La crisi dello Zimbabwe tra declino economico, impasse politica ed emergenza sociale
Africa

La crisi dello Zimbabwe tra declino economico, impasse politica ed emergenza sociale

Di Giuseppe Matarazzo
05.07.2012

Abbracciata dai fiumi Zambesi e Limpopo, la Repubblica dello Zimbabwe ha rappresentato una delle colonie inglesi più importanti del quadrante Sub-sahariano. Terra natia delle popolazioni Shona e Ndebele, l’allora Rhodesia è stata parte, insieme a Kenya e Sudafrica, delle cosiddette colonie dei settler, note sia per la loro importanza strategica che per le violenze diffuse che hanno caratterizzato le rispettive indipendenze. L’impasse politica che oggi pervade lo Zimbabwe, unita alla profonda emergenza sociale ed alla grave situazione economica, delinea una delle più profonde crisi dell’Africa Sub-Sahariana finite nel dimenticatoio della comunità internazionale.

Dal 1980 ad oggi il Presidente Robert Mugabe ha dominato la scena politica del Paese, portando alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale le diffuse violenze di matrice politica perpetrate nei confronti della popolazione zimbabwana e degli outsider politici accusati di essere nemici della nazione. Durante questo periodo il Presidente ha assunto diversi volti agli occhi della comunità internazionale; passando da leader indiscusso delle lotte di liberazione contro il colonialismo a dittatore feroce e padre padrone dello Zimbabwe. Oggi Mugabe rimane persona “non gradita” nell‘emisfero occidentale.

Il declino dell’impero di Mugabe e la conseguente diminuzione del consenso all’interno del partito hanno inizio attraverso la progressiva erosione del sistema clientelare che il suo governo aveva costruito nella prima metà degli anni ’80. Inoltre la grave crisi economica che il Paese ha registrato nell’ultimo decennio, imputabile, anche se non in modo esclusivo, alla riforma agraria del 2000, ha subito una forte accelerazione a causa della grave crisi istituzionale delle elezioni presidenziali del 2008. La sconfitta di Mugabe è stato il risultato delle crescenti divisioni all’interno del suo partito e della progressiva perdita di legittimità agli occhi dei suoi elettori. L’instabilità politica che ha contraddistinto il Paese da decenni ha portato a diversi interventi da parte della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC) sotto le crescenti pressioni delle Nazioni Unite e dei governi occidentali. Uno dei risultati più proficui sotto questo punto di vista è stato l’accordo che, nel gennaio del 2009, ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale con a capo Morgan Tsvangirai mentre Mugabe ha mantenuto la carica di Presidente della Repubblica.

La crisi dello Zimbabwe assume oggi connotati diversi e sempre più critici rispetto al passato. Accanto alle distorsioni provocate dal difficile processo di decolonizzazione, lo stato d’emergenza sociale in cui versa la maggior parte della popolazione zimbabwana ha subito un peggioramento a causa della grave crisi economica soprattutto negli ultimi quindici anni. L’introduzione del dollaro degli Stati Uniti nel Paese ha eliminato l’iperinflazione provocata da decenni di politiche economiche dissennate. Inoltre, la cosiddetta “dollarizzazione dell’economia” ha, seppur lievemente, favorito il ritorno degli investitori stranieri negli ultimi anni in un Paese noto per le sue ricchezze naturali. Da circa un anno i segnali positivi riguardo alle performance economiche registrate dal Paese hanno ricevuto l’apprezzamento delle principali istituzioni finanziarie internazionali, in particolare Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, un riconoscimento simbolico a seguito degli sforzi compiuti dall’attuale governo nella ricostruzione di un intero Paese sull’orlo del baratro. Ciononostante, la questione della terra ed in particolare la restituzione dei diritti di proprietà alla popolazione zimbabwana da parte degli europei, che ha caratterizzato la storia contemporanea di questo Paese, continua ad essere causa degli espropri coatti ai danni delle aziende agricole di proprietà dei bianchi.

In queste settimane la diffusione delle violenze è aumentata notevolmente insieme ai numerosi arresti nei confronti di chi manifesta per ottenere i propri diritti. Oltre alle problematiche relative ai retaggi coloniali, nuovi scontri si concentrano sulle risorse naturali come platino, cromo, nickel e diamanti.

Negli ultimi mesi, mentre Mugabe lotta contro gravi problemi di salute, è aumentata l’incertezza circa il destino politico del suo partito. Il richiamo a continue elezioni entro la fine dell’anno da parte del Presidente fa presagire una nuova escalation di violenze. Mugabe continua a proporre la solita litania sulla politica d’indigenizzazione, attraverso l’applicazione di una legge approvata il 30 marzo 2010 in base alla quale il 51% delle azioni d’imprese con capitale al di sotto del mezzo milione di dollari devono essere lasciate in mano a residenti.

Molti economisti indipendenti sostengono che la legge avrebbe ripercussioni deleterie sull’intera economia del Paese, ripresentando gli effetti dovuti alle espropriazioni delle grandi aziende agricole europee che, una volta passate nelle mani dei pochi affaristi vicini al Presidente, a causa della loro inefficienza, hanno contribuito direttamente al tracollo del settore commerciale del Paese.

Esiste quindi un continuum che lega la politica degli espropri terrieri del 2000, passata alla storia con il termine Jambania (letteralmente rivoluzione agraria), all’attuale politica d’indigenizzazione che oggi comprende anche le risorse naturali. Mugabe continua a presentare la questione della terra e la necessità di concentrare le risorse economiche e finanziarie nelle mani dei (pochi in verità) cittadini zimbabwani, in nome di una lunga battaglia anti-imperialista e panafricanista che da sempre ha contraddistinto la sua azione politica, mentre invoca imminenti elezioni per il bene del Paese. D’altra parte, il Movement for Democratic Change (MDC), partito del Primo Ministro Tsvangirai, considerato un fantoccio dell’Occidente dalla Zimbabwe African National Union (ZANU), espressione politica di Mugabe, fa parte dello stesso sistema di cui è vittima; nonostante partecipi alla guida del Paese, è sottoposto a continue violenze che, di fatto, rendono impraticabile qualsiasi decisione politica. In questo senso uno spiraglio di luce per le sorti dello Zimbabwe può essere rintracciato nella sentenza, emessa dal giudice Hans Fabricius della North Gauteng High Court di Pretoria, che invita le autorità sudafricane a far luce sulle “presunte” violazioni dei diritti umani in Zimbabwe, in modo da portare gli eventuali responsabili dinnanzi alla Corte Penale Internazionale. La reazione del Presidente Mugabe non si è fatta attendere, giudicando la sentenza come un “residuo” delle forze sudafricane dell’apartheid che ledono la sovranità del Paese, chiamando a raccolta tutti movimenti di liberazione dell’Africa Australe ed invitando l’African National Congress ad assumere una posizione chiara a riguardo.

La Repubblica dello Zimbabwe rischia di precipitare nuovamente in un periodo di profonda crisi politica, economica e sociale. La risposta da parte della Comunità Internazionale appare inefficacie a causa della mancanza di ulteriori azioni che seguano alle consuetudinarie dichiarazioni di principio. D’altra parte la sterilità della diplomazia africana e, in particolare, del Sudafrica, attore chiave del contesto africano australe, aggrava ulteriormente la situazione già precaria in cui versa il Paese. E l’instabilità e gli incerti sviluppi a livello regionale rischiano di compromettere i progressi economici, seppur modesti, che lo Zimbabwe stava registrando negli ultimi anni.

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