Geopolitical Weekly n.320
Algeria
Lo scorso 25 febbraio, durante un discorso trasmesso dalla tv nazionale, il Primo Ministro algerino Ahmed Ouyahia ha rimarcato che il futuro politico del Presidente Abdelaziz Bouteflika può essere deciso soltanto dal libero voto degli elettori. Di fatto, tale commento è stata la prima reazione ufficiale del governo alle proteste popolari che dallo scorso venerdì scuotono il Paese, e allo stesso tempo rappresenta un indicatore di quanto esse stiano procurando più di una preoccupazione all’esecutivo.
Le proteste in questione si sono sviluppate contro la prospettiva di un quinto mandato dall’attuale ottuagenario Presidente Bouteflika, al potere dal 1999. Infatti, l’11 febbraio l’attuale Capo dello Stato aveva annunciato la sua intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali previste per il prossimo 18 aprile. Di fatto, la sua ricandidatura è il frutto di uno stallo nelle consultazioni tra le di-verse componenti del sistema di potere algerino, che tradizionalmente esprime per consenso il candidato Presidente. Dunque, a ben vedere, le attuali proteste popolari rappresentano una messa sotto accusa di tutta l’attuale classe dirigente, che vede accumunati nella gestione del potere sia le Forze Armate sia i partiti di governo Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e Raggruppamento Nazionale Democratico (RND).
In più, va notato che questa recente ondata di proteste ha connotati squisitamente politici che le precedenti manifestazioni di dissenso, centrate più su temi economici e sociali, non possedevano. Infatti, negli ultimi anni tali proteste erano state rivolte essenzialmente contro le politiche di austerità e l’aumento dell’IVA, come quelle avvenute tra 2017 e 2018 soprattutto nella regione della Cabilia. Nell’ottobre del 2014, invece, furono diversi reparti delle polizia a scioperare, manifestando per alcuni giorni nei pressi del palazzo presidenziale ad Algeri per ottenere aumenti salariali e una serie di altri benefici. Oltre al movente politico, le proteste iniziate la scorsa settimana hanno anche una diffusione geografica vasta, considerando che hanno interessato, oltre ad Algeri, altre città della fascia costiera mediterranea come Orano, Sidi Bel Abbes, Sétif, Tiaret e Bordj Menaiel così come località dell’interno come Touggourt e altri centri minori.
Per questi motivi, le recenti manifestazioni costituiscono un segnale che l’establishment algerino, tradizionalmente ingessato e incline all’immobilismo, non può permettersi di ignorare. Di conseguenza, l’eventuale proseguimento delle proteste, su larga scala e con ampia partecipazione popolare, potrebbe portare il governo ad agire già prima dell’appuntamento elettorale di aprile, nel tentativo di trasmettere all’elettorato un segnale di discontinuità che permetta il normale svolgimento del voto.
Corea del Nord
Il 27 e 28 febbraio il Presidente nordcoreano Kim Jong-un e il Presidente statunitense Donald Trump si sono incontrati ad Hanoi, in Vietnam, per proseguire il dialogo sulla delicata questione del programma atomico della Corea del Nord. Si tratta del secondo vertice tra i due Paesi dopo l’incontro di Singapore del 12 giugno scorso. Tuttavia, nella tarda mattinata del 28 febbraio Trump ha lasciato la capitale vietnamita ed è ripartito per Washington, motivando questa scelta con l’impossibilità di superare la divergenza di vedute su alcune tematiche legate alla dismissione dell’arsenale atomico nordcoreano.
L’unico passo in avanti che sembrerebbe essere emerso dai colloqui, infatti, durante i colloqui riguarda un possibile rafforzamento nelle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Attualmente, infatti, non vi è un canale diplomatico diretto: le comunicazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti avvengono tramite l’ambasciata svedese a Pyongyang. Ad Hanoi, Trump e Kim hanno invece parlato della possibilità di aprire un ufficio di collegamento statunitense nella capitale nordcoreana. Se istituito, tale ufficio potrebbe essere il preludio di una futura presenza diplomatica americana in Corea del Nord.
Tuttavia, per quanto riguarda, invece, la gestione del programma atomico nordcoreano, sembrano permanere alcune problematiche di fondo emerse già a Singapore. In particolare, la Corea del Nord ha ribadito fermamente che la sospensione delle sanzioni internazionali è condizione imprescindibile per avviare lo smantellamento di parte dei propri siti nucleari. Per Washington si tratta di una richiesta non realizzabile, poiché un eventuale alleggerimento del regime sanzionatorio potrebbe essere valutato solo qualora Pyongyang fornisse garanzie concrete circa la volontà di procedere alla dismissione del proprio arsenale nucleare.
Benché entrambi i Paesi abbiano ribadito la volontà di continuare a cooperare, il vertice di Hanoi si conferma essere stata una tappa solo intermedia nel percorso di denuclearizzazione della Penisola Coreana. La definizione dei dettagli tecnici del processo rimane per ora in sospeso, e dovrà essere oggetto di discussione tra i team di negoziatori incaricati dai due Paesi per tracciare un percorso credibile per portare avanti i negoziati in un prossimo futuro.
India
Il 26 febbraio scorso l’Aeronautica Militare Indiana ha lanciato un raid aereo nei pressi della città di Balakot, nel Kashmir pakistano (Azad Kashmir), presumibilmente per colpire un campo d’addestramento del gruppo jihadista Jaish-e-Muhammad (JeM). L’attacco è avvenuto in risposta all’attentato suicida compiuto da JeM, il 14 febbraio, nel quale sono stati uccisi 40 esponenti delle Forze indiane. Il 27 febbraio il Pakistan ha reagito e ha dichiarato di aver abbattuto due aerei caccia indiani e catturato uno dei piloti. Secondo Islamabad, i caccia si trovavano sullo spazio aereo dell’Azad Kashmir. Al momento, l’India ha confermato la perdita di un caccia MiG-21, senza fornire ulteriori dettagli sul pilota e sul presunto secondo aereo abbattuto.
Le schermaglie dei giorni scorsi vanno inquadrati nella storica diatriba tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir. L’India accusa il Pakistan di dare supporto ai gruppi di insorgenza operativi nell’area; il Pakistan nega, accusando a sua volta l’India di violare il diritto di autodeterminazione della popolazione kashmira.
La gestione delle tensioni è stata inevitabilmente condizionata dal particolare momento che stanno attraversando entrambi i governi. Dopo l’attentato del 14 febbraio, il Primo Ministro indiano Modi ha voluto dare un segnale forte ai suoi cittadini, in un momento nel quale il leader ha riscontrato un calo consensi in vista delle prossime elezioni di aprile/maggio. In Pakistan, il governo del Primo Ministro Imran Khan, entrato in carica la scorsa estate, non avrebbe potuto soprassedere dal dare una risposta all’azione indiana, per non prestare il fianco alle critiche sia delle opposizioni sia della leadership dell’Esercito, pilastro fondamentale dell’equilibrio istituzionale interno.
Nonostante i toni forti tra i due Paesi, la crisi dei giorni scorsi potrebbe non degenerare in un’ulteriore escalation, che avrebbe conseguenze per tutta la regione. Un ruolo di mediatore potrebbe essere giocato dagli Stati Uniti: nonostante l’Amministrazione Trump abbia in passato sposato una politica regionale di aperto supporto all’India, Washington sembra in questo momento aver trovato un nuovo equilibrio anche con il Pakistan, attore fondamentale per la costruzione di un tavolo di dialogo con i talebani in Afghanistan. L’invito alla calma lanciato dal governo statunitense nelle ore immediatamente successive all’abbattimento dei due aerei indiani, infatti, sembra testimoniare la volontà della Cassa Bianca di distendere le tensioni per scongiurare effetti indesiderati sulla propria agenda in Asia Meridionale.
Iran
Mercoledì 25 febbraio il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha rassegnato le dimissioni che, dopo solo un giorno, sono state respinte dal presidente della Repubblica Islamica Hassan Rouhani. Il ministro, quindi, già dal 27 febbraio è tornato in servizio. La sua decisione di lasciare l’incarico era stata formalmente giustificata come una presa d’atto dei mancati risultati della strategia politica sul nucleare. In realtà, essa è giunta in seguito alla visita del presidente siriano Bashar al Assad a Theran, dove ad accoglierlo sono stati Rouhani e la Guida Suprema Ali Khamenei, mentre Zarif non sarebbe stato né invitato né tanto meno avvertito. La circostanza potrebbe essere spia di una rimodulazione della politica estera da parte del presidente Rouhani. Dopo i due mandati di Mahmoud Ahmadinejad, caratterizzati da una retorica anti-occidentale, il suo governo si è infatti contraddistinto per un atteggiamento di apertura al dialogo e di riavvicinamento alla comunità internazionale. Principale fautore ed esecutore di tale linea è stato proprio Zarif, che del resto aveva già ricoperto incarichi di rappresentanza alle Nazioni Unite e dimostrato esperienza nei rapporti di mediazione con gli USA – già negli anni '80 e poi di nuovo subito dopo l’11 settembre. Il netto cambiamento delle relazioni con Washington dopo l’elezione di Trump, con l’annullamento dell’accordo sul nucleare e la re-imposizione delle sanzioni economiche, ha esposto Rouhani e il suo esecutivo alle critiche delle opposizioni conservatrici e alle pressioni delle componenti più tradizionaliste del sistema politico iraniano, guidate dalle Guardie della Rivoluzione e soprattutto dalla figura della Guida Suprema.
Pur mantenendo per ora al suo posto il principale rappresentante della strategia di dialogo con l’Occidente, dunque, il Presidente della Repubblica Islamica potrebbe essere sul punto di riformulare le proprie politiche in modo da assecondare maggiormente le istanze conservatrici e da ridare prevalenza alla dimensione regionale su quella internazionale.