Iran: l’attentato a Kerman e le tensioni con il Pakistan
L’attentato terroristico dello scorso 3 gennaio avvenuto nei pressi della tomba dell’ex Comandante della Forza Quds, Qasem Soleimani, nella città iraniana sud-orientale di Kerman, ha innescato una serie di reazioni politiche e militari da parte della Repubblica Islamica, che hanno contribuito ad aumentare la tensione nell’ampia regione mediorientale. Rivendicato dallo Stato Islamico (IS) e materialmente realizzato dalla sua branca attiva in Asia Meridionale, ossia l’IS - Khorasan Province (ISKP), l’attacco è giunto in una fase estremamente critica per Teheran, già sotto pressione per il prolungarsi del conflitto a Gaza, l’eliminazione di leader chiave di Hamas e Hezbollah in Libano e le tensioni crescenti nel Mar Rosso.
Tra i principali sponsor politici dei gruppi palestinesi attivi nella Striscia e in Cisgiordania , l’Iran ha infatti avviato dal 7 ottobre un’importante campagna politico-diplomatica, finora scarsamente efficace, volta ad allentare la pressione delle Forze di Difesa Israeliane su Hamas attraverso un cessate il fuoco permanente. Parallelamente, l’assistenza militare fornita alle milizie Houthi presenti in Yemen, divenute insieme agli Hezbollah libanesi una forza rilevante dal punto di vista missilistico nella regione, ha posto con forza il tema della responsabilità, seppur indiretta, di Teheran nella serie di attacchi contro le navi mercantili che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb. In particolare, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Islamic Revolutionary Guard Corps - IRGC) è stato accusato di aver portato avanti attività di targeting in supporto proprio degli Houthi nel Mar Rosso, utilizzando navi non militari come il Behshad per l’acquisizione di intelligence. Intanto, Israele ha aumentato la pressione sull’Iran rafforzando la campagna di attacchi mirati contro esponenti di spicco di Hamas e Hezbollah in Libano e dell’IRGC in Siria, dove è rimasto ucciso il capo dell’intelligence dell’organizzazione nel Paese in un raid su Damasco effettuato il 20 gennaio. In questo contesto di difficile gestione per la Repubblica Islamica, l’attacco terroristico di Kerman ha contribuito ad aggravare la situazione, mettendo in evidenza i limiti degli apparati statali di sicurezza, ora soggetti a probabili epurazioni. Ad andare sotto pressione e premere per una pronta reazione sono stati, dunque, i settori più radicali dell’establishment iraniano, i quali avevano la necessità di ristabilire l’integrità della loro immagine anche in vista dell’imminente ciclo elettorale per il rinnovo del Majlis e dell’Assemblea degli Esperti, che si concluderà a marzo. L’Iran ha così scelto di rispondere militarmente alle pressioni crescenti nel tentativo di ristabilire la propria credibilità e legittimità militare, politica e di sicurezza, tanto sul fronte interno quanto su quello internazionale. Non a caso, gli strike relativamente limitati lanciati il 15 e 16 gennaio in Iraq e Siria si inseriscono in una cornice che risponde a una logica di rischio calcolato, volta a evitare ritorsioni o eccessivi allargamenti del fronte. Ulteriore obiettivo degli attacchi era quello di inviare un messaggio a Israele e Stati Uniti in merito all’effettiva volontà iraniana di proteggere i propri interessi regionali. Le Forze aerospaziali dell’IRGC, in particolare, hanno effettuato un attacco con droni e missili sulla città di Erbil, nel Kurdistan iracheno, colpendo presunte strutture legate al Mossad. Per gli iraniani, infatti, la regione rappresenta uno dei luoghi dai quali vengono progettati gli attacchi contro le infrastrutture o gli esponenti di spicco del programma nucleare. L’attacco a Erbil ha scatenato proteste non solo da parte del governo iracheno, irritato per la violazione di sovranità, ma anche dagli Stati Uniti, il cui Consolato dista poche decine di chilometri dal luogo colpito.
Le Forze aerospaziali iraniane avrebbero utilizzato anche missili balistici Kheibar Shekan per colpire obiettivi legati all’IS, al Fronte al-Nusra e al Partito Islamico del Turkistan nel governatorato di Idlib, in Siria. Secondo i media israeliani, i vettori iraniani che hanno raggiunto la Siria avrebbero coperto una distanza mai raggiunta prima dalle Forze Armate della Repubblica Islamica. I vertici dell’IRGC hanno giustificato gli attacchi in Siria affermando che i gruppi lì presenti sono impegnati ad addestrare i combattenti dell’IS prima di trasferirli in Asia Centrale per condurre attentati. Tuttavia, nel caso dell’attacco di Kerman, l’azione appare imputabile a terroristi di origine tajika addestrati nella provincia afghana di Badakhshan, dove l’ISKP avrebbe spostato parte dei propri miliziani e delle proprie strutture per sottrarsi alle campagne antiterrorismo dei talebani che guidano l’Emirato Islamico. Ciò non esclude, però, la presenza di miliziani centro-asiatici anche in Siria, coordinati sempre dall’ISKP. Infine, si segnala che la decisione iraniana di colpire Iraq e Siria è perfettamente coerente con la strategia della deterrenza tramite punizione adottata dall’Iran all’incirca dal 2018. Successivamente, il 16 di gennaio, l’Iran ha deciso di alzare il tiro attaccando con droni e missili le postazioni del gruppo salafita Jaish al-Adl (fino al 2012 noto come Jundallah) in località Koh Sabz, nella provincia del Belucistan, in territorio pakistano. Il gruppo, che conduce da tempo attacchi terroristici nella provincia sud-orientale iraniana a maggioranza sunnita del Sistan e Belucistan, si era rivelato particolarmente attivo nell’ultimo anno, con almeno quattro azioni contro il personale di sicurezza tra dicembre e gennaio. Particolarmente sanguinoso è stato l’attacco realizzato lo scorso 15 dicembre, quando oltre 10 poliziotti iraniani sono rimasti uccisi a seguito di un assalto dei miliziani di Jaish al-Adl a una stazione di polizia nella città di Rasak. Al di là delle giustificazioni ufficiali, anche l’operazione iraniana contro il governo di Islamabad va inserita nel contesto dell’attacco di Kerman, in quanto il poroso confine con il Pakistan rappresenta una delle rotte percorse dai miliziani jihadisti che mirano a raggiungere l’Iran. In questo contesto, la scelta di Teheran di non comunicare in via preventiva a Islamabad i suoi piani, malgrado esistano forme di coordinamento strutturate tra i due Paesi lungo il confine comune, lascia presumere da parte di Teheran un’errata valutazione della postura pakistana. La reazione di quest’ultimo, infatti, per quanto circoscritta, è stata estremamente rapida e anche istigata da due fattori ulteriori: la presenza in Iran del Ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar alla vigilia dell’attacco iraniano e la necessità di non mostrarsi deboli in vista delle attese elezioni politiche di febbraio.
Prima di rispondere sul piano militare, Islamabad ha anche richiamato il suo Ambasciatore in Iran e ha deciso di non consentire, temporaneamente, il ritorno in Pakistan di quello iraniano che si trovava fuori sede. Il 17 gennaio il Pakistan ha, quindi, condotto attacchi transfrontalieri di precisione contro le roccaforti dei separatisti beluci in tre località situate nei pressi della città di Saravan, nella provincia del Sistan e Baluchistan, in Iran. L’operazione pakistana denominata “Marg Bar Sarmachar”, ossia morte agli insorti, ha previsto una combinazione di attacchi aerei effettuati con droni armati Wing Loong II, aerei da combattimento di quarta generazione JF-17 Thunder e J-10C Vigorous Dragon. L’aeronautica pakistana avrebbe utilizzato missili stand-off al fine di evitare di violare lo spazio aereo iraniano e mostrare, dunque, una certa moderazione. Gli strike effettuati dalla Pakistan Air Force avrebbero colpito i siti dell’Esercito di Liberazione del Belucistan e del Fronte di Liberazione del Belucistan situati su suolo iraniano e protagonisti di numerosi attacchi in Pakistan nel corso del tempo. Data la portata dell’attacco pakistano, commisurato a quello iraniano dei giorni precedenti, il rischio escalation è apparso da subito molto limitato e, infatti, le due diplomazie hanno immediatamente pubblicato comunicati distensivi.
Tuttavia, è lecito credere che la tensione nella regione resti piuttosto elevata almeno nel breve, anche perché gli elementi critici che hanno spinto l’Iran ad agire restano intatti e, anzi, potrebbero addirittura aggravarsi a causa del proseguimento del conflitto a Gaza e del potenziale allargamento di questo alla Cisgiordania e al Libano. Nel breve-medio periodo si evidenzia il rischio di un possibile deterioramento delle relazioni anche tra Iran e talebani afghani, i quali faticano a gestire la minaccia posta dall’ISKP. Al momento, attacchi aerei iraniani come quelli registrati nei giorni scorsi contro le basi dell’ISKP nelle aree nord-orientali dell’Emirato appaiono del tutto improbabili, poiché prevederebbero un’azione in profondità rischiosa e provocatoria. Tuttavia, non è possibile escludere operazioni di bassa intensità iraniane anche cavallo del confine con l’Afghanistan, per segnalare irritazione rispetto al mancato controllo del fenomeno terroristico da parte della leadership talebana.