ATLAS Iraq, la nomina del nuovo Premier non ferma le proteste

ATLAS Iraq, la nomina del nuovo Premier non ferma le proteste

Di Veronica Conti e Emanuele Oddi
06.02.2020

Iraq: la nomina del nuovo Premier non ferma le proteste

Il 1° febbraio Mohammed Tawfiq Allawi, già Ministro delle Comunicazioni nel 2006 e nel 2010, è stato nominato Primo Ministro. L’incarico gli è stato affidato dal presidente Barham Salih, a seguito delle dimissioni dell’ex Premier Abdel Abdul Mahdi nel novembre 2019. Allawi ha ora un mese di tempo per la formazione di un nuovo esecutivo e, soprattutto, per cercare di trovare una maggioranza in Parlamento.

I movimenti di protesta, che agitano il paese dall’ottobre 2019 e avevano indotto Mahdi alle dimissioni, hanno rigettato in blocco la nomina di Allawi. Il politico sciita invece ha riscosso l’approvazione dei due partiti maggioritari, guidati da Muqtada al-Sadr e Hadi al-Amiri, entrambi esponenti del frammentato fronte sciita. Tuttavia, per raggiungere la maggioranza dei voti (165 su 329), Allawi dovrà riuscire a convincere anche partiti minori, a partire dalle formazioni sciite al-Hikma di Ammar al-Hakim e l’Alleanza Nasr dell’ex Premier Haider al-Abadi.

Un compito complesso sia per le tensioni tra i vari partiti, sia per le continue pressioni della piazza. Infatti, i contestatori accusano il nuovo Premier e i suoi alleati di non avere la volontà di scardinare quel sistema clientelare e corrotto che è il primo bersaglio delle proteste. Inoltre, i manifestanti vedono Allawi come un politico troppo permeabile all’influenza iraniana, in perfetta continuità con il predecessore Mahdi.

D’altronde, anche Allawi sembra essere “consigliato” da Mohammed al-Hashemi, meglio conosciuto come Abu Jihad, già Capo di Gabinetto del Premier nel precedente governo. In questo senso, un ulteriore profilo di vulnerabilità per il nascente esecutivo Allawi è la ricerca di un equilibrio tra gli interessi di Teheran e l’approccio più muscolare mostrato da Washington negli ultimi mesi nell’ambito della campagna di “massima pressione” contro la Repubblica Islamica, che ha toccato il suo apice con l’uccisione del Generale iraniano Qassem Soleimani e del suo pro-console iracheno Abu Mahdi al-Muhandis il 3 gennaio scorso.

Siria, si riaccende lo scontro per Idlib

Lo scorso 3 febbraio, 8 soldati turchi sono stati uccisi dalle truppe governative siriane nella città di Saraqib, nella provincia nordoccidentale di Idlib. L’attacco fa parte di una più vasta offensiva dei lealisti di Damasco su Idlib, iniziata lo scorso dicembre. La provincia è l’ultima parte dell’ovest del Paese ancora controllata da gruppi armati ribelli, in gran parte jihadisti. Un piccolo contingente turco è dispiegato nell’area di Idlib dalla fine del 2018, quando Ankara e Mosca, in qualità di sponsor rispettivamente dei ribelli e dei lealisti, avevano siglato un accordo per il cessate il fuoco. I soldati turchi quindi erano presenti con funzione di monitoraggio della tregua.

Benché il cessate il fuoco sia stato violato decine di volte nei mesi passati, l’offensiva in corso rischia di far saltare completamente gli accordi russo-turchi. Infatti, la provincia di Idlib ha un’importanza strategica per la Turchia, che usa il suo supporto ai ribelli come leva negoziale per condurre la partita diplomatica insieme alla Russia. Inoltre, Saraqib è uno snodo fondamentale per il controllo dell’area, sia perché è all’incrocio tra le due principali arterie stradali che connettono i centri urbani dell’ovest (la M4, tra Latakia e Aleppo, e la M5 tra Aleppo e Damasco), sia perché si trova a pochi chilometri dal capoluogo. L’avanzata dei lealisti può quindi rendere insostenibile la presenza militare turca e costringere i gruppi ribelli a ritirarsi verso il confine.

Date queste premesse, la ricerca di un nuovo accordo tra Ankara e Mosca appare molto complessa. La Turchia non può accettare di perdere influenza su Idlib, su cui poggia gran parte della forza diplomatica di Ankara, mentre la Russia, che ha come priorità la stabilizzazione del Paese per ridurre il suo coinvolgimento militare, deve bilanciare l’esigenza di riconquista integrale del territorio siriano da parte di Damasco con la necessità di non esacerbare i rapporti con un Paese, la Turchia, che condivide più di mille chilometri di confine con la Siria ed è cruciale per la stabilità del nord siriano.

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