Geopolitical Weekly n. 302

Geopolitical Weekly n. 302

Di Giulia Guadagnoli e Giulia Lillo
26.07.2018

Cina

Giovedì 26 luglio un uomo di 26 anni ha lanciato una bomba rudimentale contro l’ambasciata statunitense a Pechino. L’ordigno, confezionato probabilmente con poca perizia, non è riuscito ad oltrepassare la cancellata esterna ed è esploso nella zona dove i cittadini cinesi aspettano in fila di poter presentare la richiesta di visto d’ingresso negli Stati Uniti. Solo l’attentatore è rimasto ferito nell’esplosione. L’episodio ha seguito di poche ore il fermo da parte della polizia cinese di una donna che, sempre davanti all’ambasciata, si era cosparsa di liquido infiammabile in un presunto tentativo di immolazione. La ricostruzione eseguita dalle forze dell’ordine cinesi, tuttavia, non ha ancora accertato se i due episodi fossero collegati.

La scelta della rappresentanza diplomatica statunitense in Cina come obbiettivo dell’attentato potrebbe essere ricondotta non tanto ad un attacco diretto contro il governo statunitense quanto a voler sfruttare il richiamo mediatico di un luogo così sensibile come per attirare lanciare un messaggio politico. Il responsabile del tentato attacco, infatti, è originario della regione della Mongolia Interna, provincia nord-occidentale attraversata da latenti risentimenti da parte della minoranza di etnia mongola contro Pechino, motivati sia dall’opposizione alla politica di sfruttamento delle risorse del sottosuolo (a detrimento delle attività più tradizionali legate all’agricoltura e alla pastorizia) sia da rivendicazioni autonomiste. Nel 2011 violente manifestazioni erano scoppiate nella lega di Xilin Gol, quando circa duemila persone erano scese in piazza per chiedere al governo centrale l’adozione di leggi a favore del rispetto dei diritti e della cultura della minoranza mongola.

L’internazionalizzazione della questione mongola costituisce una questione scottante per Pechino, che spesso, in passato, ha intensificato la repressione interna colpendo con particolare durezza gli attivisti più impegnati, per scongiurare ogni legame con quei gruppi politici più attivi come il “Partito del Popolo della Mongolia Interna” e l’“Alleanza Democratica della Mongolia meridionale”.

Pakistan

Il 25 luglio si sono tenute le elezioni nazionali in Pakistan. A due giorni dalle elezioni, i risultati non sono ancora definitivi per problemi tecnici riscontrati durante lo spoglio. Fino ad ora, si è certi che il leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) Imran Khan abbia vinto con 115 seggi su 272 totali, contro i 62 ottenuti da Shehbaz Sharif, a capo del Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N). Il terzo partito del Paese, il Pakistan Peoples Party (PPP), guidato da Bilawal Bhutto Zardari, si è attestato a 43.

Rispetto alle precedenti elezioni del 2013, il vero sconfitto è dunque il PML-N, partito di governo uscente in crisi dalle accuse di corruzione del 2016 contro il suo storico leader Nawaz Sharif (fratello di Shehbaz), arrestato il 13 luglio. Khan si è dimostrato lungimirante nel cavalcare il dissenso popolare su questo scandalo, basando gran parte del suo programma elettorale sul fenomeno della corruzione nelle istituzioni. Resta tuttavia aperta la questione sulla governabilità del Paese, poiché il PTI non ha ottenuto da solo i 137 seggi sufficienti per governare. Nonostante Khan abbia sempre rigettato l’ipotesi di alleanze politiche, sembrerebbe questa l’unica strada possibile per evitare nuove elezioni. Considerate le sue aspre critiche contro il sistema quasi dinastico della politica pakistana, che ha visto per anni al potere le due famiglie degli Sharif (PML-N) e dei Bhutto (PPP), il leader del PTI potrebbe cercare altrove le sponde necessarie ad assicurarsi la maggioranza. Accordarsi con partiti di stampo islamista radicale, come Muttahida Majlis e Amal (MMA), e Allahu Akbar Tehreek (AAT), o con contatti più o meno palesi con i gruppi di insorgenza, come Muttahida Qaumi Movement (MQM), è un’ipotesi debole, dato il principale problema del Paese: sviluppare una maggiore efficienza a livello securitario per le operazioni di contro-terrorismo e deradicalizzazione. Resterebbero dunque plausibili plurime alleanze con gli indipendenti (per lo più ex membri del PML-N) e con i piccoli partiti attivi nel Punjab e nel Balochistan (come il Pakhtunkhwa Milli Awami Parti).

Oltre a garantire l’iniziale stabilità politica, Khan dovrà affrontare un’agenda complessa che prevede principalmente le criticità di sicurezza nazionale, legate alla minaccia terroristica, e di politica estera, collegata ai recenti dissidi con gli Stati Uniti, la contesa del Kashmir con l’India ed i recenti accordi economici con la Cina.

Stati Uniti

Lo scorso 25 luglio si è tenuto a Washington un summit tra il Presidente statunitense Donald Trump e il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. L’incontro, fortemente atteso, giunge dopo settimane di forti tensioni tra Bruxelles e Washington per quanto riguarda le relazioni commerciali. In seguito all’aumento dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio voluto da Trump (rispettivamente al 25% e 10%), l’Europa aveva risposto, lo scorso giugno, mettendo in campo a sua volta una serie di contromisure, volte a colpire 2.8 miliardi di prodotti statunitensi, tra cui le motociclette Harley-Davidson, il Bourbon whisky e i jeans Levi’s. A fronte di ciò, lo scorso 23 maggio, la Casa Bianca ha commissionato al Dipartimento del Commercio uno studio circa i rischi per la sicurezza economica del Paese derivanti dalle importazioni di automobili europee, minacciando di innalzare ulteriori barriere protezioniste su un settore strategico per l’Unione Europea.

Il summit è stato funzionale a distendere i toni Europa e Stati Uniti e sembra aver scongiurato, almeno per il prossimo futuro, il rischio di una guerra commerciale. Secondo quanto dichiarato da Junker, l’Europa lavorerà per aumentare le importazioni di mangimi, prodotti di soia e gas naturale liquefatto (LNG) dagli Stati Uniti. Da parte sua, Washington si impegnerà invece a sospendere qualsiasi altra iniziativa protezionista nei confronti di Bruxelles. Juncker e Trump hanno inoltre affermato la propria volontà di abbattere, nel lungo termine, la quasi totalità delle imposte sulle importazioni attualmente in vigore da un lato all’altro dell’Atlantico. Nonostante Trump abbia trionfalmente annunciato una nuova fase per i rapporti transatlantici, l’incontro si è concluso di fatto con una semplice difesa dello status quo. Gli Stati Uniti potranno finalmente affacciarsi sul mercato energetico europeo, i dazi sull’acciaio resteranno, per lo meno nel breve termine, mentre nessun dettaglio è stato fornito circa l’iniziativa di abbattere le barriere commerciali. Il cambiamento repentino delle posizioni di Trump, sembra corroborare l’ipotesi secondo la quale il Presidente americano stia semplicemente utilizzando la minaccia protezionista come arma politica per negoziare termini più vantaggiosi per il proprio Paese.

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