La debolezza dello Stato Islamico e le nuove minacce
La notizia dell’arresto del nuovo Califfo dello Stato Islamico (IS o Daesh) Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi da parte delle forze di sicurezza turche ha riacceso i riflettori sull’organizzazione terroristica. Secondo l’emittente Oda TV, la prima a diffondere l’informazione, il blitz sarebbe avvenuto a fine maggio durante un’operazione congiunta tra antiterrorismo e intelligence turca ad Istanbul, dove era stata individuata un’abitazione come nascondiglio di al Qurashi. Il leader, il cui vero nome sarebbe Juma Awad al-Badri, era stato nominato dall’organizzazione poco più di due mesi prima, dopo la morte del predecessore in un raid statunitense in febbraio.
Dal punto di vista turco la cattura del leader di IS risulta un asset fondamentale, più simbolico che operativo, per il consolidamento della posizione di Ankara nello scacchiere internazionale. Da tempo la Turchia cerca di ricostruire quella affidabilità che si è sgretolata negli ultimi anni sia con la NATO che con i Paesi europei, come dimostrano anche i ripetuti sforzi nel presentarsi come potenziale mediatore nel conflitto ucraino lo scorso marzo. Il successo dell’operazione contro al-Qurashi rappresenta quindi un’opportunità per la Turchia di presentarsi come attore credibile nella lotta al terrorismo internazionale, lasciando spazio di manovra ad Erdogan per avanzare le proprie richieste ai paesi europei in materia di sicurezza – in primis, riguardo alla posizione di alcuni di questi rispetto al PKK.
Per quanto riguarda invece lo Stato Islamico, gli eventi recenti spingono a chiedersi se la vulnerabilità dei vertici dell’organizzazione debba essere letta come il requiem a distanza di tre anni dal suo collasso territoriale in Siria e in Iraq. Dopo la morte del leader storico, Abu Bakr al-Baghdadi, in un raid nell’ottobre del 2019, lo scorso febbraio l’organizzazione ha infatti perso anche il suo successore, Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi, il quale si era fatto esplodere durante un blitz statunitense. L’arresto di Abu Hasan al-Hashemi al-Quraishi a Istanbul è stato inoltre seguito, il 16 giugno, anche dalla cattura di uno dei principali leader di IS in Siria da parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Tuttavia, nonostante questi eventi rivelino la fragilità strutturale di un’organizzazione che fatica sempre di più a eludere le operazioni di controterrorismo e riaffermarsi nella sua dimensione globale, IS continua a rappresentare una minaccia, ma secondo parametri diversi da quelli del passato. Sin dalla sua nascita, lo Stato Islamico ha compreso l’importanza di muoversi su due assi differenti e complementari: da una parte, sfruttare le risorse di rete, utili a diffondere contenuti propagandistici, reclutare nuovi simpatizzanti e costruire e organizzare un network stabile; dall’altra, inserirsi in teatri caratterizzati da conflitti, fenomeni di insorgenza locale o crisi sistemiche in cui il jihad può potenzialmente diventare cornice ideologica e politica di una rivolta armata. A distanza di quasi dieci anni dalla nascita di IS, questo duplice paradigma strategico sembra essersi rivelato vincente, assicurando all’organizzazione una continua capacità di attrarre nuovi proseliti a livello transnazionale e la sopravvivenza operativa, seppur decentralizzata, in diversi continenti.
Dal punto di vista dell’attivismo in rete, infatti, lo Stato Islamico continua a mantenere un’eccellente capacità d’attrazione e reclutamento a livello virtuale. A questa dimensione viene attribuito un vero e proprio valore strategico per la costruzione di una comunità jihadista a vocazione globale. Da una parte, il suo utilizzo è funzionale a diffondere il messaggio estremista e violento grazie al facile accesso a tecnologie a basso costo, efficienti e sicure, con minori rischi di censura e protette dallo scudo dell’anonimato. Dall’altra, il dark web e i social media hanno assunto una funzione cruciale nei processi di radicalizzazione e reclutamento di singoli individui. Infatti, per gli estremisti l’utilizzo di internet risulta essere uno strumento essenziale, permettendo loro di stabilire un contatto con simpatizzanti anche geograficamente distanti e invitarli a partire e combattere a fianco di forze fondamentaliste in Iraq e in Siria – come dimostra il caso della giovane italo-kosovara arrestata a Milano il novembre scorso per aver tentato di combinare matrimoni tra combattenti nel Levante e giovani donne – o di sferrare attacchi in Europa. Seppur, quindi, non sia stata registrata una produzione inedita di nuovo materiale da diffondere, i contenuti propagandistici creati dagli organi centrali di IS negli scorsi anni continuano ad essere presenti in rete, ad uso e consumo di utenti più o meno consapevoli.
Per quanto riguarda invece la decentralizzazione dell’organizzazione e la sua integrazione in diversi teatri strategici, di particolare rilievo è il contesto afghano, in cui l’organizzazione è attiva tramite la branca locale dell’Islamic State Khorasan Province (ISIS-K), e dove riesce a mantenere una capacità offensiva penetrante e un’autonomia ormai consolidata.
Sin dal 2015, anno della nascita del gruppo locale affiliato a Daesh, i conflitti tra il gruppo e i talebani hanno costituito uno dei motivi dell’instabilità sistemica del contesto afghano. La rivalità inziale fra i due gruppi di insorgenza contrapposti si è tramutata, dopo la riconquista talebana dello scorso agosto, in uno scontro aperto in cui ISIS-K cerca di erodere la legittimità del governo talebano seguendo due direttrici: da una parte, conducendo una serie di offensive in diversi distretti rurali nel nord e nord-est dell’Afghanistan per consolidare il controllo territoriale; dall’altra, lanciando attacchi contro gruppi minoritari, aree pubbliche, istituzioni e obiettivi governativi nelle principali città dell’Afghanistan per dimostrare l’incapacità dei talebani nel garantire sicurezza nel Paese. Il successo che ISIS-K sta avendo nel teatro afghano potrebbe d’altronde essere la leva per raccogliere consensi non solo all’interno del fronte anti-talebano, sempre più diversificato, ma anche a livello internazionale.
L’obiettivo sia propagandistico che pratico di IS di “rimanere ed espandersi” è altresì confermato anche dall’attivismo dimostrato in diversi teatri africani, in cui i gruppi locali legati a Daesh contribuiscono ad un’instabilità sistemica e mettono a dura prova le operazioni di controterrorismo. Le difficoltà riscontrate nel ridimensionare il radicamento dei gruppi jihadisti è ben testimoniata dal ritiro del Mali, il 15 maggio 2022, dalla forza militare antijihadista e dal G5 Sahel, organizzazione creata nel 2014 congiuntamente con Ciad, Niger, Burkina Faso e Mauritania proprio per far fronte al problema del terrorismo nella regione: le capacità di IS di integrarsi nel contesto locale, “jihadizzando” l’insorgenza nell’area subsahariana, e la sua resilienza nel corso degli anni hanno minato le fondamento dell’iniziativa del G5, spingendo il Mali a decidere di ritirarsi. I funzionari della giunta governativa malese hanno affermato che la decisione è scaturita alla mancanza di progressi del G5 nella sconfitta di al-Qaeda e SI, dimostrando come i gruppi terroristici nella regione del Sahel continuino a crescere a un ritmo senza precedenti. Tale tendenza è in gran parte dovuta al declino della sicurezza nella regione, creando un ambiente fertile per l’instaurazione di gruppi appartenenti a organizzazioni terroristiche. Il ritiro del Mali dalla forza G5 Sahel avrà un effetto peggiorativo su tali condizioni e potrebbe consentire a IS di definire una nuova base operativa per espandersi nell’area.
Uno scenario da non sottovalutare è, d’altronde, il potenziale sfruttamento da parte di IS delle ricadute globali della guerra in Ucraina in quei Paesi, già strutturalmente fragili dal punto di vista economico e politico, in cui sono presenti sacche di estremismo violento. La storia più recente dimostra come gruppi jihadisti siano infatti riusciti a trarre un vantaggio maggiore in contesti più esposti al rischio di insicurezza e instabilità. Il caso della Tunisia post-rivoluzionaria, in cui alla crisi socio-economica e politica si è sommata la riattivazione di gruppi jihadisti come Ansar al-Sharia, dimostra come i movimenti estremisti riescano spesso a trovare consenso nel vuoto che si crea tra uno Stato incapace di far fronte ad un’emergenza e una società sempre più vulnerabile. Il quadro di crisi attuale tunisino potrebbe presentare la stessa “equazione di fragilità”. Già dal 2021 il Paese lotta contro l’aumento dei prezzi del carburante e del grano, effetto del shock sistemico legato alla pandemia, mentre la crisi politica degli ultimi anni – di cui la dissoluzione del Parlamento a marzo da parte del Presidente Kais Saied è solo un capitolo – mina le fondamenta del percorso democratico intrapreso negli ultimi dieci anni. A questa situazione complessa si sono aggiunte le ricadute del conflitto in Ucraina: il blocco delle importazioni di cereali pesa profondamente sul già fragile sistema alimentare tunisino, che dipende al 41% dal grano ucraino, e rischia di trasformare il Paese in quella polveriera che aveva alimentato le proteste popolari del 2011. In un contesto potenzialmente escandescente come quello della Tunisia del 2022, quindi, lo Stato Islamico potrebbe trovare lo spazio in cui inserirsi, presentandosi come punto di riferimento di un ordine e di una stabilità che lo Stato fatica a garantire oggi, soprattutto nelle regioni periferiche.
A distanza di tre anni dal suo collasso come entità territoriale in Siria e in Iraq, la capacità strategiche di Daesh a livello locale e internazionale sono sicuramente ridimensionate, come dimostrano i recenti attacchi ai vertici degli ultimi sei mesi, ma non per questo la minaccia che esso pone è inesistente. Nel corso di questi anni l’organizzazione terroristica si è riorganizzata con l’obiettivo, come afferma lo stesso slogan, di rimanere ed espandersi: le attività sono diversificate su diversi territori, con gruppi autonomi sparsi sia nel continente africano che asiatico, e nel mondo virtuale, dove la propaganda di IS continua ad essere diffusa e attrarre nuovi simpatizzanti e proseliti. Allo stesso tempo, Daesh trova terreno fertile in situazioni di grave instabilità e fragilità, riuscendo talvolta a sostituirsi a quegli attori sia nazionali che internazionali cui viene delegato di fornire sicurezza fisica, alimentare e sociale alla popolazione. Proprio alla luce delle evoluzioni di IS negli ultimi anni, è necessario che la risposta che viene costruita dalle istituzioni preposte al contrasto sappia trasformarsi di conseguenza. Da una parte, attuare azioni di controterrorismo focalizzate sul tracciamento e monitoraggio attivo del dark web, anche in collaborazione con l’intelligence di Paesi esteri, risulta essenziale per prevenire la diffusione di materiale e contrastare l’organizzazione stessa di eventuali nuovi attacchi. Dall’altra, alla luce dell’atomizzazione e della regionalizzazione di Daesh in diversi teatri e della potenziale capacità attrattiva che l’organizzazione continua ad avere, è necessario che la cooperazione in materia di terrorismo assuma un approccio olistico e onnicomprensivo, utile sia a smantellare pezzo per pezzo le strutture attive a livello locale, sia a ricreare un tessuto sociale solido funzionale a prevenire la radicalizzazione. In questo senso, risulta necessario svincolarsi da approcci e paradigmi appartenenti al passato.