Russia, dalla Siberia soffia il vento della protesta anti-Putin
Tra l’11 e il 13 settembre, 35 milioni di elettori russi, circa un terzo degli aventi diritto al voto, sono stati chiamati alle urne per eleggere i governatori regionali ed i membri delle assemblee comunali e regionali. Il partito di Governo, Russia Unita, di cui il Presidente Vladimir Putin è il leader, si è riconfermato vincitore nella maggior parte delle regioni, ma ha perso la maggioranza nei Parlamenti locali di Tomsk e Novosibirsk, nella Siberia occidentale, dove si sono affermati movimenti di opposizione alleati di Alexey Navalny, il leader politico dei partiti anti-establishment. Questa vittoria ha un grande valore politico e simbolico, in quanto è stata ottenuta nonostante i numerosi brogli elettorali e malgrado l’avvelenamento di Navalny dello scorso 20 agosto. Dunque, quanto accaduto al capo dell’opposizione non solo non ha spaventato i suoi sostenitori ma, al contrario, ha probabilmente suscitato l’indignazione dell’elettorato contro il Cremlino, accusato di essere il mandante del tentato omicidio. Se la macchina elettorale di Mosca, spesso avvezza a pratiche di falsificazione del voto, ha preferito concedere la vittoria alle opposizioni, vuol dire che, probabilmente, i numeri da esse ottenuti erano ancora più alti rispetto ai dati ufficiali. Inoltre, il risultato complessivo delle elezioni locali lancia numerosi campanelli d’allarme verso la tenuta del sistema putinista che, negli ultimi mesi, è in balia del suo momento di peggior crisi.
Significativo è il fatto che la conquista dei seggi da parte dell’opposizione sia avvenuta al di fuori delle città di Mosca e San Pietroburgo, dove l’elettorato tende ad essere più liberale rispetto alle altre regioni ed i movimenti di protesta generalmente più radicati. Nel 2019, ad esempio, in occasione delle elezioni amministrative, Russia Unita ha vinto al primo turno tutti in tutte le 16 regioni chiamate al voto, mantenendo saldo il suo dominio. Tuttavia, in quell’occasione, il partito di Governo ha perso circa un terzo dei seggi nella Duma di Mosca. Anche se i seggi sono stati vinti dalla cosiddetta opposizione “sistemica”, vale a dire quella accettata tacitamente dal Presidente e sostanzialmente allineata alle posizioni del Cremlino, il risultato è stato comunque classificato come una sconfitta per il partito di Putin, anche perché all’opposizione vera, quella di Navalny, era stato impedito di parteciapre dalla Commissione Elettorale.
La crescita del malcontento popolare è stata visibile non solo attraverso le urne, ma anche per le strade di importanti città del Paese. Ad esempio, di particolare rilevanza sono state le proteste dei cittadini di Khabarovsk, nell’Estremo Oriente russo, al confine con la Cina. In quell’occasione, i manifestanti avevano condannato la rimozione del governatore Sergei Furgal, rimosso dal suo incarico con la dubbia accusa di aver commesso degli omicidi prima dell’inizio della sua carriera politica ma in realtà pioniere di un repulisti dei corrotti nella pubblica amministrazione locale. Ciò che ha stupito è stato che alle proteste hanno preso parte decine di migliaia di persone, non solo giovani ed esponenti della classe media, ma anche operai e pensionati, tradizionalmente lo zoccolo duro del supporto al Cremlino. Di fatto, seppur la richiesta principale riguardasse Furgal, non sono mancate proteste indirizzate contro lo stesso Putin. Della stessa natura anti-putiniana sono state anche altre manifestazioni avvenute nelle città di Komsomolsk-na-Amure e Vladivostok, località afferenti alla regione orientale russa.
Il rafforzamento del fronte di opposizione in Russia è nato dalla convergenza del malcontento politico verso il Cremlino con il peggioramento della situazione economica generale del popolo, particolarmente acuta proprio nelle regioni orientali del Paese. Già nel 2018, l’Estremo Oriente era classificato dalla World Bank come una delle regioni meno sviluppate della Russia, avendo il PIL regionale più basso. Nel tempo, il disinteresse di Mosca per le sue periferie e la mancanza di un adeguato piano di finanziamento e ristrutturazione infrastrutturale ha condotto a sottosviluppo e declino demografico. Inoltre, l’economia locale si basa sull’estrazione di metalli, minerali e petrolio, la cui domanda è crollata a causa dell’impatto globale della pandemia di covid-19 e della guerra dei prezzi del greggio tra Russia ed Arabia Saudita. Di conseguenza, le imprese hanno conseguiti minori utili e sono state costrette a drastici tagli al personale, in linea con le misure di austerity adottate da tutta la Federazione.
Una dinamica simile ha colpito anche Tomsk e Novosibirsk. Infatti, se si considera anche l’economia della Siberia occidentale, si può comprendere come il voto nelle due città possa essere classificato come “voto di protesta” nei confronti di un sistema socioeconomico disfunzionale. La regione, infatti, rappresenta uno dei più grandi bacini mondiali di petrolio e gas, contribuendo per il 91% alla produzione nazionale gasiera e per il 68% a quella petrolifera. Ovviamente, la produzione di entrambi è stata frenata a causa della pandemia, ma un duro colpo è stato subito anche dal settore manifatturiero, che la World Bank stima si sia contratto del 10% in Russia. Novosibirsk rappresenta il centro nevralgico della regione di tale settore e ha dunque sofferto gravemente della contrazione.
Questo trend è stato esacerbato dal contesto generale dell’economia russa, caratterizzata da stagnazione e politiche di sviluppo inadeguate. La maggior parte degli introiti che compongono il budget federale, con il quale viene finanziata la spesa pubblica, derivano dall’export di materie prime ed idrocarburi. Con l’arrivo della pandemia ed il crollo della domanda di petrolio, l’economia russa ha assistito all’impennata del tasso di disoccupazione e al crollo del rublo. Questi due avvenimenti, uniti ai tagli alla spesa pubblica, hanno colpito duramente le fasce più vulnerabili della popolazione. In questo contesto, la popolazione russa deve anche fare i conti con la dimensione domestica dell’epidemia di covid-19, che pone il Paese tra i più colpiti al mondo ed ha avuto un costo umano ed economico altissimo.
Il patto sociale su cui il sistema putinista si regge, ovvero quello della prosperità economica in cambio dell’accettazione di un sistema politico autoritario, potrebbe sfaldarsi a causa della cessazione di uno dei suoi vincoli. Infatti, è da sottolineare che la situazione socioeconomica che si presenta nella Siberia occidentale e nell’Estremo Oriente russo è comune a molte altre regioni. Proprio questa corrispondenza e la presenza diffusa del malcontento a livello nazionale potrebbero generare una crisi di contagio, portando l’onda lunga delle manifestazioni della Siberia e dell’Estremo Oriente fino a Mosca e San Pietroburgo.
In questo senso, Putin farebbe bene a ricordare la storia del suo Paese. Infatti, tra i fattori che hanno portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica hanno giocato un ruolo fondamentale la stagnazione economica, il dissenso verso un sistema corrotto e forme di ribellione nate proprio nelle varie repubbliche periferiche, tra cui i Paesi Baltici. In sintesi, le province siberiane ed orientali potrebbero essere per la Russia quello che i Baltici furono per l’URSS.
Un rischio da non sottovalutare, soprattutto se si considera che, negli ultimi anni, le ex Repubbliche sovietiche sono state protagoniste di proteste popolari che hanno portato all’esautorazione o alla crisi dei sistemi autoritari filo-russi, come ad esempio l’Ucraina del 2014 e la Bielorussia del 2020. Gli avvenimenti a Kiev e Minsk spaventano il Cremlino non solo per il rischio che tali Paesi escano definitivamente dalla sfera di influenza russa, ma soprattutto perché, vista la prossimità culturale e sociale con Mosca, servano da esempio per una popolazione russa sempre più disillusa, scontenta ed impoverita.
Per far fronte ad un rischio simile, Putin ha cercato di riguadagnarsi la fiducia dei suoi sostenitori, in calo ormai da due anni. A tal proposito, è stata accelerata la corsa al vaccino contro il covid-19 ed è stata approvata una riforma costituzionale lo scorso luglio. Quest’ultima, in particolare, oltre a garantire al Presidente la possibilità di potersi ricandidare per altri due mandati consecutivi, rimanendo di fatto al potere fino al 2036, prevedeva la garanzia del salario minimo e l’indicizzazione delle pensioni, vale a dire la loro rivalutazione monetaria in base all’inflazione e al costo della vita. Tuttavia, ciò non è bastato a colmare il malcontento della classe medio-bassa urbana, che rappresenta uno dei pilastri del consenso di Putin, enormemente spossata dalla pandemia e dalla perdita del potere di acquisto. Nonostante l’evidente insofferenza delle province, il Cremlino sembra preoccuparsi seriamente delle contestazioni soltanto quando avvengono a Mosca o a San Pietroburgo. Entrambe le città, infatti, non solo producono la maggior parte del PIL nazionale, ma soprattutto sono il cuore del potere e delle oligarchie dominanti, i cui interessi particolari spesso prevalgono sul benessere della popolazione nel suo insieme. .
La Russia è spesso identificata come un monolite inscalfibile governata da Putin, ma gli elementi in grado di innescare la “tempesta perfetta” sono tutti presenti. Gli scenari che si potrebbero profilare sono essenzialmente due. Il primo prevede che Putin continui a gestire il malcontento tramite un mix di repressione violenta e piccole concessioni, in attesa che l’eventuale miglioramento della situazione economica permetta politiche pubbliche espansive ed elargizione di sussidi. Il secondo è provare a negoziare con le opposizioni, accettando una timida apertura delle istituzioni ai movimenti di protesta e provare a disinnescarli inserendoli nell’elefantiaca macchina burocratica statale. In entrambi i casi, tuttavia, la stabilità russa corre sul filo del rasoio più di quanto in Occidente possa apparire.