Geopolitical Weekly n.332
Bahrein: gli USA presentano il piano di pace per il Medio Oriente
Il 25 e 26 giugno, a Manama nel Bahrein, Jared Kushner, consigliere e genero del Presidente americano Donald Trump, ha presentato la prima parte dell’atteso piano di pace per il Medio Oriente della Casa Bianca.
L’aspetto più rilevante è l’approccio adottato: prettamente economico, senza alcuna prospettiva per la risoluzione dei principali nodi politici della questione israelo-palestinese. In termini pratici, il piano prevede 50 miliardi di dollari in investimenti per finanziare circa 180 progetti a livello locale e promuovere lo sviluppo economico nei Territori Palestinesi e in Libano, Egitto e Giordania.
Nell’idea di Kushner, i donatori dovrebbero essere soprattutto i Paesi del Golfo, seguiti da altri Stati europei e asiatici. Probabilmente, il genero di Trump conta sul fatto che l’aumento e la diversificazione dei Paesi con interessi (essenzialmente economici) nell’area possa costituire una garanzia sufficiente per mantenere la stabilità della regione.
Tuttavia, alcune delle proposte sembrano voler dare risposte esclusivamente economiche a problemi complessi di natura politica, da decenni al centro dei diversi piani di pace presentati finora. In questo senso, secondo il piano di Kushner la creazione di una contiguità territoriale tra Striscia di Gaza e Cisgiordania si realizzerebbe con la semplice costruzione di un’arteria stradale che colleghi le due aree, mentre il rilancio del comparto turistico nella Striscia viene vagheggiato senza abbinarlo ad alcuna proposta per risolvere le tensioni tra Gaza e Israele.
Non deve quindi stupire che il piano sia stato accolto da gran parte della Comunità Internazionale con profondo scetticismo, soprattutto perché subordina sicurezza e stabilità ad un auspicato rilancio economico e non affronta i problemi di fondo del conflitto israelo-palestinese (aspirazione dei Palestinesi ad avere un loro Stato, lo status di Gerusalemme, il futuro degli insediamenti israeliani).
A sottolineare il generale clima di sfiducia verso il piano Kushner, quando non di netta opposizione, è stato anche il livello dei rappresentanti inviati alla conferenza di Manama. Se le autorità palestinesi hanno vibratamente denunciato il piano come privo di significato e hanno disertato l’evento, una maggioranza di Stati arabi ha inviato delegazioni non di alto livello.
Etiopia: sventato un altro tentativo di golpe contro il Premier Abiy Ahmed
Il 22 giugno, a Bahir Dar, capoluogo della regione di Amhara, un commando guidato dal Generale Asaminew Tsige, capo delle forze di sicurezza locali, ha tentato di effettuare un colpo di Stato separatista, uccidendo prima il governatore Ambachew Mekonnen e il suo consigliere Ezez Wasie e, successivamente, il Capo di Stato Maggiore Seare Mekonnen e il Generale Gezai Abera. Tutti e quattro erano alleati chiave del Primo Ministro Abiy Ahmed. Si tratta del terzo attentato al governo di Abiy Ahmed dal suo insediamento nel 2018.
I tentativi di golpe, tutti effettuati da membri dell’apparato militare, rappresentano il tentativo eversivo delle frange più oltranziste dei movimenti politici Amhara e Tigrini di ristabilire la propria influenza sull’Etiopia. Infatti, l’ascesa al potere di Abiy Ahmed, di etnia Oromo, ha costituito una autentica rivoluzione negli equilibri istituzionali nazionali, tradizionalmente dominati dalle elite tigrine e amhara.
Nel corso del suo primo anno di premierato, Abiy Ahmed ha effettuato un autentico repulisti delle componenti tigrine ed ahmara dalle istituzioni civili e militari etiopi nel tentativo di stabilire maggiore equità, rappresentatività ed uguaglianza etnica nelle cariche pubbliche.
Tale politica ha trovato il plauso di quelle etnia subalterne, come gli Ormo ed i Somali, e il rifiuto categorico delle etnie dominanti, come i Tigrini e gli Ahmara. Sebbene al momento le istituzioni etiopi e il Premier Ahmed si sono dimostrati resilienti ed in grado di affrontare la minaccia dell’eversione tigrina e ahmara, i rischi di una ulteriore moltiplicazione dei conflitti non è da sottovalutare.
Una ipotetica crescita dell’instabilità, oltre ad affliggere l’impetuosa crescita economica nazionale ed a compromettere gli investimenti stranieri, potrebbe influenzare l’intero processo di stabilizzazione del Corno d’Africa, visto il ruolo di mediatore dell’Etiopia nel conflitto sudanese e in virtù dell’impegno di Addis Abeba nella pacificazione della Somalia e nella normalizzazione dei rapporti con l’Eritrea.
Russia: l’Unione Europea rinnova le sanzioni
Il 27 giugno, L’Unione Europea ha rinnovato per altri sei mesi le sanzioni economiche nei confronti della Russia, motivando la decisione con la mancanza di sensibili progressi nell’applicazione degli Accordi di Minsk e Minsk II. Siglati rispettivamente nel 2014 e nel 2015, i documenti in questione fissano i termini per il processo di stabilizzazione in Ucraina orientale e cercano di porre fine al sanguinoso conflitto del Donbas che vede opposte le autorità di Kiev ed i separatisti delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. L’Unione Europea e il governo ucraino accusano il Cremlino di sostenere le milizie separatiste tramite forniture di armi, supporto politico e invio di personale militare sotto copertura. Tutte queste accuse sono fermamente respinte da Mosca che, seppur apertamente simpatizza per la causa separatista, ha ufficialmente negato qualsiasi coinvolgimento nella crisi, nonostante le numerose prove contrarie mostrate dalla NATO e da Kiev.
Le sanzioni europee colpiscono individui, società e istituzioni russe ritenute responsabili, a diversi livelli, del supporto politico-militare ai separatisti. I settori oggetto del regime sanzionatorio sono la tecnologia militare e dual use, la tecnologia per l’estrazione degli idrocarburi e il bancario. In risposta all’UE, la Russia ha imposto contro-sanzioni commerciali miranti ad impedire o inibire l’export europeo verso Mosca.
Il rinnovo delle sanzioni, osteggiato dal Cremlino e da un non trascurabile fronte di partiti europei, dimostra come la normalizzazione dei rapporti tra Russia ed Europa sia ancora molto lontana. Infatti, oltre alo stallo della crisi ucraina, le relazioni tra Mosca e Bruxelles appaiono conflittuali su numerosi altri dossier internazionali come la crisi sudanese, la guerra civile libica e il processo di stabilizzazione siriano. Inoltre, sulla Russia pesano le accuse europee di ingerenza nei processi elettorali dei Paesi membri e di una condotta di politica estera aggressiva basata sula cosiddetta dottrina della guerra ibrida, consistente nella militarizzazione di strumenti non-militari (economia, informazione) per il raggiungimento dei propri obbiettivi strategici nazionali.
Turchia: elezioni ad Istanbul, vince il candidato dell’opposizione Imamoglu
Domenica 23 giugno, l’opposizione turca ha riscosso un nuovo successo elettorale vincendo per la seconda volta, nella riedizione delle elezioni amministrative di Istanbul. Ekrem ImamoÄŸlu, candidato dell’Alleanza Nazionale formata dal Partito Popolare Repubblicano (CHP) e dal Partito Buono (IYI) si è aggiudicato la poltrona di sindaco di Istanbul con il 54,21% delle preferenze, distaccandosi di circa 800.000 voti dal suo avversario Binali Yildrim, candidato del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del Presidente ErdoÄŸan. Il margine di consenso sul rivale è stato molto più ampio rispetto al risultato delle elezioni amministrative dello scorso 31 marzo, segnando la vittoria netta del candidato dell’opposizione.
Il risultato della tornata precedente era stato annullato dalla Commissione Elettorale Suprema della Turchia (YSK), dopo aver accolto il ricorso dell’AKP che aveva denunciato brogli e irregolarità procedurali nel conteggio dei voti. Ciò nonostante, l’esito delle nuove elezioni ha segnato una battuta di arresto per il Presidente Erdogan nella città di Istanbul.
Di fatto, con i suoi 15 milioni di abitanti e rappresentando circa un terzo del PIL nazionale, per ogni partito politico turco Istanbul è cruciale per stabilire relazioni con i principali gangli del potere economico nazionale e, di conseguenza, per presentarsi come credibile forza di governo.
La perdita della città per l’AKP, dunque, non solo indica una contrazione dei consensi tra la popolazione, ma nel prossimo futuro potrebbe anche portare ad un’ulteriore emorragia di voti per il partito di governo. In questo senso, la sconfitta a Istanbul potrebbe rafforzare quelle correnti interne all’AKP, rappresentate da alcuni dei padri fondatori come Abdullah Gul, Ali Babacan e Bulent Arinc, che negli ultimi anni hanno manifestato un crescente malumore verso la leadership di Erdogan.