I differenti approcci di Stati Uniti e Cina in Africa
Africa

I differenti approcci di Stati Uniti e Cina in Africa

Di Sabella Festa Campanile
06.10.2013

La visita compiuta da Barack Obama nel giugno scorso in Africa ha riportato alla luce della ribalta il continente nero sulla scena statunitense. La sei giorni presidenziale tra Senegal, Sudafrica e Tanzania ha dato modo al presidente Usa di rinnovare l’impegno americano per lo sviluppo economico dell’Africa ma, soprattutto, è stato un modo per ribadire il valore strategico del continente in uno scenario geopolitico dove la Cina sembra prendere il posto degli Stati Uniti.

A Pechino, infatti, già dal 2008 appartiene il primato di maggior partner commerciale dell’Africa, il cui interscambio economico ammonta a circa 160 miliardi l’anno, superando di gran lunga quello con gli Stati Uniti. Pechino, inoltre, ha surclassato gli Stati Uniti anche nel settore degli investimenti sul territorio, grazie alla costruzione d’infrastrutture e di complessi per lo sfruttamento delle risorse.

Il viaggio di Obama ha voluto confermare, secondo l’interpretazione mediatica, l’intenzione di recuperare il terreno perduto, soprattutto nei confronti di una Cina sempre più incalzante e la volontà di essere presenti su un mercato, quello africano, in rapida crescita. Il progetto “Power Africa” presentato dal Presidente americano a Città del Capo il 30 giugno scorso e che prevede l’elargizione di 7 miliardi di dollari per rafforzare il rifornimento elettrico nell’Africa subsahariana è un chiaro esempio del tentativo americano di mettersi al passo con la Cina.

Ma non sono solo la corsa alle risorse e gli immensi interessi economici gli obiettivi del governo Obama.

L’Africa rappresenta sì un’opportunità economica ma anche una grande opportunità politica, per entrambi i colossi, quello americano e quello asiatico. Se il rifornimento di risorse, la lotta contro l’ascesa del terrorismo e la recente paura di essere estromessa da un mercato in promettente crescita, sono alcuni degli elementi chiave su cui si concentrerà la seconda amministrazione Obama, di altrettanta importanza è il ruolo rivestito dal Continente negli equilibri geopolitici mondiali.

Se è vero che la Cina ha assunto una posizione predominante in Africa, ramificando i suoi interessi in buona parte del continente e intrattenendo relazioni economiche con tutti e 54 gli stati (anche quelli che ancora riconoscono Taiwan), è pur vero che al netto degli scambi commerciali e delle logiche economico-finanziarie in determinati ambiti l’apporto cinese risulta ancora carente. In altre parole, l’atteggiamento di Pechino suggerisce il perseguimento di una politica estera strettamente concentrata sulla realizzazione dei propri interessi ossia, nel caso specifico, l’approvvigionamento delle risorse minerarie ed energetiche e il mantenimento della stabilità regionale finalizzato allo sfruttamento delle stesse.

Nonostante l’atteggiamento di rispetto e il supporto mostrato dai governi cinesi alle élite africane, il Dragone rosso non ricopre il ruolo di fornitore di stabilità e sicurezza e cede volentieri il passo agli Stati Uniti. A dimostrazione di ciò vale la pena ricordare che, sebbene la Cina sia il maggiore contribuente nelle missioni di pace ONU, essa non ha mai inviato truppe da combattimento. La stretta adesione di Pechino al principio di non-intervento preclude alla nazione la possibilità di interferire nelle politiche locali e dunque di partecipare ad azioni militari che non siano mirate all’autodifesa. In caso di pericolo, dunque, non è Pechino a correre in aiuto degli stati minacciati, bensì Washington. Così avvenne, per esempio, in Uganda quando le truppe locali con l’aiuto di Africom (comando africano degli Stati Uniti) s’impegnarono in operazioni militari per combattere l’Esercito di Resistenza del Signore, gruppo ribelle di matrice cristiana.

Lo stesso genere di interventismo è riscontrabile nelle azioni militari del 2009 in Somalia o in Mali e in altri stati ancora. Il coinvolgimento militare statunitense e la priorità data alla “guerra al terrorismo” sono alcuni degli aspetti che caratterizzano la relazione Stati Uniti-Africa e che la collocano in uno spazio differente da quello cinese.

Nonostante gli interessi economici e la “resource driven policy” siano un aspetto comune a tutte le presenze straniere nel continente nero, Washington e Pechino non conducono in Africa due esistenze che si accavallano del tutto, bensì occupano superfici differenti. Una, super potenza ancora in carica, concentrata sulla sicurezza e la “guerra al terrore”; l’altra, potenza emergente, impegnata nella corsa alle risorse e concentrata sulla “One China policy” (Esiste una sola Cina, Pechino e non Taipei), unica clausola da rispettare in cambio dei cospicui aiuti e prestiti incondizionati forniti al Continente africano. Dunque, sebbene la copertura mediatica della recente visita di Obama si sia concentrata sullo svantaggio statunitense rispetto ai cinesi e abbia ribadito la volontà di recuperare tale ritardo, le due nazioni vivono secondo logiche differenti.

Ciò non toglie che entrambe siano accomunate da crescenti interessi economici e che siano impegnate nel raggiungimento di questi ultimi nel più breve tempo possibile. Non è detto, però, che per il momento questo porti a uno scontro tra le due o a una resa dei conti in territorio africano.

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