Geopolitical Weekly n. 296

Geopolitical Weekly n. 296

Di Giulia Lillo
14.06.2018

Corea del Nord

Il 12 giugno il Presidente statunitense Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un si sono incontrati sull’isola di Sentosa, a Singapore, per dare il via al primo vertice di massimo livello tra i due Paesi. Lo storico faccia a faccia ha condotto alla firma di un documento di ampio respiro, i cui dettagli non sono ancora stati resi noti ma nel quale si prospetta una serie di impegni reciproci. Oltre alla spinosa questione della denuclearizzazione, tra i punti del documento figurano l’impegno a stabilire nuove relazioni bilaterali, lo sforzo comune per eliminare le tensioni, l’impegno a recuperare le spoglie dei soldati americani dichiarati Missing in action (Mia) durante la guerra di Corea e l’immediato rimpatrio delle spoglie di quanti sono già stati identificati.

Nonostante sia stato accolto da entrambe le parti come un successo, il documento accenna solo in modo indeterminato ad aspetti fondamentali, sui quali di baserà l’effettiva realizzazione delle intenzioni dichiarate a Singapore. Innanzitutto, il testo non specifica secondo quali modalità si dovrà procedere alla denuclearizzazione della Penisola, lasciando spazio a possibili interpretazioni differenti da parte dei due Stati. In secondo luogo, non viene fatto cenno al sollevamento delle sanzioni economiche imposte dalla Comunità Internazionale l’anno scorso, che hanno messo a dura prova la tenuta delle case del regime. Proprio il discorso economico rappresenta una priorità per Kim Jong-un, che ha sempre guardato al rafforzamento dell’economia come ad uno dei due pilastri della propria politica (dopo l’acquisizione di una capacità di deterrenza atomica).

Spetterà ora ai negoziatori, incaricati dai due leader a portare avanti le trattative e capeggiati dal Segretario di Stato Pompeo e da un ufficiale di alto livello di Pyongyang, sciogliere i nodi della matassa e provare a trovare dei punti di convergenza. Un’eventuale intransigenza da entrambe le parti potrebbe rendere particolarmente complesse le future negoziazioni e smorzare sul nascere ogni possibile sostenibilità del dialogo appena instaurato nel medio-lungo periodo.

Vietnam

A partire dallo scorso 9 giugno, centinaia di manifestanti sono scesi per le strade di Ho Chi Minh City, Hanoi e nella provincia centrale di Binh Thuan  per protestare contro la legge sulle Unità Amministrative ed Economiche Speciali di Vân Đồn (nella provincia settentrionale di Quảng Ninh), Bắc Vân Phong (nella provincia centrale di Khánh Hòa) e sull’isola di Phú Quốc (nella provincia meridionale di Kiên Giang). Il provvedimento, infatti, pensato per agevolare gli investimenti stranieri nel Paese, concederebbe alle aziende privilegi speciali nelle attività di produzione e di commercio, tra i quali l’acquisizione dei diritti di sfruttamento di queste aree per 99 anni, estendendo ulteriormente il periodo previsto dagli attuali contratti di locazione. Attraversate da sentimenti anti-cinesi, le manifestazioni sono talvolta sfociate in scontri con le Forze di polizia, che hanno portato al fermo di circa 200 persone.

Il forte malcontento trova spiegazione nel timore diffuso tra la popolazione che il disegno di legge possa accrescere ulteriormente l’influenza della Cina nel Paese e portare ad una perdita di qualsiasi forma di controllo e autorità da parte delle autorità vietnamite su quelle aree. Le autorità vietnamite guardano con grande preoccupazione alle manifestazioni di stampo anti-cinese in quanto potrebbero diventare sia un pericoloso focolaio di instabilità interna sia un motivo di tensione con il vicino.

Per il Vietnam, il rapporto con Pechino rappresenta una questione di grande delicatezza. Da un lato, infatti, la delocalizzazione delle attività produttive delle aziende cinesi in territorio vietnamita e i rapporti commerciali, legano pesantemente la stabilità finanziaria di Hanoi al rapporto con la Cina. Dall’altro, il Vietnam subisce la competizione con Pechino nell’ambito delle dispute marittime all’interno del Mar Cinese Meridionale. Un eventuale rafforzamento dell’influenza economica cinese sul Paese potrebbe ridurre ai minimi termini i margini di manovra per il governo vietnamita nel cercare di far valere i propri interessi nazionali nelle isole Paracel e Spratly, su parte delle quali il Vietnam rivendica la propria sovranità.

Yemen

Il 13 giugno, la coalizione a guida saudita-emiratina ha lanciato un’offensiva sulla città portuale di Hodeida, a sud-ovest dello Yemen e affacciata sul Mar Rosso, controllata dai ribelli Houthi. L’operazione (ribattezzata Vittoria Dorata) vede la partecipazione dell’Aeronautica della coalizione a supporto delle forze terrestri. Tra queste, si segnalano reparti emiratini e sudanesi; le forze fedeli a Tareq Saleh, il nipote dell’ex Presidente che da dicembre scorso ha rinnegato la sua alleanza con gli Houthi e ha catalizzato attorno a sé alcuni reparti della Guardia Repubblicana; le Giants Brigade fedeli all’attuale Presidente Hadi; forze locali a base tribale inquadrate nella Tihama Resistance; e una compagine legata al movimento secessionista dello Yemen meridionale.

Il Paese è dilaniato dalla guerra civile dal 21 marzo 2015 a causa della contrapposizione di due schieramenti che rivendicano la legittimità del potere: gli Houthi, un gruppo sciita zaydita, saldamente in controllo del nord-ovest del Paese, e le forze del governo del presidente Rabbo Mansour Hadi, deposto con un colpo di stato il 22 gennaio 2015, ma ancora riconosciuto dalla Comunità Internazionale. Lo stallo nel conflitto ha logorato entrambi gli schieramenti, portando a lotte intestine come quella tra gli Houthi e l’ex Presidente Saleh, o ancora a tensioni tra le forze di Hadi sponsorizzate dall’Arabia Saudita e i secessionisti del sud, di tendenza salafita e appoggiati dagli Emirati. Dunque, l’offensiva della coalizione su Hodeida è affidata a un ombrello di forze disomogenee, i cui obiettivi politici sono in evidente contrasto, ma che, in questa fase, hanno trovato una convergenza tattica per far fronte comune contro gli Houthi.

Se l’offensiva arriva in un momento di difficoltà per la compagine degli Houthi, che da dicembre hanno subito defezioni a causa della rottura dell’asse con la famiglia Saleh, l’attacco a Hodeida potrebbe incidere notevolmente anche sulla ripresa del processo di pace. Infatti, entro la fine del mese sarebbe dovuta avvenire la presentazione della nuova Road map da parte dell’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, al fine di rilanciare le negoziazioni. Si potrebbe quindi assistere ad un irrigidimento di entrambe le parti nell’avvicinarsi al tavolo delle trattative. È quindi possibile che l’attacco a Hodeida prolunghi gli scontri, inasprendo inoltre le condizioni della popolazione e lasciando milioni di yemeniti senza cibo, carburante e altri generi di prima necessità, dl momento che Hodeida è uno snodo logistico centrale da cui transita il 70% degli aiuti umanitari.

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