Sudan, nuova ondata repressiva di al-Bashir sull’opposizione
Africa

Sudan, nuova ondata repressiva di al-Bashir sull’opposizione

Di Matteo Anastasi
14.07.2014

Il 18 maggio scorso l’arresto di Sadiq al-Mahdi ha inaugurato una nuova fase di repressione politica nel Sudan del Presidente Omar al-Bashir. Il fermo dell’anziano al-Madhi, leader del National Umma Party (NUM) e Primo ministro al momento del golpe di al-Bashir nel 1989, è stato giustificato con l’accusa di attentato all’ordine costituzionale. L’immediata conseguenza del provvedimento è stata l’interruzione del già complicato dialogo di riconciliazione nazionale formalmente voluto dal partito al potere, il National Congress Party (NCP), e al quale avevano aderito solo alcune compagini dell’opposizione, fra cui quella di al-Mahdi e il Popular Congress Party (PCP) di Hasan al-Turabi, padre ideologico del golpe del 1989.

Dopo l’offensiva contro il NUM, una seconda ondata di blitz a chiaro sfondo politico ha caratterizzato le prime settimane di giugno. In questo caso, il principale obiettivo degli arresti sono stati gli esponenti del Sudanese Congress Party (SCP) di Ibrahim Abdel Rahman, giurista famoso per il suo impegno nella difesa dei diritti umani, finito in manette assieme al carismatico leader del partito, Mohamed Yousif. Le motivazioni ufficiali degli arresti sono le consuete: attacco all’ordine costituzionale dovuto all’accusa, rivolta da Rahman alle Rapid Support Forces (RSF), di reiterato abuso di potere durante le operazioni militari promosse in Darfur e Kordofan meridionale. Le RSF sono una formazione para-militare governativa, costituita nel novembre 2013, composta da quei miliziani Janjawid da sempre coinvolti nella guerra del Darfur. Nei giorni immediatamente successivi al “j’accuse” di Rahman, il Presidente sudanese ha ordinato un ingente dispiegamento di forze coordinate dalla National Intelligence and Security Service (NISS) nella cittadina di En Nahud, nel Kordofan occidentale, dove l’attivista risiedeva fino all’arresto e dove il partito ha la sua vera roccaforte.

Le reali motivazioni dell’aggressione al SCP vanno, tuttavia, rintracciate altrove. Il partito ha visto crescere rapidamente il suo consenso negli ultimi anni, soprattutto fra la popolazione giovanile. Ad oggi, i giovani sono le vere mine vaganti per la stabilità del regime di al-Bashir, soprattutto per l’influenza che ha avuto su di essi la “Primavera Araba” e le rivolte popolari in Egitto e Libia. Appare evidente come un regime autocratico come quello sudanese, simile, per certi aspetti, all’Egitto di Mubarak e, soprattutto, alla Libia di Gheddafi, tema una sorta di “contagio” rivoluzionario con esiti imprevedibili. Le prime avvisaglie si sono avute tra il settembre e l’ottobre 2013, quando il regime ha deciso la sospensione dei sussidi petroliferi, con un raddoppio del prezzo del carburante. Al-Bashir ha giustificato i provvedimenti con la necessità di far fronte alla crescita dell’inflazione e all’instabilità dei tassi di cambio. Tuttavia, la reazione di piazza è stata veemente e guidata proprio dai giovani. Le studentesse dell’Università di Ahfad di Omdurman, uno dei maggiori centri culturali del Paese, hanno inaugurato una protesta presto soffocata dalla polizia con gas lacrimogeni. Simili manifestazioni hanno accompagnato l’intero autunno scorso, causando decine di vittime a causa degli scontri con la Polizia.

Tali eventi hanno messo in luce due fattori. Anzitutto il rapido peggioramento della già difficile situazione economica sudanese, che ha indotto al-Bashir alle contestate misure di austerity. La crisi è iniziata nel luglio 2011, quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza. Nei territori oggi sottoposti alla sovranità di Juba è concentrato il 75% delle riserve di greggio precedentemente gestite da Khartoum. Perdere il territorio sud sudanese ha significato per al-Bashir rinunciare a gran parte degli introiti che la vendita di petrolio (principale fonte di reddito nazionale) garantiva al Sudan.

Il secondo fattore è il ruolo che i giovani possono giocare nel favorire un cambio di regime. Per la prima volta le manifestazioni hanno unito la fascia di età 18-30, superando le differenze di classe o status sociale. Il regime se n’è reso conto e nel periodo più intenso della protesta ha introdotto forti limitazioni all’uso d’internet, privando i manifestanti dello strumento dei social media. Dunque, nel prossimo futuro, l’attivismo giovanile potrebbe favorire il SCP e gettare le basi per la formazione di un fronte unitario di opposizione ad al-Bashir.

La nuova ondata repressiva potrebbe aver aperto una crepa nel regime bashiriano. La reazione del NUM all’arresto di al-Mahdi si è concretata con il lancio di un nuovo appello per il raggiungimento di una cooperazione anti-regime: il dialogo, sia pure ancora in fase embrionale, si fonda sulla comune volontà di rovesciare al-Bashir e mira a coinvolgere tutte le forze di opposizione presenti nel Paese, facendo leva sull’onda emozionale suscitata dai recenti arresti. A tal proposito occorre chiedersi se esista, accanto a quella “ufficiale”, anche un’opposizione interna al regime.

Anzitutto i militari. Differentemente da quanto accaduto nel vicino Egitto, l’Esercito non sembra mostrare segni di cedimento, né infiltrazioni all’interno delle sue maglie. La piena adesione alle sanguinose repressioni deliberate da al-Bashir sembra essere la testimonianza della fedeltà delle forze armate al regime. Al contrario, all’interno del NCP iniziano a intravedersi importanti crepe. Proprio in seguito alle manifestazioni di protesta, circa trenta esponenti del partito di governo hanno preso le distanze dalla linea maggioritaria, ribattezzandosi “riformatori” e dando vita a una nuova formazione politica. Un simile cedimento, in seno a un élite che pareva compattissima sino a pochi mesi fa, potrebbe accelerare un processo d’implosione all’interno del regime.

Da questo complesso quadro non può essere escluso l’elemento jihadista che tipicamente trova terreno fertile nelle situazioni di disordine politico e di precarietà sociale, infiltrandosi talvolta le proteste contro il potere costituito. Il Sudan ha rappresentato, specialmente negli anni Novanta del secolo scorso, uno dei principali incubatori africani del terrorismo islamico e la turbolenta situazione che continua a profilarsi rischia di aprire nuove opportunità per le formazioni jihadiste. Al momento, gli obiettivi delle reti terroristiche riguardano soprattutto il reclutamento di nuovi miliziani da inviare nei fronti dell’Africa Orientale (Kenya, Etiopia e Somalia) e lo sfruttamento dei traffici di armi ed esseri umani. Per quanto riguarda gli aspetti puramente politici, al momento in Sudan non esiste una figura o una organizzazione jihadista in grado di guidare un’eventuale ribellione contro il governo centrale.

Il Sudan è stato sinora risparmiato dal contagio rivoluzionario che ha investito il Nord Africa. Tuttavia, come analizzato, gli elementi di disgregazione del regime al potere sono oramai molteplici: una popolazione logorata da quasi tre decenni di guerra e di privazioni, una classe dirigente al comando da venticinque anni e priva di una forte ed estesa legittimazione, un’acutissima crisi economica e lo shock provocato dalla divisione del Paese nel 2011. Si tratta di preoccupanti indicatori che spingono a credere in una non troppo lontana rivoluzione contro al-Bashir. Tuttavia, nonostante il malcontento popolare e le prime divisioni sorte all’interno del NCP, il fronte dell’opposizione manca di un vero leader capace di guidare le proteste e coagulare il dissenso. Infatti, tra i papabili, Al-Madhi ha oramai quasi 80 anni e difficilmente avrà la forza di caricarsi sulle spalle la responsabilità dell’opposizione, mentre Al-Turabi è una figura distante dai giovani e associata ai vecchi giochi di potere. Uno dei più accreditati a contrastare al-Bashir potrebbe essere Rahman, ma per scardinare il regime dovrà necessariamente scendere a patti con le gerarchie militari. Di contro, al-Bashir può contare sul potere dell’intimidazione e sull’attuale compattezza dell’apparato militare e di sicurezza. Tuttavia, la fedeltà di quest’ultimo si basa sulla capacità dell’establishment politico di garantirgli privilegi, influenza e mezzi di sostentamento. Se la crisi economica mettesse a repentaglio gli stipendi pubblici e lo standard di vita dei militari, i quadri intermedi della gerarchia militare potrebbero voltare le spalle al governo e unirsi ai manifestanti.

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