatari della convenzione, ma il processo di adeguamento dei sistemi penali nazionali procede ancora a rilento.

Infine, nella stessa direzione vanno anche alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che hanno prima obbligato nel 2003 gli Stati membri a facilitare la restituzione all’Iraq dei beni trafugati dal museo e dalla biblioteca nazionale di Bagdad a partire dal 1990 e, poi nel 2015, hanno imposto agli stessi di provvedere al sequestro e alla restituzione dei beni ceduti a seguito delle azioni terroristiche di ISIS e ANF in Siria e Iraq. È difficile, però, immaginare che si giunga presto a qualificare l’acquisto di questo materiale come vero e proprio finanziamento al terrorismo internazionale, come sarebbe logico pensare in base al rifiuto della Comunità Internazionale di accettare il libero commercio di beni saccheggiati in spregio di valori fondamentali, come la pace e la sicurezza internazionale e il rispetto dei diritti umani.

Articoli simili