Variazioni sul grande gioco sino-americano: la
Asia e Pacifico

Variazioni sul grande gioco sino-americano: la

Di Laura Borzi
17.01.2012

Agli inizi di dicembre, il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton ha effettuato un viaggio di tre giorni in Myanmar. L’incontro con il Presidente Thein Sein assume un particolare rilievo perché potrebbe inaugurare una nuova era nelle relazioni bilaterali. Gli USA intendono misurare la profondità del processo di riforme economiche e politiche iniziato un anno fa e normalizzare le relazioni diplomatiche tra Washington e Naypyidaw.

Condizione essenziale è l’attuazione di un cambiamento democratico credibile nel Paese che ne faciliti la riabilitazione agli occhi della comunità internazionale e, in prospettiva, la fine delle sanzioni economiche occidentali che hanno fatto del Myanmar il cortile di casa della Cina.

Il Paese asiatico è stato governato dal 1962 da una dittatura che ha sempre duramente soppresso ogni forma di dissenso. Il governo della giunta militare si è reso responsabile di un diniego grave e sistematico dei diritti umani tra cui deportazione e lavoro forzato. Ha inoltre realizzato politiche fortemente inefficienti degradando l’economia di un Paese ricco di risorse naturali che rimane uno dei più poveri dell’Asia con oltre il 30% della popolazione sotto la soglia di povertà.

Nel novembre 2010 si sono svolte elezioni che, pur mantenendo nella sostanza al potere il partito dei militari-Union Solidarity Development Party - hanno rappresentato l’inizio di un cambiamento nello scenario politico. A questa consultazione non ha partecipato il maggior partito di opposizione il NLD (National League for Democracy) il cui leader e Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, è però stata liberata dagli arresti domiciliari cui era sottoposta dal 1989.

Nel corso del 2011, con la presidenza del generale Thein Sein, sono state prese misure limitatamente incoraggianti, sopratutto dopo il suo incontro ad agosto con San Suu Kyi. In autunno, infatti, è stata istituita una Commissione incaricata di occuparsi di diritti umani, sono stati rilasciati oltre 200 prigionieri politici, è stata varata una legge sui sindacati. Un blando allentamento della censura e una volontà espressa di un dialogo con le minoranze etniche, in perenne conflitto col governo centrale, completano le mosse del “nuovo corso” di un governo ancora solo nominalmente civile. A seguito di questi avvenimenti, il partito di San Suu Kyi ha deciso di chiedere l’iscrizione alle liste per la partecipazione alla consultazione elettorale per il Parlamento prevista per aprile. Il 13 dicembre, il NLD è stato ufficialmente legalizzato.

L’opposizione può godere adesso di uno spazio politico prima  inesistente. L’apertura di Thein Sein verso il NLD costituisce tutt’altro che una questione formale. La partecipazione del partito alle elezioni non metterà in pericolo il potere dell’esercito, cui la costituzione garantisce il dominio del Parlamento, ma conferirà legittimazione a quest’organo e, in prospettiva, alle istituzioni che via via vedranno la partecipazione del partito vincitore delle  elezioni nel 1990. La “riabilitazione” di San Suu Kyi, figura di grande prestigio internazionale, incontrata dalla Clinton a Yangoon, attenua in parte  lo scetticismo dell’occidente riguardo al percorso riformista. Il dialogo iniziato è però utile anche al NLD che necessita delle aperture dei militari per accedere alle istituzioni birmane. A Thein Sein e all’esercito non sfuggono i pericoli insiti nella transizione da un regime autoritario a una politica maggiormente liberale. Storicamente è difficile che il potere rimanga in mano a chi promuove il cambiamento. I riformisti di solito perdono il controllo dello Stato o per l’azione di un gruppo d’intransigenti, da cui vengono soppiantati, o perché il processo verso la piena democrazia giunge a compimento. In questo senso è possibile che il regime, consapevole della necessaria riduzione del proprio peso politico abbia cercato di bilanciare questa perdita tramite una gestione dell’economia in senso a lui favorevole. Le privatizzazioni, ad esempio, sono state portate avanti in modo tale da favorire il trasferimento, anche indiretto, degli assets ai militari. Ciononostante, le riforme economiche potrebbero diventare sostanziali. Il nuovo Presidente aveva parlato, nel suo discorso inaugurale al Parlamento, della necessità di ridurre corruzione e povertà, trovare soluzione ai conflitti tra minoranze etniche e governo centrale e di riformare l’economia. La politica di progresso democratico potrebbe attenuare l’isolamento internazionale, favorire investimenti esteri, compreso il sostegno tecnico da parte di istituzioni, come il FMI, che non incontrerebbero più l’opposizione di Washington. Per questo bisogna riabilitarsi agli occhi della comunità internazionale anche con il rischio di irritare il vicino cinese con decisioni audaci come la sospensione della costruzione della diga di Myitsone nel nord del Paese, progetto di Pechino da 3,6 miliardi di dollari fortemente osteggiato dalla popolazione locale.

La posta in gioco per il Myanmar è di grande valore: la presidenza dell’ASEAN nel 2014 e i vantaggi economici del libero scambio dal 2015. Prospettive concrete di uscita dall’estrema povertà per la maggioranza della popolazione sono condizione essenziale perché si materializzi, per l’attuale governo, un positivo risultato elettorale nel 2015. La stabilità del Paese in cui la maggioranza birmana (68%) ha costantemente represso le voci delle minoranze potrebbe arrivare per la strada delle riforme, più che per la via della repressione. La posizione di Washington è tuttavia improntata a un’estrema cautela tanto che, a settembre, il Congresso ha rinnovato per altri dodici mesi le sanzioni economiche.

Difficilmente ci saranno grandi aperture se i cambiamenti rimarranno, nelle parole di Obama, solo “fremiti di progresso”. La visita della Clinton a Naypyidaw ha suscitato una vasta eco anche a Pechino, perché era dai tempi di Foster Dulles nel 1955, che un esponente della diplomazia americana di tale rango non si recava nel Paese. Se non si può leggere questa mossa come un tentativo di scalzare la Cina in Myanmar è però comprensibile che l’amministrazione Obama intenda approfittare, nei limiti del possibile, del moderato vento di riforma in un Paese destinato, non fosse altro che per motivi geografici, a rimanere nell’orbita cinese. Pekino e Naypyidaw del resto condividono interessi economici rilevanti. Anche per questo la loro relazione rimarrà cordiale. La Cina, avvezza agli sporadici sussulti del nazionalismo birmano e non certo un alfiere della democrazia, non osteggia le riforme poiché non ha che da guadagnare da una maggiore stabilità interna in Myanmar.

Per delineare un profilo più indipendente da Pechino è utile dunque andare verso una diversificazione delle relazioni esterne. Controbilanciare la Cina in Myanmar con il peso di Washington è altra cosa. Un’operazione non prevista dalla geopolitica, né voluta da Naypyidaw.

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