Singapore, una perla del collier americano
Asia e Pacifico

Singapore, una perla del collier americano

Di Laura Borzi
07.09.2011

Le difficoltà finanziarie degli Stati Uniti hanno focalizzato, all’inizio del mese di agosto, l’attenzione  della comunità internazionale sui contraccolpi che avrebbe avuto il rischio default della prima potenza mondiale sull’ economia dell’intero  pianeta. La politica  interna, e in particolare l’economia, costituiscono  notoriamente  i temi principali su cui si impronta la battaglia per la Casa Bianca e le presidenziali del 2012 non dovrebbero rappresentare un’eccezione in tal senso. Questo ciclico   “ripiegamento” sui problemi interni genera talvolta, negli alleati di Washington, il timore che un periodo di isolazionismo, seppur necessariamente provvisorio, allenterà l’impegno diplomatico ed il sostegno militare in quelle aree dove la presenza americana è essenziale a garantire stabilità e ad inibire l’escalation delle crisi.

All’inizio di giugno, un mese prima di lasciare il Ministero della Difesa sotto la guida dell’attuale Segretario Leo Panetta,  Robert Gates si è recato a Singapore per un summit sulla sicurezza dove ha incontrato i Ministri della difesa di diversi Stati asiatici, tra cui il cinese, Gen. Liang Guanglie. In tale occasione ha ribadito l’impegno americano nell’area, malgrado le difficoltà economiche attuali ed i costi, in senso lato, dell’intervento in Iraq ed Afghanistan  che hanno  posto un freno alla volontà americana di intervenire in veste di gestore mondiale delle crisi, almeno laddove gli interessi da tutelare non siano di primaria importanza strategica.

L’impegno per Unified Protector, la missione NATO per la crisi libica è un buon esempio di come la potenza americana intenda “dosare” lo strumento militare e riservarlo a quei teatri dove il reflusso di Washington porterebbe serie conseguenze alla sicurezza nazionale. Una regione dove gli USA mantengono importanti interessi economici, politici e strategici è la zona dell’Asia-Pacifico. Per questo se è vero che, anche in relazione a questioni finanziarie, potranno evolvere le modalità dell’impegno nell’area, gli americani rimarranno presenti, soprattutto in termini militari. In questo sono incoraggiati dagli Stati della regione che, pur desiderosi di mantenere buoni rapporti con Pechino, vedono nella presenza USA una sorta di rassicurazione nei confronti dello sviluppo rapido della potenza cinese e della sua influenza.

La relazione sino-americana sembra oramai diventata l’elemento strutturante del XXI secolo. L’approccio alle questioni della difesa, per entrambi gli Stati, si è in parte orientato in questa direzione. A partire dalla Quadriennal Defence Review del 2006, la US Navy si è rivolta verso il Pacifico e dal 2010 più della metà della forza sottomarina e di superficie è stata dedicata a quest’area.

Malgrado l’amministrazione Obama abbia considerato una riduzione della  spesa militare (tagli di 400 miliardi di $ per il 2023),è stato messo in rilievo dal Pentagono come  le necessità rimangano legate al mantenimento della superiorità aerea, deterrenza nucleare, capacità di strike a lunga distanza, e accesso agli spazi marittimi. I programmi di modernizzazione sono rivolti alle principali sfide di sicurezza all’orizzonte, in particolare il prospetto che nuove armi e nuove tecnologie possano essere utilizzate per negare accesso alle linee di comunicazione marittime (SLOCs).

L’Ammiraglio Robert Willard, Comandante delle Forze americane nel Pacifico, ha dichiarato nel dicembre 2010 che la Cina ha raggiunto la fase di “capacità operativa iniziale “ del Dongfeng 21C, un missile balistico dotato di un radar attivo di ricerca e di un sistema di riconoscimento dell’immagine potenzialmente letale per le portaerei americane. Sembrerebbe infatti, in grado di raggiungere un Carrier Battle Group nel giro di dodici minuti dal momento del lancio. Questo missile è il pivot di una strategia incentrata sulle misure anti -accesso. Si tratta di bloccare le capacità d’azione dell’avversario nell’impossibilità di uguagliarne i mezzi.

Il DF21 è emblematico delle priorità cinesi, malgrado gli interessi di Pechino si estendano su scala mondiale: la questione di Taiwan ed il controllo dei  mari circostanti. Se la strategia  cinese è la neutralizzazione delle capacità americane di C4ISR (command, control, communications, computers, intelligence, surveillance, reconnaissance), Washington risponde focalizzandosi sull’Asia con investimenti dedicati agli aerei in grado di sfuggire ai radar, ai droni per la ricognizione, agli strumenti per la guerra cibernetica e armi spaziali.  In altri termini sviluppo delle capacità rilevanti al confronto con Pechino.

Ciononostante, sia Pechino che Washington sembrano aver chiaro che il conflitto aperto non porterebbe benefici alle parti. Una volontà di sviluppare relazioni -mil to mil- si è fatta strada recentemente, nella convinzione che  questo canale di comunicazione favorisca un seppur limitato dialogo, ma rimane  fortemente  inibita dalle divergenze proprio sulle questioni di sicurezza. Tra queste spiccano le obiezioni cinesi riguardo la vendita di armi a Taiwan, nonché le missioni americane aeronavali di ricognizione negli spazi internazionali al largo delle  coste cinesi.

Come osservato da Gates durante il  summit, scopo del Pentagono è  la definizione di una postura difensiva  nella regione del Pacifico che risulti “meglio distribuita geograficamente, più determinata dal punto di vista operativo e politicamente sostenibile”. Si tratterebbe di istituire un reticolo di basi più piccole però maggiormente disseminate con un rafforzamento dei punti di appoggio, in sostanza Guam e Diego Garcia, destinate a diventare una sorta di portaerei permanenti nell’area.

India, Australia e Singapore dovrebbero diventare scali ben più importanti di quanto non lo siano oggi. Se l’intesa con l’India è destinata a breve a rimanere informale non materializzandosi cioè in  una vera alleanza difensiva, con Canberra, dati i differenti legami storici e politici, verranno condivisi impianti nell’ oceano indiano. Dallo scorso anno inoltre è stato istituito un gruppo di lavoro per la strutturazione di una postura militare integrata tra Usa ed Australia. In previsione della crescita in senso lato, dell’Asia nei prossimi decenni è probabile che proprio l’Australia assumerà un importanza strategica crescente. Per quello che riguarda Singapore, la Marina americana stabilirà una nuova presenza nel porto di questa città-Stato a sud della penisola malese. Si tratta dell’ancoraggio permanente di due navi da combattimento di superficie, le LCSs ( Littoral Combact Ships).

A Singapore la US Navy ha già accesso regolare agli impianti della base aerea di Paya Lebar, dove si avvicendano i mezzi dell’USAF, e Sembawang Whaeves, come stabilito da un Memorandum di Understanding ( MOU) del 1990. Due anni dopo è stato qui istituito il comando logistico della VII Flotta (COMLOG WESTPAC), mentre nel 1999 lo stesso MOU ha subito emendamenti in modo tale da permettere l’ancoraggio delle navi nel porto di Changi, l’unica struttura del sud est asiatico in grado di ospitare una portaerei americana. Dal 2005, lo  “Strategic Framework Agreement” espande la cooperazione per la difesa e la sicurezza, coordina la lotta antiterrorismo, quella contro la proliferazione di armi di distruzione di massa e prevede una collaborazione in ambito tecnologico.

L’intesa impronta la cooperazione sul principio “places not bases” facilitando l’accesso dei mezzi  americani in rotazione agli impianti di Singapore  in modo da non sollevare sensibili questioni di sovranità. Non si tratta in altri termini di avere una base navale a Singapore, quanto piuttosto di ricercare una nuova forma di accesso, espressione dell’approccio per ottimizzare la presenza americana nella regione. In sostanza  rafforzare il network di accordi bilaterali di cooperazione militare volti a facilitare l’addestramento, le esercitazioni e l’interoperabilità del dispositivo militare con la configurazione di punti di appoggio disseminati. Washington cerca insomma  di incrementare gli scali portuali e gli sforzi multilaterali con i Paesi della regione per affrontare le minacce derivanti sopratutto dalle dispute territoriali pendenti nel mare della Cina del sud.

Tali dispute irrisolte, che in un ambiente  tanto dinamico e instabile, sono spesso causa di acute crisi diplomatiche, portano  intralci alla libertà di navigazione e possono degenerare in conflitto aperto per acquisire,  in via esclusiva,  i diritti di sfruttamento delle ricchezze dei fondali oceanici. Pechino preferisce trattare la questione con i claimant States in via bilaterale, laddove il suo peso politico può essere sfruttato al massimo. In un foro multilaterale invece, il ruolo stabilizzatore di Washington restringe i margini di manovra cinesi. Ma il reticolo di alleanze bilaterali intessuto dagli americani, un collaudato ed efficace modus operandi della diplomazia statunitense, oltre ovviamente allo stazionamento della VII Flotta, che rende inequivocabilmente gli Usa una potenza del Pacifico fa si che Pechino debba, in ogni caso, rapportarsi  con Washington.

Singapore ha sempre sostenuto la necessità di una forte presenza americana nel Pacifico  per  motivi commerciali e di sicurezza. Il volume del commercio nel 2010 è stato ripartito  tra 351,2 miliardi di $ in esportazioni e 310,4 miliardi di $ in importazioni. Il peso economico di questa città-Stato, strategicamente collocata sullo stretto di Malacca, è infatti inversamente proporzionale alla sua estensione geografica (647,5 km quadrati). La dipendenza dal  commercio internazionale,  nel senso di libero flusso di beni  e servizi, rendono il Paese un convinto assertore della stabilità regionale. Singapore è uno dei principali partner di Washington nell’Associazione degli Stati del sud est asiatico (ASEAN), ma mantiene forti legami anche con la Cina.

All’importanza della potenza economica cinese nella regione si affiancano legami culturali e politici di rilievo, tanto da far dipingere Singapore come un utile mediatore  tra le potenze dell’area. Una fama ben guadagnata da un Paese che, pur aderendo alla “one China policy”, intrattiene proficue relazioni con Taiwan, con un’agilità sempre attenta a non irritare Pechino. In una prospettiva di lungo periodo tuttavia, i legami con gli Usa, già importanti in ambito economico  si potrebbero rafforzare anche  nel quadro dell’attenzione che il Pentagono intende riservare al  Pacifico, pur in un momento in cui le questioni finanziarie pesano non poco anche sul bilancio della difesa.

Il focus su questa zona del pianeta rimarrà “robusto” secondo il Pentagono, ovvero adeguato ai rapidi cambiamenti di un equilibrio navale determinato dalle ambizioni  della Cina, la cui economia  in crescita ha effetti positivi diretti sulla progressione del budget della difesa.  In tal senso, lo stazionamento permanente di due LCSs a Singapore è la materializzazione della messa a punto delle capacità expeditionary, fondamentali per l’adattamento all’evoluzione del contesto internazionale attuale. Le LCS (con equipaggio massimo di 75 membri) sono imbarcazioni relativamente economiche atte ad operare nelle acque basse della costa. Sono utili a condurre operazioni multiruolo contro minacce aeree, di superficie e subaquee oltre che bersagli terrestri  ed operano sul concetto della modularità, “plug and fight”, disponendo di pacchetti di missione intercambiabili in base alle necessità di utilizzo.

Le acque di Singapore sono tra le più transitate linee commerciali del mondo, per questo l’accresciuta presenza americana è apprezzata in termini di messa in sicurezza delle SLOCs. Si tratta infatti della presenza di uno strumento militare particolarmente adeguato ad un ambiente dove la Cina non si mostra in grado di promuovere una “buona governance” tanto  vitale agli interessi di Singapore. Gli  Stati Uniti dal canto loro possono così disporre di un importante punto di appoggio poiché queste imbarcazioni richiedono un più frequente rifornimento rispetto alle navi dispiegate nel Pacifico che salpano dalla California o dal Giappone, per le quali il rifornimento avviene durante la navigazione. Le LCSs rafforzano la “dimensione  anti-Cina” poiché  potrebbero rappresentare,  la migliore soluzione per neutralizzare le capacità anti accesso in mari semichiusi proteggendo le forze anfibie e le unità logistiche americane che operano in acque poco profonde tra cui lo stretto di Taiwan.

Se il riequilibrio dell’economia mondiale porta il baricentro del pianeta verso l’Asia, questa evoluzione economica non ha ancora prodotto significativi effetti sulla sfera strategica. Infatti,  mentre la  strategia del filo di perle cinese è sopratutto commerciale volta a garantirsi risorse nel lungo periodo, il  reticolo di basi americane in Asia, che vanno dal Kirghizistan al Giappone è di natura  prettamente militare.  A ciò si aggiunga che l’alleanza informale che si va costituendo tra Australia, Giappone, India e Singapore rafforza i legami del “club americano in Asia”, un gruppo di Paesi sempre più favorevole all’occidente in quanto  diffidenti  del potere e dell’influenza cinese nel Pacifico.

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