La Primavera Giordana: tra spinte riformiste e crisi economica
Medio Oriente e Nord Africa

La Primavera Giordana: tra spinte riformiste e crisi economica

Di Silvio Mudu
03.12.2012

Le proteste esplose in Giordania nella notte del 13 novembre, contro il forte rincaro dei prezzi del carburante, sono continuate lungo tutta la settimana, raggiungendo l’apice nella serata del 16 novembre. Dopo la preghiera del venerdì, oltre 10.000 manifestanti sono scesi in piazza ad Amman, dove solo il dispiegamento delle forze di sicurezza ha impedito che venisse raggiunto il palazzo reale. Ulteriori manifestazioni si sono registrate nel campo profughi palestinese di Baqaa, dove 2.000 persone si sono scontrate con le forze di polizia, e in altre importanti città come Tafilah, Karak, Ma’an e Irbid. Il bilancio settimanale è di un manifestante morto a Irbid, in seguito agli scontri con la polizia, almeno settantuno feriti e 158 arresti.

Le rivendicazioni dei manifestanti hanno riguardato soprattutto le difficoltà economiche della classe media, oberata dalla crescente tassazione, e il progressivo sentimento di sfiducia della popolazione verso i dirigenti politici, corrotti ed incapaci di gestire il dialogo tra le varie componenti all’interno del Paese. La National Agenda, programma a lungo termine di cambiamento sociale, economico e politico messo a punto nel 2005, sembra essersi definitivamente arenata. Il progetto aveva come propositi il miglioramento della qualità della vita dei giordani, la costruzione di un’economia stabile, la garanzia delle libertà fondamentali dell’individuo, la promozione dei diritti umani, il rafforzamento della democrazia e del pluralismo politico e culturale. Il mancato raggiungimento di questi obiettivi non ha fatto che acuire l’insofferenza della popolazione.

Re Abdallah II, salito al potere nel febbraio del 1999, ha finora affrontato le proteste con moderazione. Sebbene parte dei manifestanti abbia per la prima volta spostato l’attenzione dall’elemento governativo a quello monarchico, la dinastia Hascemita conserva una forte influenza nel Paese e in tutto il mondo musulmano. La famiglia reale riveste un importante ruolo non solo politico, ma soprattutto religioso, vantando origini dirette dal profeta Maometto.

La monarchia ha sempre dovuto affrontare due principali problemi interni. In primo luogo la questione economica ed energetica. Il Paese, a differenza di gran parte dei suoi vicini mediorientali, non possiede risorse naturali di rilievo. La mancanza di petrolio nel suo territorio rende vitale l’approvvigionamento dalle pipeline provenienti dai Paesi del GCC (Gulf Cooperation Council) e dall’Egitto. L’economia giordana, oltre che dai servizi e dal turismo, dipende fortemente dagli aiuti occidentali, in particolare dagli Stati Uniti. La decisione del 13 novembre, con cui il Consiglio dei Ministri giordano ha tagliato i sussidi su gas e carburanti, è soprattutto figlia della crisi economica che da alcuni anni colpisce la Giordania. La misura governativa ha l’obiettivo di ridurre il deficit di bilancio statale e dare garanzie al Fondo Monetario Internazionale al fine di ricevere un consistente prestito da 2 miliardi di dollari.

La seconda questione che si è posta davanti ad Abdallah II è la frammentazione sociale e culturale del Paese tra tribù beduine indigene, circa due milioni di rifugiati palestinesi, oltre 200.000 profughi siriani e altri profughi tra cui libanesi e iracheni. La monarchia Hascemita ha risentito economicamente del consistente flusso di civili in fuga dai teatri di guerra circostanti che hanno sconvolto la regione negli ultimi decenni, come la guerra civile libanese, la Guerra del Golfo e, da ultimo, la guerra civile siriana. Tuttavia essa si è nutrita della frammentazione culturale, spesso sfociata in divisione politica delle opposizioni, per rafforzare il suo potere nel Paese.

Le recenti manifestazioni e la crisi economica sembrano però avere compattato le opposizioni, che s’identificano nel fronte islamista, nei movimenti laici giovanili e nella sinistra. L’Islamic Action Front (IAF), ala politica della Fratellanza Musulmana, è composto prevalentemente da discendenti dei profughi palestinesi e costituisce il principale blocco di opposizione nel Paese. L’islamismo giordano, così come quello egiziano, vede una marginalizzazione dei movimenti radicali. Le priorità dello IAF sono il rafforzamento della democrazia attraverso una maggiore rappresentanza politica, incluse le donne, e un maggiore pluralismo politico. Affianco al blocco islamista hanno manifestato nei giorni scorsi anche l’Hirak, movimento laico giovanile, e i partiti di sinistra come il Jordanian Democratic Popular Unity Party (JDPUP), di ispirazione socialista, e il Partito Comunista Giordano.

Si registra, inoltre, il malcontento di alcune tribù beduine nel sud, che costituiscono un importante pilastro del potere monarchico. La stabilità del Paese non può, infatti, prescindere dal sostegno dei leader tribali, insoddisfatti per l’inconsistenza delle riforme e la promozione di un nuovo ceto medio imprenditoriale urbano a connotazione giordano-palestinese.

La monarchia è accusata di accentrare nelle sue mani gran parte delle funzioni amministrative. Il potere esecutivo è detenuto dal re e dal suo Gabinetto, il cui Primo Ministro è nominato dal sovrano. Il re firma le leggi, nomina e rimuove i giudici, può revocare i ministri, approva gli emendamenti alla Costituzione ed è il capo delle Forze Armate.

Per far fronte alle più grandi sfide economiche e politiche dei suoi 13 anni di regno, lo scorso ottobre Abdallah II ha deciso di indire nuove elezioni per il prossimo 23 gennaio. Le consultazioni elettorali si terranno sotto la supervisione dell’ex Ministro degli Esteri ed inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Abdelilah al-Khatib, figura di assoluto prestigio in Giordania.

Oltre alle rivendicazioni economiche, le opposizioni hanno trovato un punto comune di lotta all’establishment proprio nelle istanze di riforma della legge elettorale. Lo IAF sostiene che i due emendamenti, apportati lo scorso luglio alla legge elettorale del 1993, siano insufficienti e non garantiscano una piena rappresentanza della popolazione. La riforma amplia il numero di seggi da 120 a 150 e consente all’elettorato di dare un voto per il rappresentante del distretto e un voto per le liste nazionali, contrariamente al precedente sistema in cui era possibile un unico voto non trasferibile. Tuttavia l’attuale legge attribuisce solo 27 seggi (il 18% del totale) alle liste nazionali, mentre i partiti di opposizione pretendono che venga assegnato il 50%.

Appare probabile che il Governo, presieduto dal Primo Ministro Abdullah Ensour, punti a conservare il sistema elettorale one man - one vote, con una ridotta percentuale di seggi da assegnare alle liste nazionali, in modo da ostacolare la crescita dei partiti politici, finora marginali, e il superamento delle fratture sociali. Inoltre, le opposizioni ritengono che l’attuale legge elettorale potrebbe rafforzare i sostenitori della monarchia, dando per la prima volta la possibilità di votare ai membri delle forze di sicurezza, prevalentemente composte da esponenti delle realtà beduine vicini alla monarchia, e destinando tre ulteriori seggi alle donne dei distretti beduini.

Per tutta questa serie di ragioni gli islamisti dello IAF, i socialisti del JDPUP e altri gruppi minori hanno deciso di boicottare le elezioni, dal momento che non le considerano uno strumento utile a portare avanti gli interessi delle opposizioni nel Paese.

La monarchia Hascemita, l’Esecutivo guidato da Abdullah Ensour e l’establishment lealista dovranno tenere in considerazione le pressioni dei movimenti di opposizione. Qualora le consultazioni elettorali venissero tenute in assenza della partecipazione delle opposizioni non genererebbero alcuna svolta riformatrice, approfondendo semmai il malcontento e le proteste antigovernative.

Nel tumultuoso contesto della Primavera Araba, caratterizzato dal crollo dei regimi in Tunisia, Egitto e Libia, dalla guerra civile siriana e dagli scontri in Yemen e Bahrein, la Giordania ha finora visto la crescita di un movimento di riforma, non rivoluzionario, che chiede un cambiamento sociale e politico. Sebbene aumentino le fila di coloro che chiedono il superamento della dinastia Hascemita, sembra comunque che il principale motore delle ultime proteste siano le rivendicazioni economiche e la crescente sfiducia verso la classe politica.

La crescita del movimento islamista, sulla scia di quanto accaduto in Egitto, il flusso di profughi siriani e la grave crisi economica costituiscono fonti di pressione per la sicurezza interna e la stabilità della monarchia. La Giordania è un Paese cardine negli equilibri geopolitici del Vicino Oriente e rappresenta un importante alleato americano nella lotta al terrorismo. La gestione della crisi da parte di Abdallah II e il grado di apertura al dialogo con le opposizioni avranno importanti ripercussioni politiche non solo ad Amman ma nell’intero quadro mediorientale.

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