Mar Cinese Meridionale: la partita di Pechino e Washington
Asia e Pacifico

Mar Cinese Meridionale: la partita di Pechino e Washington

Di Lorenzo Carrieri
27.09.2015

Le recenti tensioni tra la Cina e i suoi vicini, come le operazioni di dragaggio di migliaia di tonnellate di terra e sabbia volte a rafforzare le rivendicazioni cinesi su alcuni atolli, hanno riportato alla ribalta la questione delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
Rivendicazioni che oggi rappresentano una priorità strategica nell’agenda politica del Presidente cinese Xi Jinping e che preoccupano sia gli Stati rivieraschi (Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei su tutti, ma anche il Giappone) sia i loro alleati internazionali, su tutti gli Stati Uniti.

Pechino ha elaborato sin dal 1947 la dottrina della così detta nine dash line, linea immaginaria che segna il confine entro il quale la Cina rivendica la sua sovranità, e che copre quasi per intero la superficie del Mar Cinese Meridionale e buona parte di quello Orientale.
Tuttavia negli ultimi vent’anni, la crescita politica, economica e militare della potenza cinese, da un lato, e il contemporaneo rafforzamento degli Stati regionali, dall’altro, hanno reso la questione delle dispute marittime un dossier di primaria importanza per gli equilibri di un’area tanto strategica quanto questa porzione di oceano Pacifico.

Ciò è dovuto, da una parte, alla presenza di risorse nel sottosuolo (idrocarburi e il 20% delle risorse ittiche mondiali), dall’altra parte, all’importante collocazione geografica. Quest’area, infatti, a ridosso dello Stretto di Malacca è attraversata da circa metà delle rotte di navigazione che collegano Pechino al resto del mondo, e costituisce un fondamentale corridoio per il trasporto di merci e per il transito di risorse energetiche (il flusso di petroliere è sei volte tanto quello del Canale di Suez e addirittura diciassette volte quello del canale di Panama) provenienti da e verso il Mar Cinese Meridionale e Orientale.

Oltre al discorso economico, bisogna inoltre considerare l’interesse della Cina di mettere in sicurezza il proprio accesso al mare e garantirsi una maggiore profondità strategica e capacità di proiezione verso l’esterno. Tale dinamica è particolarmente evidente nel Mar Cinese Meridionale, in cui Pechino sta portando avanti una serie di misure volte ad alterare lo status quo regionale. Dal 2012, infatti, la Cina ha dato inizio ad un’intensa attività di bonifica e costruzione di piste di atterraggio, di piattaforme per l’attracco e di depositi per forniture alimentari, sia nell’arcipelago delle Spratly sia in quello delle Paracels. L’interesse di Pechino nel rivendicare la sovranità sui nuovi insediamenti trova la propria ragion d’essere nella volontà cinese di fare di queste installazioni degli avamposti permanenti. Le attività di dragaggio, infatti, sembrano rispondere all’interesse di Pechino di consolidare le sue rivendicazioni, ma anche quello di stabilirsi come la sola potenza regionale in grado di modificare i rapporti di forza e lo status quo regionale.

L’assertività della politica di Pechino trova la sua ragion d’essere nel perseguimento di una politica di proiezione di potenza e di influenza che passa, da un lato, attraverso la modernizzazione delle sue Forze Armate, in particolare la Marina, e il potenziamento dello strumento di deterrenza nucleare, concentrando la propria attenzione su una costituenda capacità di second strike, dall’altro, attraverso il peso economico e sociale che esercita sui Paesi limitrofi.

Tuttavia, l’atteggiamento di Pechino nel Mar Cinese Meridionale sta incontrando la forte resistenza sia di attori regionali, in primis Filippine e Vietnam, per i quali la strategia cinese in questa porzione di oceano Pacifico rappresenta una minaccia sostanziale ai propri interessi nazionali, sia degli Stati Uniti, i quali, in virtù dell’ormai noto Pivot to Asia, considerano oggi quest’area fondamentale per la definizione degli equilibri internazionali.

Il contenimento dell’espansionismo cinese in questa regione, dunque, è un interesse prioritario per Washington: il mantenimento della stabilità regionale, il rafforzamento dei rapporti economici e commerciali, il consolidamento di forme di cooperazione, bilaterali o multilaterali, in materia di sicurezza e Difesa, l’incremento della presenza militare statunitense nello scacchiere asiatico sono diverse declinazioni di una stessa strategia, che punta ad una riaffermazione della leadership americana nel Pacifico.

Oltre all’appello americano (e internazionale) al rispetto del diritto marittimo, report recenti confermerebbero, infatti, come nella stessa amministrazione di Washington le voci per un impegno più concreto si stiano facendo strada. Il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, considerato un falco rispetto al predecessore Hagel, si sarebbe detto favorevole ad inviare navi della Marina all’interno delle 12 miglia nautiche dello spazio reclamato da Pechino, oltre ad un controllo aereo per contestare la legittimità delle rivendicazioni cinesi. Washington infatti, oltre ai già citati piani di risposta alla così detta “grande muraglia di sabbia cinese” ha deciso di stanziare quasi il 60% della propria Marina militare nel Mar Cinese meridionale nei prossimi quindici anni. Nonostante l’intensificazione della presenza statunitense potrebbe portare ad un repentino inasprimento dei toni, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale e Orientale sembrano però destinate a rimanere ancora latenti nel breve periodo. Al momento, infatti, gli Stati Uniti sembrano preferire delegare le questioni più calde agli alleati regionali, puntando al tempo stesso ad una sorta di “internazionalizzazione del conflitto”, tramite le sedi diplomatiche e gli incontri bilaterali. Washington infatti si è lasciata andare, nelle ultime settimane, ad appelli che richiamano Pechino al rispetto del tribunale UNCLOS (United Nation Convention on the Law of The Sea) per salvaguardare il diritto alla navigazione e contenere l’espansionismo cinese nell’area.

Secondo la convenzione sopra-citata, gli stati possono rivendicare diritti esclusivi sulla pesca e le risorse naturali all’interno delle zone economiche esclusive, che possono estendersi fino ad un massimo di 200 miglia nautiche dalla costa continentale o intorno a isole abitate: risulterebbe così implicito come la rivendicazione cinese nel suo mar meridionale sia invalida secondo i dettami dell’UNCLOS. Nonostante l’improbabilità di un conflitto nel breve termine tuttavia, Washington guarda con preoccupazione alla costante ascesa di Pechino, che potrebbe, nei prossimi anni, diventare a tutti gli effetti una potenza in grado di controbilanciare l’influenza degli Stati Uniti sulla scena globale. Oltre alla costante ricerca della supremazia sulle vie di comunicazione marittime, Pechino sta cercando di sfruttare il proprio gigantismo economico per diventare il fulcro di un nuovo sistema di riferimento internazionale alternativo rispetto a quello fondato, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dagli Stati Uniti.

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