Il difficile percorso della democrazia in Zimbabwe
Africa

Il difficile percorso della democrazia in Zimbabwe

Di Giulia Tarozzi
27.05.2013

Il 16 e 17 marzo scorsi si è votato in Zimbabwe per un’importante riforma costituzionale, preludio alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dopo cinque anni di governo di coalizione. La nuova Costituzione fa parte del Global Political Agreement (GPA), accordo firmato nel 2009 da Morgan Tsvangirai, leader del Movement for Democratic Change, e Robert Mugabe, alla guida dello Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (ZANU-PF).

Il referendum, che è passato con il 95% di voti, dovrebbe segnare un importante passo all’insegna della democratizzazione del Paese. Tra le misure inserite è importante ricordare l’introduzione di una “Carta dei Diritti” che tutela la libertà di espressione e l’eliminazione del veto presidenziale sulle proposte legislative. La riforma prevede che i decreti del Presidente dovranno essere sottoposti all’approvazione della maggioranza dei ministri, mentre per dichiarare lo stato di emergenza e lo scioglimento del Parlamento sarà necessaria la maggioranza dei due terzi dei deputati. Questa è sicuramente la novità più importante introdotta dalla nuova Carta, poiché impedisce al Presidente di dichiarare arbitrariamente lo stato di emergenza e dunque assumere poteri straordinari. In passato, Mugabe aveva più volte fatto ricorso a questo sistema per sospendere i diritti della popolazione e adottare misure autoritarie che gli hanno consentito di mantenere così a lungo il controllo sul Paese. Un’altra importante novità è l’introduzione di un limite di due mandati alla carica di Presidente. Il limite non sarà però retroattivo, dunque Mugabe potrà, se ne sarà in grado, riuscire nell’intento di governare il Paese a vita.

I timori degli osservatori internazionali sono però legati alla violazione delle nuove norme da parte delle Forze Armate e della Polizia, vicine al leader dello ZANU-PF, e dai membri del partito stesso. Tali preoccupazioni sarebbero supportate dal comportamento stesso di alcuni membri delle forze di sicurezza che, durante i giorni del referendum, hanno arrestato, senza specificarne i capi d’accusa, tre assistenti del primo ministro. Visti questi presupposti, la nuova Costituzione non pare essere una sufficiente garanzia allo sviluppo democratico del Paese.

Il Presidente Robert Mugabe è al governo dello Zimbabwe sin dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna, ottenuta nel 1980. Dopo aver estromesso gli europei dal potere e tolto loro le terre, Mugabe ha ridistribuito le risorse e le cariche istituzionali ai sostenitori del suo partito, reprimendo ogni forma di opposizione.

La crescita dell’inflazione e della disoccupazione durante gli anni ’90 ha contribuito alla nascita del Movement for Democratic Change (MDC), partito di opposizione guidato da Morgan Tsvangirai. Nel 2000, il MDC ha ottenuto un primo successo conquistando quasi la metà dei seggi del Parlamento e facendo fallire il referendum che avrebbe assegnato a Mugabe pieni poteri. Il passato da sindacalista di Tsvangirai gli ha consentito l’appoggio iniziale da parte delle principali unioni sindacali, la Commercial Farmers Union (CFU), lo Zimbabwe Congress of Trade Unions (ZCTU) e lo Zimbabwe Federation of Trade Unions (ZFTU). La scelta di non lottare contro l’esproprio delle terre agli europei e di dialogare unicamente con George Nkiwane, leader dello ZCTU, ha fatto di fatto incrinato i rapporti con gli altri gruppi e reso più difficile l’intento di Tsvangirai di riunire tutte le sigle sotto un unico ombrello. Una volta riuniti i sindacati minori sarebbero indotti a seguire le linee del sindacato più forte, lo ZCTU, legato il MDC, che pertanto si troverebbe ad avere un appoggio molto più forte alle prossime elezioni.

Al voto del 2008 lo ZANU-PF ha perso per la per la prima volta la maggioranza parlamentare e, nella corsa alla presidenza, Tsvangirai ha sconfitto Mugabe, pur non raggiungendo il quorum necessario per ottenere la carica. La reazione dei sostenitori del Presidente è stata tanto violenta che, dopo qualche giorno di disordini, il leader del MDC ha ritirato la propria candidatura e Mugabe è stato riconfermato al vertice del governo del Paese. Dopo mesi d’incertezza politica, nel settembre dello stesso anno è stato raggiunto l’accordo per la formazione di un governo di unità nazionale, che vede Mugabe capo di Stato e Tsvangirai Primo Ministro.

A prescindere dal risultato del referendum, a rendere difficile il consolidamento democratico dello Zimbabwe vi sono due fattori di destabilizzazione importanti: i continui contrasti tra Mugabe e Tsvangirai e le attività di protesta dei movimenti interni alla società civile. Dopo le turbolente elezioni del 2008, i due leader politici hanno firmato il GPA, con il quale si sono equamente suddivisi i ministeri dell’esecutivo. Nonostante questo, il MDC ha sempre lamentato comportamenti intimidatori da parte dei colleghi dello ZANU-PF, sottolineando che in queste condizioni l’accordo potrebbe non funzionare.

La repressione di ogni forma di dissenso è stata sempre possibile per Mugabe in quanto è lui a detenere il controllo delle Forze Armate e di Polizia. La sostanza dei fatti non è cambiata neanche dopo l’accordo del 2009, che assegnava allo ZANU-PF il controllo dell’esercito e a Tsvangirai quello delle forze di polizia. Nell’intesa, infatti, la supervisione della polizia rimaneva sotto la direzione del Ministero dell’Interno, assegnata al partito di Mugabe, che si rifiutava di cedere tale strategica posizione.

Il controllo del Presidente sulle forze di sicurezza è una minaccia al processo di transizione e al futuro democratico dello Zimbabwe, anche perché diversi vertici militari hanno affermato in più occasioni che non riconosceranno nessuno Capo dello Stato che non sia Mugabe. A ciò va aggiunto che l’autorità di Tsvangirai come Primo Ministro è continuamente messa in discussione dall’operato delle Forze di Sicurezza, che continuano a compiere arresti arbitrari, anche all’interno del suo partito, e a scontrarsi contro tutti coloro che dimostrano pubblicamente contro lo ZANU-PF.

Per i 33 anni in cui è stato al potere, Mugabe ha dipinto se stesso come l’eroe che ha liberato il suo popolo dalla minoranza bianca, un’immagine che fa parte della propaganda utilizzata come giustificazione all’incapacità di andare oltre la lotta al capitalismo e al colonialismo, che ha marcato i primi decenni del suo governo e portato il Paese al baratro economico. La realtà dei fatti, invece, è che molto probabilmente il Presidente non è ancora pronto a lasciare il potere: ogni tentativo di riforma proposto dal MDC è visto con sospetto e ostacolato continuamente attraverso continui abusi di potere da parte dei sostenitori dello ZANU-PF.

Le politiche autoritarie di Mugabe e la crisi economica del Paese hanno scatenato diverse proteste in seno alla società civile, per la cui origine occorre risalire a luglio 2000. In quel periodo Mugabe decise di dare il via a una riforma agraria che, tramite espropri, trasferì la maggior parte delle terre e delle aziende agricole commerciali, ancora proprietà dei bianchi, a piccoli contadini e grandi imprenditori agricoli. La sconfitta elettorale di quell’anno e la svolta populista e autoritaria che ne conseguì, fecero precipitare la situazione, dando il via a un circolo vizioso di repressione politica e di crisi economica che, con il passare degli anni, hanno portato il Paese sull’orlo della bancarotta, con un tasso di disoccupazione che ha toccato il 90%. A questa situazione si è andata sommando la crisi alimentare e l’epidemia di colera, che in pochi mesi ha ucciso più di 4,000 persone.

A fare da contraltare, acuendo la frustrazione della popolazione, vi è il fatto che lo Zimbabwe vanta uno dei tassi di alfabetizzazione maggiori di tutta l’Africa. Ad Harare la scolarizzazione ha fatto si che molti, soprattutto tra i giovani, siano in grado di analizzare i problemi del Paese e ricondurli, per la maggior parte, alla piaga della corruzione e della cattiva gestione delle risorse. Tutto ciò ha fatto scatenare negli anni diverse proteste il cui filo conduttore è sempre stato il rispetto dei diritti e la democrazia. In molti casi la risposta del governo è stata dura e i manifestanti, anche quando pacifici, sono stati dispersi violentemente.

Occorre poi analizzare le relazioni dello Zimbabwe nel contesto internazionale ed, in particolare, con i suoi vicini. I rapporti più stretti sono quelli con il Sudafrica, con il quale condivide un passato di lotta all’apartheid. La fine della segregazione razziale aveva fatto sperare nell’aumento dei rapporti economici tra i due Stati. Pretoria guardava con interesse ad Harare, ricco di risorse naturali, dotato d’infrastrutture relativamente moderne e una forza lavoro qualificata, e auspicava di poter implementare le proprie relazioni commerciali per potenziare il proprio ruolo nell’area. Se Mugabe si fosse rivelato simile al leader sudafricano Nelson Mandela, in grado di portare coesione sociale e armonia nel Paese, lo Zimbabwe avrebbe contribuito a rendere l’area meridionale del continente africano economicamente florida e politicamente più forte. I piani del Sudafrica, invece, sono stati alterati quando lo Zimbabwe è stato colpito dalla crisi economica e la sua popolazione ha iniziato a migrare in massa verso lo Stato limitrofo. Si stima che tra il 2006 e il 2009, gli anni peggiori della crisi zimbabwana e della repressione attuata da Mugabe, siano stati circa tre milioni quelli che hanno attraversato il fiume Limpopo e si sono riversati nelle principali città sudafricane, andando ad ingrossare le fila già piuttosto numerose dei disoccupati. La concorrenza degli immigrati zimbabwani, nel mercato del lavoro non specializzato, ha contribuito all’esplosione dei disordini a sfondo xenofobo che per settimane hanno incendiato le periferie sudafricane nel maggio 2008.

Nello stesso anno, l’allora Presidente del Sudafrica Thabo Mbeki ha assunto il ruolo di mediatore nell’accordo tra Mugabe e Tsvangirai, compito portato a termine l’anno seguente da Jacob Zuma, suo successore. Zuma è visto dal MDC come meno vicino alle posizioni di Mugabe di quanto non lo fosse Mbeki e, infatti, ha insistito affinché le riforme politiche venissero introdotte ancora prima della riforma costituzionale votata a marzo per implementare rapidamente la democratizzazione del Paese in vista delle elezioni. Le nuove regole dovrebbero favorire le forze democratiche e potrebbero portare a cambiamenti nello Zimbabwe che andrebbero a beneficio anche di Pretoria, in particolare sul versante immigrazione. Ciò sottolinea, ancora una volta, come gli interessi sudafricani siano intrecciati a quelli di Harare.

Va poi sottolineato come anche le politiche e la retorica anti-europea di Mugabe abbiano a loro volta influenzato, in Sudafrica, il pensiero di Julius Sello Malema, ex leader dell’African National Congress Youth League, ancora riconosciuto dai suoi militanti come figura di riferimento. Malema, contrariamente all’Amministrazione Zuma, promuove un programma politico radicale che comprende la nazionalizzazione delle miniere, l’esproprio forzato della terre ai contadini boeri e il recupero della lotta contro i bianchi, che ha contraddistinto gli albori dell’ANC. Le sue proposte hanno appeal in particolare nella zona del Limpopo, sua regione di nascita, e tra i giovani, che più di tutti hanno sofferto la crisi economica e la disoccupazione e guardano con ostilità verso i boeri e gli immigrati.

Il Sudafrica è la prima scelta per gli zimbabwani che fuggono dal proprio Paese per via della crisi o a causa del regime repressivo di Mugabe, ma il crescente sentimento xenofobo della popolazione sudafricana ha fatto sì che molti scegliessero di migrare verso lo Zambia o il Botswana. Quasi ogni giorno oltre 200 zimbabwani varcano il confine sud dello Zambia, dove non occorrono visti, e vanno ad ingrossare le fila del commercio sessuale, aumentando i poveri e i criminali del Paese.

Le relazioni con Lusaka sono state ostili soprattutto durante la presidenza di Rupiah Banda, che ha condannato senza mezzi termini le politiche di Mugabe. I due Stati stanno fronteggiando le stesse sfide e la stessa lotta alla povertà, ma l’attuale Presidente, Michael Sata, è più concentrato nel controllare l’influenza cinese nel suo Paese piuttosto che nel perseverare nella linea dura contro lo Zimbabwe. Pertanto è immaginabile che, per risolvere i problemi comuni, ancor più se alle future elezioni vincesse Tsvangirai, Lusaka e Harare potrebbero implementare le proprie relazioni politiche ed economiche.

Dal 2005 anche i rapporti con il Botswana si sono fatti tesi a causa della crisi dei rifugiati. Per arginare il flusso dei profughi, tra i due Paesi è stato eretto un lungo muro elettrificato. Anche in questo caso, la forte emigrazione zimbabwana ha scatenato atti di xenofobia, soprattutto perché gli emigranti sono per lo più lavoratori qualificati ma disposti ad accettare paghe nettamente più basse rispetto ai locali. Le relazioni con Gaborone sono ulteriormente peggiorate nel 2008, quando il leader dello ZANU-PF ha accusato il Presidente botswano, Seretse Ian Khama, di aver autorizzato l’addestramento di alcune milizie del MDC con lo scopo di far cadere il governo zimbabwano.

Per finire, bisogna considerare che nei confronti della comunità internazionale il governo autoritario di Mugabe ha portato lo Zimbabwe verso l’isolamento. L’Unione Europea, in particolare, ha posto diverse sanzioni nei confronti del Paese e del suo leader, che non può nemmeno entrare negli Stati membri. Le sanzioni sono state imposte a 91 membri dello ZANU-PF, Presidente incluso, e a 10 imprese locali, che non possono commerciare con il resto del mondo limitando, di fatto, la capacità economica del Paese. Dopo il GPA, nel 2009, l’Europa ha deciso di riprendere le relazioni diplomatiche con Harare, nella speranza che le forze democratiche di Tsvangirai influissero positivamente nel processo di transizione. Durante questo periodo, le sanzioni sono state allentate e, dopo l’approvazione della nuova Costituzione, l’UE ha sospeso le sanzioni contro 81 ufficiali e otto imprese dello Zimbabwe. Questo è un segno di quanto la comunità internazionale abbia apprezzato gli sforzi per un referendum pacifico e credibile, e di come le cose potrebbero ulteriormente migliorare se alle prossime elezioni Mugabe, al quale non è stato rimosso il divieto di accesso sul suolo europeo, venisse sconfitto. Per Tsvangirai, che da tempo si batte per riaprire il dialogo con Bruxelles, la risposta europea è stata un successo, su cui far leva anche per far ripartire l’economia del Paese.

L’approvazione della nuova Costituzione ha dato allo Zimbabwe un accenno di democrazia nella quale credere, ma il vero test saranno le elezioni di fine anno. Sebbene non si possa contare su votazioni completamente libere e scevre da brogli, il risultato che uscirà dalle urne sarà importante per la tenuta del sistema e il consolidamento della sovranità popolare. In particolare, la preoccupazione è che se Mugabe non dovesse ottenere la maggioranza dei voti potrebbe comunque decidere di ignorare il risultato delle urne e, forse, sovvertirlo attraverso l’uso della forza. Se ciò dovesse verificarsi, i tentativi di consolidamento democratico di Harare verrebbero vanificati.

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